sabato, Novembre 23, 2024
DirittiSalute

Come prendere le distanze

di Christian Bermes

 

Il virus modifica il gioco tra vicinanza e distanza. Ma non modifica tutto, come vorrebbe far credere una certa retorica della crisi.

Gli esseri umani non esistono semplicemente, non si integrano senza fratture in un ambiente naturale, ma prendono in mano la loro vita e danno forma al loro mondo. In altre parole: gli esseri umani vivono conducendo la propria esistenza. Questo assunto fondamentale dell’antropologia filosofica del ventesimo secolo racchiude in sé anche la tesi che gli esseri umani prendono posizione nei confronti di se stessi. A ciò è associata un’immagine, una ‘formula interpretativa’, senza la quale è messa a rischio l’esistenza naturale dell’umanità come forma di vita culturale, cioè come forma di vita che tiene a se stessa e al suo mondo.

Nello stato di crisi attuale circolano alcune interpretazioni, la cui adeguatezza risulta essere non poco discutibile. Infatti, non è stato proclamato uno “stato di eccezione” nel senso di Carl Schmitt, né ci troviamo in una situazione paradossale di vicinanza e distanza, che non possa essere gestita. Anzi, proprio il topos del distanziamento sociale si rivela essere molto più che una semplice disposizione amministrativa. Con i concetti di distanza e distanziamento si profila, infatti, non solo il principio secondo cui gli esseri umani “hanno una vita”, ma anche il principio secondo cui gli esseri umani “conducono una vita”. Sono proprio le possibilità del distanziamento che determinano la vita umana e il mondo dell’umanità, la cultura.

Tuttavia, si potrebbe pensare che, con la minaccia di una pandemia che si propaga velocemente e mette a repentaglio la vita, e sotto le rigorose misure di contenimento conseguentemente adottate, il modo in cui gli esseri umani conducono la propria vita sia stato invalidato, e gli schemi interpretativi della nostra esistenza siano stati soppressi. Ed è così che alcune voci eminenti ritengono che, separati spazialmente gli uni dagli altri, gli esseri umani non siano più in grado di vivere la propria vita, e che formule interpretative della nostra identità personale, sociale e politica che si sono sinora ritenute valide siano andate perdute, come, per esempio, quella dello sviluppo individuale.

Ma un tale timore è giustificato? Viviamo veramente in uno stato di eccezione politico non più controllabile e istituito in via permanente? E la distanza sociale è veramente qualcosa di inconsueto, estraneo, minaccioso, di cui bisogna aver paura?

Nella momentanea limitazione della libertà di riunione, nella chiusura temporanea di scuole e università, ma anche nella chiusura parziale delle attività commerciali, così come nella forte regolamentazione dello spazio pubblico e privato, Giorgio Agamben riconosce uno stato di eccezione politicamente imposto, che è diventato normalità. Di conseguenza, egli ritiene che l’esistenza umana venga ridotta al puro fatto della “nuda vita”, e le libertà vengano messe in discussione in modo sostanziale. Secondo Agamben, un tale sviluppo è osservabile in Italia, in seguito alle misure rigorose adottate per combattere l’epidemia da coronavirus.

Tuttavia, credere che ciò riguardi contemporaneamente tutti i governi del mondo, indipendentemente dalle loro rispettive strutture costituzionali e dai rispettivi orientamenti ideologici, e, inoltre, credere che l’intera umanità si pieghi in modo silente a un tale diktat sembra, più che altro, una distopia da film. Ed è inutile anche cercare di creare un tale stato di eccezione evocandolo con la sola forza della parola.

Ma anche il fatto che Slavoj Žižek ritenga che la normalità dopo la pandemia sarà un’altra rispetto a prima, deve destare stupore. È legittimo chiedersi di quale “normalità” si stia parlando esattamente, e da quale posizione venga espresso un giudizio così netto. Secondo Žižek, inoltre, comprendere che le abitudini quotidiane, come il far visita agli amici o il festeggiare insieme, siano messe in discussione, rappresenterebbe una sfida metafisica. Ma queste considerazioni non rendono giustizia né alla metafisica, né alla vita.

Che solidarietà e distanza facciano insieme la loro comparsa è tutt’altro che paradossale. Esse non si escludono a vicenda. Se la solidarietà dipendesse dall’intimità, nelle società moderne non esisterebbero né la solidarietà né le comunità solidali. Per convincere gli altri ad appoggiare una causa comune, non è necessario sopraffarli. Allo stesso modo, la simpatia non consiste nel sostituirsi all’altro e prenderne il posto (e quindi perdere il proprio). La ‘‘cosa straordinaria” della simpatia (come ci ricorda Max Scheler1) consiste, invece, nella possibilità, propriamente umana, di un sentire insieme a distanza.

Se oggi si parla di social distancing come una misura contro la diffusione della pandemia da coronavirus, si tratta, da un lato, di un concetto tecnico. Con esso viene individuato uno strumento sanitario e socio-politico per arrestare o rallentare le epidemie. Il concetto non indica una misura farmaceutica, sebbene la traduzione di social distancing come distanziamento sociale necessiti di un chiarimento. Con esso, infatti, si intende una distanza spaziale, e non si esprime alcun tipo di valutazione sociale.

D’altro canto, tuttavia, il distanziamento non è solo uno strumento di controllo tecnico-sociale per arrestare la catena infettiva. Esso indica anche un principio della vita propriamente umana e della creazione di un mondo comune. Il distanziamento non è per niente estraneo al genere umano. Non lo si deve temere né demonizzare, poiché gli uomini vivono e conducono la propria vita ponendo, modificando, creando, mantenendo o superando distanze: senza rispetto e tutela della distanza l’uomo non potrebbe sopravvivere. E senza una mediazione delle distanze non esisterebbe il mondo in cui l’essere umano vive. Questa dialettica tra vicinanza e distanza si rende, oggi, nuovamente visibile, e farà parlare di sé ancora a lungo.

La possibilità di distanziarsi e di gestire distanze caratterizza la forma di vita propriamente umana. Il continuo riequilibrarsi tra vicinanza e distanza è tutt’altro che nuovo o eccezionale: esso ha sede nella vita dell’uomo. Anche la più grande vicinanza è comprensibile come vicinanza umana solo attraverso una distanza. Sul finire del diciannovesimo secolo, nella sua Filosofia del denaro, Georg Simmel descrive “l’essere pressati l’uno accanto all’altro e il variopinto incrociarsi del traffico delle grandi città” che, quale istanza distanziante, sarebbe “semplicemente insopportabile”, senza la mediazione del denaro2. “Il fatto che nella civiltà urbana con i suoi traffici e le sue relazioni commerciali, professionali e sociali ci si muova così addossati l’uno all’altro, farebbe cadere l’uomo moderno, sensibile e nervoso, in uno stato di completa disperazione”. Anche la più stretta vicinanza è sempre mediata, è una vicinanza distanziata. E anche la più grande distanza non è raggiungibile senza un avvicinamento che faccia da mediazione. Questa dialettica contraddistingue la cultura come mondo dell’essere umano.

Helmuth Plessner designa l’habitus della distanza come una virtù della società moderna che si esprime, tra l’altro, nella necessità del tatto. Colui che non mantiene le distanze manca di tatto. Nella società moderna non si può discutere sulla possibilità di giocare o meno al “gioco delle distanze reciproche”. Si possono solamente affinare le mosse e curare le regole del gioco, o anche disimpararle e diventare, così, senza tatto. Non stupisce, quindi, che Hans Blumenberg, profondo conoscitore dell’antropologia filosofica e della filosofia culturale, alla domanda su come sia possibile l’essere umano, risponda semplicemente: “attraverso la distanza”.

Gli esseri umani prendono distanze per salvaguardare la vita, gestiscono distanze per condurre la propria vita, e mediano distanze per creare nuove forme di vicinanza indiretta. Ovviamente, ci si deve interrogare sull’idoneità di singole misure politiche attualmente adottate. Le conseguenze economiche, che non sono già quasi più calcolabili, e meno ancora prevedibili, segnano già ora profondamente il fare politico; e lo determineranno anche in futuro, sia a livello nazionale, che internazionale. Inoltre, non si deve perdere di vista che ci sono delle differenze tra un distanziamento deciso di proprio conto, uno consigliato, uno subito e uno prescritto. E chiaramente le limitazioni vengono vissute come opprimenti in condizioni di vita ben determinate: nel contesto familiare, tra amici, ma anche in ambito professionale.

In tali situazioni, il giudizio politico, che deve tener conto di più di una prospettiva, non può essere delegato. Proprio in queste circostanze esso è maggiormente richiesto. E ci si deve anche interrogare su quella dubbia retorica che, occasionalmente, si impone. Nessuno, per esempio, si trova “in guerra”. Ma anche quei modi di dire secondo cui la società si troverebbe in uno stato di coma, sarebbe spenta o addirittura immobilizzata, sono pressoché inutili. Piuttosto, si osserva ovunque il contrario: massima attenzione e vigilanza.

Inoltre, bisogna riflettere con urgenza su come revocare le misure adottate. E questa è sicuramente una delle questioni più complesse. L’azione politica non può limitarsi a gestire solo il presente. Soprattutto ora, il suo sguardo deve spingersi oltre, poiché, in futuro, non si potrà porre fine alla plasticità del gioco culturale tra vicinanza e distanza, che, attualmente, è messo a dura prova.

(Traduzione di Giovanna Caruso)

Fonte: Frankfurter Allgemeine Zeitung, 8 aprile 2020.

 

Christian Bermes è professore ordinario di Filosofia presso il Dipartimento di filosofia dell’Università di Koblenz-Landau, nonché editore della Zeitschrift für Kulturphilosophie, e dell’Archiv für Begriffsgeschichte.

 

Note

1 Max Scheler, Wesen und Formen der Sympathie, 1923 (trad. it. Essenza e forme della simpatia, a cura di Laura Boella, FrancoAngeli, Milano, 1969).

2 Georg Simmel, Philosophie des Geldes, 1900 (trad. it. Filosofia del denaro, a cura di Alessandro Cavalli e Lucio Perucchi, Ledizioni, Milano, 2013), pp. 411-412.