giovedì, Aprile 25, 2024
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Buttare giù le statue serve a elaborare la storia

Il movimento antirazzista globale, sviluppatosi a seguito dell’uccisione di George Floyd , è diventato anche una battaglia per la memoria, investendo i monumenti esposti negli spazi pubblici. Enzo Traverso, su Jacobin Italia, analizza le ragioni per cui l’establishment ha generalmente bollato come “furia iconoclasta” gli abbattimenti, le rimozioni o gli imbrattamenti di statue dedicate a vari personaggi che hanno svolto un ruolo nella storia del colonialismo, nella schiavitù e nel razzismo. Questo movimento non ha l’obiettivo di cancellare il passato, quanto piuttosto di far sentire la voce delle minoranze: voce fin qui sopraffatta dalla memoria unilaterale dei ceti dominanti. Rovesciare i simboli dell’oppressione coloniale è, dunque, un atto profondamente politico. Lontana dall’essere una banale negazione della storia, l’iconoclastia antirazzista di oggi vuole diffondere una rilettura critica della storia attraverso lo sguardo dei “vinti”, da cui partire per ridiscutere i fondamenti stessi della società e la persistenza in essa dei rapporti di potere nati con il colonialismo.

 

di Enzo Traverso

 

L’antirazzismo è una battaglia per la memoria. Ecco una delle caratteristiche più notevoli dell’ondata di proteste che è sorta in tutto il mondo dopo l’uccisione di George Floyd a Minneapolis. Ovunque, i movimenti antirazzisti hanno messo in discussione il passato prendendo di mira monumenti che simboleggiano l’eredità della schiavitù e del colonialismo: il generale confederato Robert E. Lee in Virginia; Theodore Roosevelt a New York City; Cristoforo Colombo in molte città degli Stati uniti; il re belga Leopoldo II a Bruxelles; il commerciante di schiavi Edward Colston a Bristol; Jean-Baptiste Colbert, ministro delle finanze di Luigi XIV e autore del famigerato Code Noir in Francia; il padre del giornalismo moderno italiano ed ex propagandista del colonialismo fascista, Indro Montanelli, e così via.

Indipendentemente dal fatto che vengano rovesciate, distrutte, dipinte o ricoperte di graffiti, queste statue rappresentano una nuova dimensione della lotta: la relazione tra diritti e memoria. Sottolineano il contrasto tra lo status dei neri e dei soggetti postcoloniali come minoranze stigmatizzate e brutalizzate e il luogo simbolico concesso nello spazio pubblico ai loro oppressori, uno spazio che costituisce anche l’ambiente urbano della nostra vita quotidiana.

 

Moti di iconoclastia

È noto che le rivoluzioni possiedono una «furia iconoclasta». Che sia spontanea, come la distruzione di chiese, croci e reliquie cattoliche durante i primi mesi della guerra civile spagnola, o più attentamente pianificata, come la demolizione della colonna Vendôme durante la Comune di Parigi, questo scoppio di iconoclastia definisce qualsiasi rovesciamento dell’ordine stabilito.

Il regista Sergei Eisenstein fa cominciare Ottobre, il suo capolavoro sulla Rivoluzione russa, con le immagini della folla che fa cadere una statua dello zar Alessandro III, e nel 1956 gli insorti di Budapest distrussero la statua di Stalin. Nel 2003 – come conferma inconsapevolmente ironica di questa regola storica – le truppe statunitensi inscenarono la caduta di una statua di Saddam Hussein a Baghdad, con la complicità di molte emittenti televisive, nel tentativo di mascherare la loro occupazione da rivolta popolare.

Al contrario, quando l’iconoclastia dei movimenti di protesta è autentica suscita immancabilmente reazioni indignate. I Comunardi furono raffigurati come «vandali» e Gustave Courbet, uno dei responsabili della caduta della colonna, gettato in prigione. Quanto agli anarchici spagnoli, furono condannati come feroci barbari. Un simile oltraggio è sbocciato nelle ultime settimane.

Boris Johnson si è scandalizzato quando su una statua di Churchill è stato vergato il titolo di «razzista», un fatto per il quale esiste un consenso accademico, legato ai dibattiti di questi anni sia sulla sua rappresentazione degli africani che sulla sua responsabilità per la carestia del Bengala nel 1943. Emmanuel Macron ha condannato con rabbia un analogo gesto di iconoclastia in un messaggio alla nazione francese che – a quanto pare – non ha mai menzionato le vittime del razzismo: «Questa sera vi dico molto chiaramente, miei cari concittadini, che la Repubblica non cancellerà alcuna traccia o qualsiasi figura della sua storia. Non dimenticherà nessuno dei suoi successi. Non rovescerà alcuna statua».

In Italia, il lancio di vernice rossa su una statua di Indro Montanelli in un giardino pubblico a Milano è stato condannato all’unanimità come atto «fascista» e «barbaro» da tutti i giornali e i media, ad eccezione de Il Manifesto. Ferito negli anni Settanta da terroristi di sinistra, Montanelli è stato canonizzato come un eroico difensore della democrazia e della libertà. Dopo il «vigliacco» attacco alla sua statua da parte dei lanciatori di vernice, un editorialista del Corriere della Sera ha insistito sul fatto che un simile eroe dovrebbe essere ricordato come una figura «sacra». Tuttavia, questo atto «barbaro» è servito a rivelare a molti italiani quali fossero i «sacri» esiti di Montanelli: negli anni Trenta, quando era un giovane giornalista, celebrava l’Impero fascista e le sue gerarchie razziali; inviato in Etiopia come corrispondente di guerra, acquistò subito una ragazza eritrea di quattordici anni per soddisfare i suoi bisogni sessuali e domestici. Per molti commentatori, questi erano i «costumi del tempo» e quindi qualsiasi accusa di sostegno al colonialismo, al razzismo e al sessismo è ingiusta e ingiustificata. Eppure, ancora negli anni Sessanta, Montanelli condannava il meticciato come fonte di decadenza della civiltà, con argomenti presi in prestito direttamente dal saggio sulla disuguaglianza delle razze umane di Arthur Gobineau del 1853-1855.

Questi erano, in effetti, gli stessi argomenti fortemente difesi dal Ku klux klan nella sua opposizione al movimento per i diritti civili negli Stati uniti durante lo stesso periodo. Contro ogni prova, il padre spirituale di due generazioni di giornalismo italiano negava ferocemente che l’esercito fascista avesse condotto bombardamenti a gas durante la guerra etiopica. I «barbari» milanesi avevano intenzione di ricordarci questi semplici fatti.

In effetti, è interessante osservare che la maggior parte dei leader politici, intellettuali e giornalisti oltraggiati dall’attuale ondata di «vandalismo» non ha mai espresso pari indignazione per i ripetuti episodi di violenza poliziesca, razzismo, ingiustizia e disuguaglianza sistemica contro cui la protesta è diretta. Si sono sentiti abbastanza a proprio agio in una situazione del genere. Oltretutto, molti di loro avevano elogiato un diluvio iconoclastico di diverso tipo trent’anni fa, quando le statue di Marx, Engels e Lenin furono rovesciate nell’Europa centrale. Mentre la prospettiva immaginata di vivere attorniati da monumenti del genere veniva considerata intollerabile e soffocante, sono abbastanza orgogliosi delle statue dei generali confederati, dei mercanti di schiavi, dei re genocidi, degli architetti legali della supremazia bianca e dei propagandisti del colonialismo fascista che costituiscono l’eredità patrimoniale delle società occidentali. Così ribadiscono: «Non cancelleremo alcuna traccia o cifra dalla nostra storia».

In Francia, il rovesciamento delle vestigia monumentali del colonialismo e della schiavitù è di solito rappresentato come una forma di «comunitarismo», parola utilizzata in senso peggiorativo, per dire implicitamente che tali vestigia disturbano esclusivamente i discendenti degli schiavi e dei colonizzati, non la maggioranza bianca che fissa le norme estetiche, storiche e commemorative che inquadrano lo spazio pubblico. In effetti, molto spesso il presunto «universalismo» francese possiede un sapore sgradevole di «comunitarismo bianco».

Proprio come era accaduto coi predecessori, la «furia iconoclasta» che sta attraversando le città su scala globale rivendica nuove norme di tolleranza e convivenza civile. Lungi dal cancellare il passato, l’iconoclastia antirazzista porta una nuova coscienza storica che influisce inevitabilmente sul paesaggio urbano. Le statue contestate celebrano il passato e i suoi attori, un fatto semplice che legittima la loro rimozione. Le città sono corpi viventi che cambiano in base ai bisogni, ai valori e ai desideri dei loro abitanti, e queste trasformazioni sono sempre il risultato di conflitti politici e culturali. Rovesciare monumenti che commemorano i sovrani del passato fornisce una dimensione storica alle lotte contro il razzismo e l’oppressione nel presente. Significa probabilmente anche di più. È un altro modo per opporsi alla gentrificazione delle nostre città che implica la metamorfosi dei quartieri storici in siti reificati e feticizzati.

Quando una città è classificata come «patrimonio mondiale» dall’Unesco, è destinata a morire. I «barbari» che rovesciano le statue protestano implicitamente contro le politiche neoliberali dei giorni nostri che espellono simultaneamente le classi inferiori dai centri urbani e li trasformano in vestigia congelate. I simboli della vecchia schiavitù e del colonialismo si combinano con l’abbagliante volto del capitalismo immobiliare, questi sono gli obiettivi dei manifestanti.

 

Lo sguardo dei vinti

Secondo un’argomentazione più faziosa e perversa, l’iconoclastia antirazzista esprime un desiderio inconscio di negare il passato. Per quanto opprimente e spiacevole sia il passato, continua questa interpretazione, non può essere cambiato. Questo è sicuramente vero. Ma elaborare il passato – in particolare un passato fatto di razzismo, schiavitù, colonialismo e genocidi – non significa celebrarlo, come fa la maggior parte delle statue rovesciate.

In Germania, il passato nazista è presente in modo schiacciante nelle piazze e nelle strade attraverso memoriali che commemorano le sue vittime anziché i loro persecutori. A Berlino, il Memoriale dell’Olocausto è stato eretto a monito per le generazioni future (das Mahnmal). I crimini delle SS non vengono ricordati da una statua che celebra Heinrich Himmler, ma piuttosto con una mostra all’aperto e al coperto chiamata «Topografia del terrore» che si trova al post di un’ex caserma delle SS.

Non abbiamo bisogno delle statue di Hitler, Mussolini e Franco per ricordare i loro misfatti. È proprio perché gli spagnoli non hanno dimenticato il franchismo che il governo di Pedro Sánchez ha deciso di rimuovere i resti del Caudillo dalla sua tomba monumentale. Solo desacralizzando la Valle de los Caídos questo monumento fascista può essere consegnato alla sfera della memoria in una società democratica non ignara.

Ecco perché è profondamente fuorviante associare la nostra attuale iconoclastia antirazzista alle intenzioni dell’antica damnatio memoriae (condanna della memoria). Nell’antica Roma, questa pratica mirava a eliminare le commemorazioni pubbliche di imperatori o altre personalità la cui presenza rappresentava un conflitto con i nuovi sovrani. Dovevano essere dimenticati.

La cancellazione di Leon Trotsky dai quadri sovietici ufficiali sotto lo stalinismo fu un’altra forma di damnatio memoriae, e fu fonte d’ispirazione per il 1984 di George Orwell. Nello stato immaginario dell’Oceania, scrisse, il passato veniva completamente riscritto: «Statue, iscrizioni, pietre commemorative, i nomi delle strade – tutto ciò che poteva far luce sul passato era stato sistematicamente modificato».

Questi esempi rappresentano paragoni fuorvianti, perché si riferiscono alla cancellazione del passato da parte dei potenti. Eppure, l’iconoclastia antirazzista mira provocatoriamente a liberare il passato dal loro controllo, a «spazzolare il passato contropelo» ripensandolo dal punto di vista del governato e del vinto, non attraverso gli occhi dei vincitori.

Sappiamo che il nostro patrimonio architettonico e artistico è gravato dall’eredità dell’oppressione. Come ha affermato in un famoso aforisma Walter Benjamin, «Non esiste un documento di civiltà che non sia allo stesso tempo un documento di barbarie». Coloro che rovesciano le statue non sono nichilisti ciechi: non vogliono distruggere il Colosseo o le piramidi. Preferirebbero piuttosto non dimenticare che, come sottolineato da Bertolt Brecht, questi straordinari monumenti furono costruiti da schiavi. Edward Colston e Leopoldo II non saranno dimenticati: le loro statue dovrebbero essere conservate nei musei e curate in modo che raccontino non solo le loro conquiste straordinarie, ma anche perché e come le loro persone sono divenute esempi di virtù e filantropia, oggetti di venerazione: in breve, le incarnazioni della loro civiltà.

Onda globale

Questa ondata di iconoclastia antirazzista è globale e non ammette eccezioni. Gli italiani (compresi gli italo-americani) e gli spagnoli sono orgogliosi di Colombo, ma le statue dell’uomo che «ha scoperto» le Americhe non hanno lo stesso significato simbolico per le popolazioni indigene.

La loro iconoclastia rivendica legittimamente un riconoscimento e un’iscrizione pubblica della propria memoria e prospettiva: una «scoperta» che ha dato il via a quattro secoli di genocidio. A Fort-de-France, la capitale della Martinica, due statue di Victor Schœlcher – tradizionalmente celebrato dalla Repubblica francese come simbolo dell’abolizione della schiavitù nel 1848 – il 22 maggio sono state rovesciate. Secondo il quotidiano di destra Le Figaro, «i nuovi censori credono di possedere la verità e di essere i guardiani della virtù». In effetti, i «nuovi censori» (cioè i giovani attivisti antirazzisti) desiderano voltare pagina rispetto alla tradizione paternalistica e sottilmente razzista dell’«universalismo» francese. Hanno sempre raccontato l’abolizione della schiavitù come dono agli schiavi da parte della Repubblica illuminata, una tradizione ben sintetizzata da Macron nel discorso sopra citato.

I «nuovi censori» condividono la valutazione di Frantz Fanon, che analizzò questo cliché nel suo libro del 1952 Pelle nera, maschere bianche: «L’uomo nero si è accontentato di ringraziare l’uomo bianco, la prova più forte è il numero impressionante di statue erette in tutta la Francia e nelle colonie per mostrare la Francia bianca che accarezza i capelli crespi di questo bel negro le cui catene erano state appena rotte».

Elaborare il passato non è un compito astratto o un esercizio puramente intellettuale. Piuttosto, richiede uno sforzo collettivo e non può essere separato dall’azione politica. Questo è il significato dell’iconoclastia dei giorni scorsi. In effetti, mentre è divampata all’interno di una mobilitazione antirazzista globale, il terreno era già stato preparato da anni di impegno contro-memoriale e indagini storiche avanzate da una moltitudine di associazioni e attivisti.

Come ogni azione collettiva, l’iconoclastia merita attenzione e critiche costruttive. Stigmatizzare con fare sprezzante è semplicemente un modo per fornire alibi a una storia di oppressione.

 

Fonte: Jacobin, 26 giugno 2020.