Come procede la COP30 in Brasile? Intervista a Laura Greco da Bélem

Abbiamo intervistato Laura Greco, presidente di A Sud, che si trova attualmente a Bélem in Brasile, per seguire i lavori della Conferenza delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico arrivata alla sua trentesima edizione (COP30). A Sud si definisce un’organizzazione ecologista indipendente, radicale, orizzontale, femminista. La sua missione è indagare le cause delle crisi ambientali individuandone le responsabilità, di difendere i diritti umani, di costruire strumenti di conoscenza, consapevolezza e azione per le comunità locali. La presenza di A Sud alla COP30 in qualità di osservatori rappresenta un’occasione per comprendere cosa avviene dentro e fuori le negoziazioni, ma anche per dare spazio e voce ai territori in lotta contro l’estrattivismo e il greenwashing, per una transizione ecologica realmente giusta.
Quali passi in avanti sono stati fatti per la giustizia climatica dalla conferenza sul clima di Parigi nel 2015?
La questione della giustizia climatica ha visto alcuni passi avanti significativi negli ultimi anni, anche se i risultati concreti restano in parte limitati a livello globale. Da Parigi in poi, la governance globale e il multilateralismo sono stati intensamente coinvolti nella definizione di obiettivi e target per contrastare i cambiamenti climatici, con un impegno crescente nel riconoscere e affrontare le disuguaglianze sociali e ambientali connesse ai danni climatici. Tuttavia, alcuni dei grandi risultati in termini di giustizia climatica sono stati raggiunti al di fuori dei negoziati ufficiali delle COP, specialmente grazie a iniziative legali e giudiziarie che hanno posto in evidenza il legame tra cambiamento climatico e violazioni dei diritti umani.
Dal 2015, con l’Accordo di Parigi, l’approccio alle questioni climatiche è cambiato significativamente, portando a una maggiore attenzione verso l’inclusione delle parti vulnerabili. L’Accordo di Parigi, infatti, ha definito obiettivi di limitazione del riscaldamento globale, con un target ambizioso di contenere l’aumento della temperatura media sotto i 1,5°C rispetto ai livelli pre-industriali. Per alcuni aspetti, la comunità internazionale ha fatto progressi. A partire da Parigi, sono stati istituiti meccanismi di finanziamento come il Green Climate Fund e il Loss and Damage Fund, che puntano a supportare i paesi più vulnerabili e a finanziare politiche di adattamento e mitigazione. In particolare, la protezione delle foreste e le misure di adattamento sono diventate un punto centrale, grazie anche al rafforzamento dei processi partecipativi che hanno visto l’inclusione di comunità indigene e afrodiscendenti nelle discussioni.
Tuttavia, nonostante questi progressi, alcune questioni rimangono irrisolte, in particolare la trasparenza e la verifica del rispetto degli impegni presi da parte dei paesi più ricchi. Un altro aspetto critico è la finanza climatica, che è ancora insufficiente rispetto ai bisogni reali delle nazioni vulnerabili.
Da alcuni anni il diritto al clima è stato riconosciuto da varie corti: come procede questa strategia per la giustizia climatica?
Uno dei passi più significativi verso la giustizia climatica è stato il parere della Corte Internazionale di Giustizia che ha riconosciuto, nel luglio 2025, che i diritti umani sono gravemente minacciati dai cambiamenti climatici. La sentenza ha dichiarato che gli Stati sono obbligati a ridurre le emissioni di gas serra per tutelare i diritti fondamentali della popolazione globale, in particolare delle persone vulnerabili, come le comunità indigene e le popolazioni afrodiscendenti. Questo verdetto giuridicamente innovativo crea un precedente importantissimo che apre a cause legali sui cambiamenti climatici in tutto il mondo e pone le basi per battaglie legali che possano riconoscere le violazioni dei diritti umani dovute ai danni ambientali e climatici. La decisione della Corte ha avuto un impatto diretto sulle politiche nazionali, costringendo molti paesi a riconsiderare le loro politiche climatiche in ottica di giustizia sociale e ambientale.
Quali altri passi in avanti si registrano?
Un aspetto fondamentale delle recenti COP è stato il crescente coinvolgimento delle comunità indigene e afrodiscendenti nelle discussioni globali. A partire dalla COP26, si è registrato un rafforzamento dei processi partecipativi che hanno dato voce a queste comunità, da sempre le più colpite dai cambiamenti climatici. La presenza e la centralità di leader indigeni, come Sônia Guajajara in Brasile, e delle donne afrodiscendenti, hanno contribuito ad amplificare la visibilità dei loro diritti territoriali e culturali. Le discussioni sul Loss and Damage e la protezione delle foreste, attraverso la gestione diretta delle comunità locali, hanno portato a un riconoscimento maggiore del loro ruolo centrale nella protezione degli ecosistemi e nella riduzione delle emissioni. In questa COP sono stati accrediti nelle zone ufficiali 360 rappresentanti indigeni, il più alto numero di delegazioni indigene mai rilevato nella storia delle COP.
Un altro passo fondamentale è stato il discorso del presidente colombiano Gustavo Petro durante questa COP30, dove ha annunciato ufficialmente la strategia di uscita dal petrolio e dal gas. La Colombia ha dichiarato di voler chiudere il ciclo dei combustibili fossili, diventando uno dei primi paesi produttori di petrolio a fare una dichiarazione di transizione energetica totale, puntando su energie rinnovabili. Questa decisione è vista come un’importante presa di posizione politica che segna una svolta nelle politiche energetiche globali, e si inserisce nella crescente richiesta di un abbandono progressivo dei combustibili fossili.
Qual è il ruolo dei movimenti climatici?
Gli attivisti per la giustizia climatica e i movimenti sociali sono stati determinanti nell’affermare obiettivi più ambiziosi per il clima, come il phasing out dei combustibili fossili e il transitioning out verso sistemi energetici sostenibili. Questi movimenti hanno fatto pressione per l’introduzione di un meccanismo di giustizia climatica che garantisca un’uscita equa dai combustibili fossili, con particolare attenzione alle comunità vulnerabili che dipendono dai settori fossili per il loro sostentamento.
Nonostante i passi avanti significativi, come la sentenza della Corte di Giustizia internazionale e i progressi nelle politiche di adattamento e finanziamento per i paesi vulnerabili, restano molte sfide. La giustizia climatica deve ancora fare i conti con la mancanza di azioni concrete da parte dei paesi più ricchi e delle multinazionali dei combustibili fossili. La sfida futura rimane quella di rompere i legami tra i poteri economici e politici che ostacolano una transizione giusta. Su questo terreno i movimenti per il clima hanno certamente un ruolo fondamentale da svolgere.
Quali sono gli spazi di partecipazione alla COP30 per le comunità indigene e le organizzazioni della società civile ?
La COP30 ha visto una forte partecipazione delle comunità indigene e delle organizzazioni sociali, nonostante le difficoltà logistiche e politiche. La Cupula dos Povos, evento parallelo al vertice, ha dato voce a movimenti come i Sem Terra, le comunità indigene andine e amazzoniche, le organizzazioni femministe e i sindacati. In cinque giornate di mobilitazioni, è stato consegnato un documento al presidente della COP30, Andrea Correa do Lago, contenente le richieste centrali: il ruolo cruciale dei popoli indigeni e delle donne, l’uscita immediata dai combustibili fossili, una transizione giusta e il rifiuto delle false soluzioni come i crediti di carbonio.
Il cuore dell’Amazzonia, pur con la forte presenza di movimenti locali, è rimasto difficile da raggiungere per molte delegazioni internazionali, con poche presenze dall’Europa e dall’Africa. Tuttavia, 70.000 persone hanno partecipato alla manifestazione di sabato scorso [15 novembre, ndr], lanciando un messaggio chiaro: “morte ai fossili, i diritti delle persone al centro”.
Le proteste indigene sono state significative, come il blocco del popolo Munduruku che ha fermato l’ingresso alla COP30 per protestare contro i progetti estrattivi e la vendita di crediti di carbonio. La risposta delle autorità, con un rafforzato dispositivo di sicurezza e repressione, ha sollevato preoccupazioni, tanto che più di 170 organizzazioni hanno chiesto a Simon Stiell, segretario della United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC), di ridurre la militarizzazione e riconoscere i diritti dei popoli indigeni.
La COP30, pur promettendo di essere un’occasione di inclusione, ha mostrato un paradosso: un’apertura simbolica alle comunità indigene, ma con scelte politiche che continuano a privilegiare gli interessi economici e industriali. In risposta, i movimenti indigeni hanno lanciato la campagna “A resposta somos nós” (“La risposta siamo noi”), chiedendo una mobilitazione internazionale per proteggere i loro territori e affrontare la crisi climatica alla radice, opponendosi alle soluzioni finanziarie come il Tropical Forest Forever Facility (TFFF) e alle false compensazioni climatiche.
Tra le proposte della Cupula dos Povos, c’è stato un forte impegno per cambiare radicalmente il modo in cui i negoziati sul clima sono gestiti, con il rafforzamento del ruolo dei gruppi vulnerabili, l’urgenza di abbandonare i combustibili fossili, la protezione delle terre indigene, il rispetto dei diritti umani e la protezione dei difensori ambientali.
Nonostante le contraddizioni politiche, la COP30 ha visto una partecipazione popolare senza precedenti. Tuttavia, la vera sfida sarà tradurre le proposte e le richieste dei movimenti in azioni concrete, evitando che gli spazi di partecipazione restino solo simbolici. La COP30 potrebbe rappresentare l’inizio di una nuova era di attivismo climatico globale, con la necessità di difendere e rilanciare l’inclusione e il coinvolgimento di tutti i popoli nella lotta contro il cambiamento climatico.
Come interpreti la massiccia presenza della lobby del fossile alla COP30?
La presenza massiccia dei lobbisti dei combustibili fossili alla COP30 rappresenta un chiaro conflitto di interessi che mina la credibilità e l’efficacia del processo negoziale sul clima. Come hanno documentato sia la campagna Fossil Free Politics (FFP) che la coalizione Kick Big Polluters Out (KBPO), quest’anno oltre 1600 lobbisti sono stati accreditati al vertice, con un lobbista ogni 25 delegati, un dato che segna un aumento del 12% rispetto alla COP29. Questo riflette un crescente potere di influenza delle grandi compagnie fossili all’interno dei negoziati sul cambiamento climatico. La loro presenza non è solo numerica, ma ha un impatto concreto sulla direzione delle politiche globali.
Le compagnie fossili non sono solo spettatori passivi, ma protagonisti attivi che, oltre a difendere il loro modello di business, sono presenti per proteggere i propri interessi economici. Il loro obiettivo principale è il mantenimento dello status quo, facendo leva su compensazioni climatiche e finanza verde, come i crediti di carbonio, per continuare a speculare sulla crisi. In pratica, i fondi destinati alla protezione delle foreste e alla gestione delle risorse naturali finiscono spesso per essere utilizzati in modo distorto, favorendo le stesse logiche industriali che causano la crisi climatica.
Questo scenario evidenzia un problema strutturale: mentre i lobbisti fossili sono protagonisti nei negoziati, i paesi vulnerabili e le comunità locali, che sono le più colpite dai cambiamenti climatici, non hanno la stessa forza di influenza. I dati rivelano che i lobbisti fossili sono più numerosi delle delegazioni di tutti i paesi vulnerabili messi insieme, tranne il paese ospitante, il Brasile. Questo squilibrio di potere non fa che ostacolare un vero progresso verso l’abbandono delle fonti fossili e l’adozione di politiche climatiche giuste e inclusive. Come possiamo realmente affrontare la crisi climatica se i principali responsabili della sua esistenza continuano a sedere ai tavoli decisionali?
La presenza di lobbisti fossili alla COP30 non è una novità, ma un fenomeno che si è consolidato nel tempo. Già dalla COP21 di Parigi in poi, le compagnie fossili hanno intensificato la loro attività di lobbying, cercando di esercitare pressioni dirette sui processi decisionali, mentre si dichiarano in disaccordo con le politiche che potrebbero compromettere i loro guadagni. Queste pressioni politiche sono state così forti che, ad esempio, le aziende fossili sono riuscite a far entrare rappresentanti ufficiali nelle delegazioni, in gruppi di lavoro e in iniziative “verdi” sponsorizzate da loro stesse.
Nonostante le iniziative di trasparenza che hanno visto una parziale esclusione dei lobbisti dalle delegazioni ufficiali, le politiche adottate non sono ancora sufficienti a limitare l’influenza di queste compagnie sui negoziati sul clima. A novembre 2025, la Commissione Europea ha deciso di non accreditarli nelle delegazioni ufficiali, ma alcuni Stati membri hanno comunque accreditato 84 lobbisti, tra cui rappresentanti di Enel, Edison, Acea e Confindustria. Questo dimostra che, nonostante i progressi, le compagnie fossili continuano ad avere un’influenza sostanziale sulle politiche climatiche globali.
Per A Sud e le altre organizzazioni che fanno parte della coalizione KBPO, la presenza di questi lobbisti alla COP30 è un chiaro esempio di un conflitto di interessi strutturale. Se vogliamo affrontare seriamente la crisi climatica, non possiamo permettere che chi guadagna dal riscaldamento globale continui a dettare le politiche climatiche. La soluzione non sta solo nel negoziare soluzioni tecniche o finanziarie, ma nel rompere il legame tra gli interessi economici dei grandi inquinatori e le politiche globali sul clima.
Il prossimo passo deve essere quello di stabilire un codice di incompatibilità che escluda le lobby fossili dai negoziati e protegga le decisioni climatiche dalle influenze che minano la giustizia sociale ed ecologica.
Quali anticipazioni e valutazioni è possibile fare sulle conclusioni della COP30?
A metà della COP30, le prospettive non sono particolarmente ottimistiche. A dieci anni dall’Accordo di Parigi, questa COP aveva la responsabilità di fare un passo decisivo verso l’abbandono dei combustibili fossili e colmare il divario di ambizione globale che ancora mette a rischio le comunità più vulnerabili in tutto il mondo. Tuttavia, le discussioni su un phase-out globale dai combustibili fossili sono ancora ben lontane dal portare a una roadmap concreta. Nonostante l’impegno della Colombia, che ha cercato di costruire una coalizione politica per questa causa, il consenso internazionale necessario per realizzare questo obiettivo appare difficile da raggiungere. I negoziatori si trovano ad affrontare un compito arduo nei prossimi giorni, cercando di trasformare dichiarazioni politiche in azioni concrete.
Un altro tema importante in discussione è la proposta del Belém Action Mechanism (BAM), sostenuta dal G77, che punta a creare un quadro globale per la Giusta Transizione. Questa iniziativa mira a coordinare progetti, iniziative e finanziamenti per mettere al centro le persone e i diritti. Anche in questo caso, però, la strada è ancora lunga, con molte difficoltà nell’attuazione delle idee proposte.
Il nodo cruciale resta la finanza climatica. In tutte le aree dei negoziati — mitigazione, adattamento, transizione giusta — la questione fondamentale è che senza finanziamenti reali e prevedibili, non ci sarà implementazione delle politiche. I paesi in via di sviluppo continuano a chiedere finanziamenti basati su sovvenzioni, ma i paesi industrializzati rifiutano di impegnarsi su obblighi concreti, alimentando frustrazione e incertezze. La recente riunione sull’Adaptation Fund (AF) ha visto l’ennesimo fallimento: nonostante le aspettative, i finanziamenti promessi non sono nemmeno riusciti a raggiungere metà dell’obiettivo già ridotto di 300 milioni di dollari l’anno. Questo è un segnale preoccupante, che evidenzia la mancanza di volontà politica da parte dei paesi più ricchi di rispettare gli impegni presi a Parigi.
In sintesi, le prospettive per la COP30 restano incerte. Sebbene ci siano stati alcuni passi avanti, come la leadership della Colombia, è evidente che manca ancora un impegno concreto da parte dei paesi industrializzati per affrontare le cause strutturali della crisi climatica.
[Intervista chiusa in redazione il 18 novembre 2025]


