martedì, Gennaio 21, 2025
AmbienteDiritti

Aspettative deluse e intese raggiunte: un bilancio della COP29 sul clima

di Saverio Solimani

La Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e sullo Sviluppo, tenutasi a Rio de Janeiro dal 3 al 14 giugno 1992 e nota al grande pubblico come “il Vertice della Terra”, ha rappresentato un punto di svolta importante nel contrasto al cambiamento climatico. È in quel contesto che è stata adottata la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC): il primo trattato internazionale, originariamente non vincolante, finalizzato a stabilizzare le concentrazioni di gas serra nell’atmosfera e prevenire interferenze pericolose col sistema climatico, che prevedeva la possibilità che le parti firmatarie adottassero, in apposite conferenze, atti ulteriori che avrebbero posto limiti obbligatori di emissioni e corrispondenti obiettivi di riduzione. In questo quadro sono stati adottati il Protocollo di Kyoto (1997) e l’Accordo di Parigi (2015).

Allo scopo di elaborare strategie efficaci e di verificare i progressi compiuti per l’attuazione della Convenzione quadro e dei successivi accordi vincolanti, gli Stati aderenti hanno stabilito di riunirsi annualmente nella cosiddetta Conferenza delle Parti (COP): la prima si è svolta a Berlino, nel 1992; l’ultima si è svolta a Baku, in Azerbaigian, dall’11 al 22 novembre 2024.

La prima Conferenza delle Parti della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) risale al 1995. Dal vertice di Rio de Janeiro è scaturito il primo trattato internazionale che si propone di contrastare il riscaldamento globale attraverso la riduzione delle emissioni climalteranti. A Berlino, nello stesso anno, si è svolta la prima Conference of the Parties (COP) finalizzata a discutere strategie e politiche comuni e adottare piani di finanziamento adeguati ed equi. Da allora si è arrivati alla ventinovesima edizione della Conferenza, che quest’anno si è tenuta a Baku, in Azerbaigian.

 

L’esito finale e il nodo della “finanza climatica”

Il presidente della COP29, Mukhtar Babayev, ha presentato il Nuovo Obiettivo Collettivo Quantificato (NCQG) nella mattinata del 22 novembre 2022: si tratta dell’accordo finale approvato in assemblea plenaria.

L’esito conclusivo ha suscitato scontento in molte delegazioni: solo 300 miliardi di dollari l’anno saranno indirizzati alla “finanza climatica” (fondi destinati alle azioni per ridurre le emissioni di gas serra) entro il 2035, mentre gli esperti delle Nazioni Unite raccomandavano come soglia minima 390 miliardi. Rimane lontano e incerto l’obiettivo più ambizioso: i 1300 miliardi, proposti dalle delegazioni del Sud globale, a cui dovrebbero contribuire (e qui sta la novità) tutti i paesi.

Con tutti i suoi limiti, la COP 29 ha il merito di aver affermato che anche i paesi “in via di sviluppo” e le economie emergenti possono dare il loro contributo alla finanza climatica. In questo quadro, il ruolo di economie emergenti come la Cina, l’India e l’Arabia Saudita potrebbe essere decisivo. Questi paesi potrebbero acquisire un nuovo e rilevante protagonismo, soprattutto alla luce dell’annuncio del presidente eletto Donald Trump che gli Stati Uniti si ritireranno dall’Accordo di Parigi sul clima.

Quanto alla natura dei fondi da investire nel contrasto al cambiamento climatico, il nuovo NCQG sottolinea la necessità di “rimuovere le barriere e affrontare gli ostacoli che i paesi in via di sviluppo incontrano nel finanziamento dell’azione per il clima, tra cui gli elevati costi del denaro, uno spazio di manovra fiscale limitato, i livelli di debito molto elevati, gli elevati costi di transazione e le condizionalità per l’accesso alla finanza per il clima”.

L’accordo finale della COP29 stabilisce, in merito, due impegni principali. Il primo è che i paesi del Nord globale, insieme a contributi volontari di alcuni paesi in via di sviluppo, dovranno garantire 300 miliardi di dollari l’anno entro il 2035. Questi fondi potranno provenire da fonti pubbliche e private, bilaterali e multilaterali, oltre che da fonti alternative. Il secondo è che tutti gli Stati, senza distinzioni tra paesi più o meno industrializzati, dovranno impegnarsi a creare condizioni favorevoli per mobilitare almeno 1300 miliardi di dollari l’anno entro il 2035, da fonti pubbliche e private, per sostenere le azioni climatiche nei paesi in via di sviluppo.

 

Novità e punti critici

La richiesta del Sud globale di stabilire una quota minima di contribuzione ai fondi di finanza climatica è rimasta inascoltata: sia per i 300 miliardi che per i 1300 miliardi, non sono state definite in dettaglio le modalità di erogazione, né è stato precisato un sistema di quote (burden sharing) che specifichi il contributo finanziario dovuto da parte di ciascun paese.

L’intesa finale introduce, comunque, due importanti novità. La prima è la creazione di una roadmap operativa, “da Baku a Belem,” che coprirà il periodo fino alla COP30, prevista in Brasile nel novembre 2025. Scopo della roadmap sarà stabilire come mobilitare i 1.300 miliardi di dollari l’anno proposti dai paesi del Sud del mondo, concentrandosi su sovvenzioni, strumenti finanziari a tassi agevolati e misure fiscali. La seconda è la revisione dei nuovi obiettivi di finanza climatica fissata per il 2030.

(Da qui in poi toglierei tutto, fino al paragrafo successivo su mitigazione e Global Stocktake. Il testo è stato comunque corretto. Il succo è che l’esito della conferenza ha scontentato moltissimi e lo scriverei in due righe e basta: “L’accordo finale della COP29 non include riferimenti chiari a importanti obiettivi climatici e ha generato critiche per la mancanza di ambizione e azioni concrete).

Alcuni paesi, come l’India e la Nigeria, si sono opposti all’accordo in plenaria, dopo che il presidente della COP29 aveva già data per approvata l’intesa. Poiché le conferenze sul clima prendono decisioni basate sul consenso, l’opposizione di questi paesi sarebbe stata sufficiente a bloccare i lavori. Tuttavia, la presidenza azera ha deciso di proseguire ed è stata accusata di aver voluto chiudere l’accordo sulla finanza climatica in modo affrettato.

Molte delegazioni del Sud globale hanno espresso la loro delusione. Tra queste il gruppo dell’AOSIS, l’Alleanza dei piccoli stati insulari, che aveva auspicato un percorso in cui sarebbero stati protetti “gli interessi dei più vulnerabili e di coloro con meno capacità”. Evans Njewa, delegato del Malawi e rappresentante del Gruppo dei Paesi Meno Sviluppati (LDC), ha definito la formulazione attuale dell’NCQG “non solo un fallimento della diplomazia, ma anche un fallimento della giustizia”.

Il rappresentante di Panama, Juan Carlos Monterrey Gómez, ha ammesso di aver “accettato il testo finale perché non potevamo lasciare Baku senza un accordo, ma non siamo per niente soddisfatti”. Sulla trattativa e sul documento finale è intervenuto anche l’ex candidato alla Casa Bianca Al Gore, da decenni attivo contro il cambiamento climatico: “non possiamo continuare a fare affidamento su mezze misure dell’ultimo minuto”.

Climate Action Network, riconosciuto osservatorio delle politiche climatiche, valuta la cifra finale dell’NCQG “del tutto inadeguata” e la qualità dei finanziamenti “carente”. “Non c’è equità o giustizia nel testo”, ha dichiarato, anche perché “lo spostamento del finanziamento dai paesi sviluppati a quelli in via di sviluppo non è stata presa in considerazione”.

 

Nessun avanzamento in tema di riduzione delle emissioni e Global Stocktake

In tema di riduzione/mitigazione delle emissioni e del Global Stocktake (GST), il processo previsto dall’Accordo di Parigi per valutare i progressi compiuti a livello globale dai singoli stati nel raggiungimento degli obiettivi, i risultati ottenuti sono stati scarsi. Il negoziato si è concentrato su due questioni principali: stabilire modalità e obiettivi concreti per la riduzione delle emissioni di gas serra, al fine di rispettare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi; definire i meccanismi per monitorare i progressi compiuti dagli stati.

Per quanto riguarda la mitigazione delle emissioni, l’intesa finale si limita a recepire le conclusioni del Sesto rapporto del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC) del 2022: “se si vogliono raggiungere gli obiettivi climatici, sia l’adattamento che i finanziamenti per la mitigazione dovrebbero essere notevolmente rafforzati”. Tuttavia, il testo non fornisce alcun obiettivo quantitativo, ma evidenzia che “ci sono barriere significative al reindirizzamento dei finanziamenti verso l’azione climatica e che i governi, attraverso risorse pubbliche e chiari segnali agli investitori, svolgono un ruolo fondamentale nel superare tali ostacoli”.

Di fatto, l’accordo finale non fa riferimento esplicito agli obiettivi chiave per il contrasto al cambiamento climatico. Sono scomparsi i riferimenti agli obiettivi di contenimento del riscaldamento globale fissati nell’Accordo di Parigi (1,5° C o 2° C), ma anche l’obiettivo di ridurre le emissioni del 43% entro il 2030 e del 60% entro il 2035 rispetto ai livelli del 2019, che figurava nelle bozze preliminari, è stato eliminato. Nessun riferimento è stato fatto alla neutralità carbonica o all’importanza di rispettare le linee guida dell’IPCC, il principale organismo scientifico per il cambiamento climatico. Inoltre, il documento finale non contiene proposte concrete per l’espansione delle energie rinnovabili.

Con il riscaldamento globale che sta accelerando e il 2024 che si annuncia l’anno più caldo mai registrato, secondo il Servizio europeo sul cambiamento climatico Copernicus, il rischio di non riuscire a mantenere il riscaldamento sotto i 1,5° C è sempre più concreto. In questo scenario, è allarmante che la definizione degli obiettivi di riduzione delle emissioni da parte degli stati sia stata rimandata alla COP30 del 2025. L’accordo finale ha ricordato genericamente la necessità di avviare una transizione dalle fonti fossili a quelle rinnovabili e ha delineato le tematiche che saranno al centro del prossimo Global Stocktake, sulla cui base verranno determinati i cosiddetti Contributi Nazionali Volontari (NDC), da rivedere ogni cinque anni.

 

Pochi passi avanti sul mercato delle quote di CO2

La COP29 ha affrontato anche il sempre più controverso tema del “mercato del carbonio”, un meccanismo economico progettato in teoria per ridurre le emissioni di gas serra, in particolare l’anidride carbonica, che finisce però per configurarsi come un’autorizzazione alle emissioni per i soggetti più ricchi. Il meccanismo funziona assegnando un limite massimo alle emissioni consentite in un determinato settore o regione, e suddividendo questo limite in “quote” o “permessi di emissione”. Ogni azienda che opera in un settore regolamentato riceve o acquista un certo numero di quote. Ogni quota autorizza l’emissione di una tonnellata di CO2. Le aziende che riescono a ridurre le proprie emissioni al di sotto della quantità consentita dalle loro quote possono vendere le quote in eccesso ad altre aziende che hanno superato il loro limite. Il prezzo delle quote è determinato dalla domanda e dall’offerta sul mercato.

A Baku è stato approvato un accordo che istituisce un mercato globale del carbonio regolato da standard internazionali. Questo mercato dovrebbe garantire integrità, trasparenza e un funzionamento equo attraverso varie misure: standard internazionali per i crediti di carbonio, supervisionati da un organo delle Nazioni Unite; regole contro il doppio conteggio delle riduzioni di emissioni; criteri per verificare e misurare l’impatto dei progetti di rimozione e stoccaggio delle emissioni; un meccanismo di transizione dal precedente Clean Development Mechanism (CDM).

Un accordo è stato, invece, raggiunto sullo scambio bi- e multilaterale di riduzioni e rimozioni delle emissioni, grazie ai crediti ITMO (Internationally Transferred Mitigation Outcomes). L’intesa finale, tuttavia, è stata severamente criticata perché non stabilisce né sanzioni né procedure per rimediare a eventuali incoerenze tra l’efficacia dichiarata dai contraenti e l’effettiva riduzione/rimozione di CO2. Inoltre, non è stato ancora fissato un termine entro cui sviluppare il nuovo registro globale degli scambi di crediti.

 

Conclusioni

Negli ultimi decenni, mentre si discuteva intorno all’esistenza stessa del cambiamento climatico e delle sue responsabilità, il riscaldamento globale è progredito rapidamente a causa della persistente estrazione e combustione di energie fossili. Le calotte polari e i ghiacciai, ad esempio, si stanno sciogliendo a un ritmo allarmante, provocando l’innalzamento del livello del mare e mettendo a rischio la sopravvivenza di oltre la metà della popolazione mondiale che vive su isole e in aree costiere.

Con questa consapevolezza, è legittimo chiedersi: le conferenze sul clima, così come sono state concepite fino ad oggi, hanno ancora senso alla luce dei pochi risultati ottenuti finora? La COP29 ha fatto piccoli passi avanti, ma ha mancato l’obiettivo principale: stabilire obiettivi vincolanti e a breve termine per affrontare il cambiamento climatico in modo rapido ed efficace. Probabilmente, solo una mobilitazione mondiale dal basso per la giustizia climatica potrebbe assicurare che la prossima COP30, programmata in Brasile, non si risolva anch’essa in un nulla di fatto rispetto al rischio esistenziale che sovrasta l’umanità.

 

Saverio Solimani studia “Informatica umanistica” all’Università di Pisa ed è collaboratore part-time di “Scienza&Pace Magazine”. Interessato al mondo dell’informazione e della comunicazione sui media, è speaker della radio dell’università, “Radio Eco”, e fa parte di “Attivamente”, un movimento nazionale di contro-informazione e attivismo antimafia e per i diritti umani.