sabato, Dicembre 21, 2024
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Gli afghani temono per la loro vita su entrambi i lati della Linea Durand

Da mesi, ogni giorno, centinaia di famiglie afghane lasciano il Pakistan per stabilirsi nelle province confinanti di Kandahar e Nangarhar. Molte non hanno mai vissuto nella loro terra d’origine e sono molto preoccupate all’idea di dover ricominciare la loro vita in un Afghanistan in grave crisi, dopo vent’anni di guerra e di occupazione straniera, e dopo il ritorno al potere dei Talebani. The New Humanitarian – testata indipendente con sede a Ginevra, che da molti anni porta avanti con coraggio e professionalità un giornalismo critico a sostegno della pace e dei diritti umani – ha recentemente raccolto testimonianze da entrambi i lati della Linea Durand – il confine di epoca coloniale tracciato negli anni ’90 dell’800 per demarcare l’allora India britannica dall’Afghanistan – parlando con persone costrette a tornare nel paese d’origine e con altre che cercano di rimanere in Pakistan, in un clima di crescente paura. Secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale per le migrazioni (IOM), dallo scorso settembre almeno mezzo milione di afghani sono stati espulsi dal Pakistan per mancanza di documenti validi di soggiorno, diventando profughi nel loro stesso paese.

di Somaiyah Hafeez e Ali M. Latifi

“Siamo cresciuti e abbiamo passato qui tutta la nostra vita” ha dichiarato Usman, un trentenne padre di sei figli, nato in Pakistan da genitori afghani, nella città pakistana di Chaman, al confine con l’Afghanistan. Come la maggior parte degli afghani che hanno parlato con noi, Usman ha rivelato solo il suo nome per ragioni di sicurezza. “Sebbene anche qui la situazione sia disastrosa, almeno conosciamo il paese e lo consideriamo nostro”, ha detto. “In Afghanistan non conosciamo nessuno”.

La vita è diventata instabile e piena di paura per gli afghani come Usman da quando, lo scorso ottobre, il Pakistan ha annunciato per la prima volta che avrebbe espulso “tutti gli stranieri illegali”. Da allora le espulsioni sono diventate comuni, così come le persone che tornano da sole per evitare di essere rastrellate dalle autorità pakistane e costrette ad andarsene.

Si stima che in Pakistan vivano 3,5 milioni di afghani. Il totale esatto non è noto perché molti non sono ufficialmente registrati e il numero è variato nei decenni successivi all’occupazione sovietica dell’Afghanistan negli anni ’80, che ha costretto molte persone a partire in massa.

Tra la metà di settembre 2023 e l’inizio di maggio 2024, più di 575.000 afghani sono stati espulsi o rimpatriati in Afghanistan, secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM).

A marzo, il governo pakistano ha annunciato l’intenzione di estendere le deportazioni anche agli afghani in possesso della “carta di registrazione”, che formalmente garantisce il diritto di vivere in Pakistan. Le deportazioni sarebbero dovute iniziare il 15 aprile, ma la validità delle carte già emesse è stata prorogata fino alla fine di giugno.

Amnesty International ritiene che, una volta scaduta questa proroga, almeno altri 800.000 afghani rischieranno di essere deportati. In vista della scadenza, sono stati già segnalati casi di intervento da parte della polizia nei quartieri in cui vivono i rifugiati afghani, culminati nell’arresto di afghani e afghane in possesso di carte di registrazione.

Nel corso delle deportazioni, gruppi di difesa dei diritti umani e della libertà di informazione hanno documentato casi di irruzioni notturne della polizia nelle case dei rifugiati afghani. La polizia è stata accusata di aver confiscato illegalmente gioielli e bestiame alle famiglie afghane. Ci sono state anche segnalazioni di abitazioni di afghani demolite con i bulldozer e testimonianze di donne e ragazze che hanno subito molestie e minacce di aggressioni sessuali da parte delle autorità pakistane.

Coloro che vengono espulsi – o che lasciano il Pakistan in via preventiva – devono affrontare una situazione difficile in Afghanistan. Il paese è stato martoriato da decenni di guerra e da recenti disastri naturali; la ripresa dell’economia e gli sforzi di aiuto umanitario sono ostacolati da sanzioni internazionali e restrizioni alle attività bancarie [seguite al ritorno al potere dei Talebani, ndr].

“I rimpatriati possono aspettarsi che il governo, le Nazioni Unite o la comunità internazionale li assista, ma non c’è ancora un piano chiaro su come questo numero di persone verrà integrato nella già fragile economia afghana”, ha dichiarato Dayne Curry, direttore nazionale di Mercy Corps in Afghanistan.

Non vogliamo ricominciare la nostra vita da zero

Le campagne di deportazione degli ultimi mesi hanno anche reso più difficile per gli afghani spostarsi da una città all’altra per lavoro o addirittura lasciare il proprio quartiere o la propria casa per paura di essere rastrellati dalla polizia.

Anche il Pakistan sta attraversando una grave crisi economica, che ha colpito i mezzi di sostentamento dei pakistani e degli afghani nel paese. Tuttavia, tutte le famiglie afghane con cui The New Humanitarian ha parlato a Chaman hanno dichiarato di non voler tornare in Afghanistan.

Da quando è tornato al potere a Kabul nell’agosto 2021, il governo dell’Emirato islamico dei Talebani è stato ripetutamente accusato di violazioni dei diritti umani, in particolare nei confronti delle donne. Ma gli afghani di Chaman hanno anche detto di essere preoccupati per la possibilità di guadagnare abbastanza denaro per assicurarsi il minimo indispensabile per sopravvivere e per la capacità di riadattarsi a vivere in un paese in cui molti hanno trascorso poco tempo e di cui hanno sentito parlare soprattutto in modo negativo per decenni.

“Preferirei morire in Pakistan piuttosto che tornare in Afghanistan”, ha dichiarato Gul, una donna afghana di 55 anni che si fa chiamare con un solo nome e che vive in Pakistan da più di 30 anni. “Non ci sono né carne né patate [in Afghanistan]. Tutto è così costoso che non ci si può permettere nemmeno di comprare le verdure”.

Fino a poco tempo fa, Gul si recava spesso in Afghanistan per visitare la famiglia. Per decenni, tutto ciò che era richiesto per attraversare la Linea Durand era una carta d’identità nazionale di entrambi i paesi. Ma lo scorso novembre, in seguito all’inasprimento delle relazioni tra i due paesi, il Pakistan ha limitato i viaggi agli afghani in possesso di passaporti e visti validi, documenti spesso difficili da ottenere senza pagare costose tangenti.

Le restrizioni hanno avuto un pesante impatto sui lavoratori a giornata – molti dei quali rifugiati afghani – in città come Chaman, che fanno affidamento sull’attività economica transfrontaliera per sopravvivere. I rifugiati afghani di Chaman hanno dichiarato a The New Humanitarian che le restrizioni, unite al timore di essere deportati, hanno aumentato le loro preoccupazioni. I lavoratori a giornata e i commercianti hanno organizzato un sit-in di protesta in città da quando la linea dura del governo pakistano è stata annunciata.

Come molti, Gul ha sentito immediatamente gli effetti delle restrizioni. Il mese scorso ha dovuto rischiare l’arresto per attraversare di nascosto l’Afghanistan e visitare la figlia prima della festività musulmana di Eid al-Fitr, che segna la fine del mese sacro del Ramadan. Inoltre, non ha potuto portare con sé la figlia in Pakistan per partecipare a un matrimonio di famiglia.

Nei cinque giorni che Gul ha trascorso in Afghanistan prima dell’Eid al-Fitr, è rimasta inorridita da ciò che ha visto: povertà e prezzi altissimi rispetto al Pakistan. “Passare una notte in Afghanistan equivale a passare tre anni in Pakistan”, ha detto Gul. “Potrei passare tre anni di stenti in Pakistan, ma non sarei in grado di sopravvivere lì per una notte”.

Ram Bibi, 35 anni, ha condiviso un pensiero simile. Bibi è arrivata in Pakistan dal distretto di Gereshk, nella provincia afghana di Helmand, 20 anni fa. Di recente ha dato alla luce un bambino nato morto, dopo aver perso altri due bambini durante il parto. “Sono malata per la mancanza di una dieta adeguata e ho l’anemia”, ha detto Bibi, tenendo in grembo il figlio più piccolo, di tre anni.

Anche suo figlio, ha detto Bibi, non riceve il necessario apporto nutrizionale. Il marito di Bibi lavora come operaio a giornata. Ma un recente problema di salute lo ha portato in ospedale e non è in grado di provvedere alla famiglia. “Nonostante la povertà, ci siamo adattati alla nostra vita qui e non vogliamo ricominciare da zero”, ha detto Bibi.

Bibi ha una carta di registrazione, ma potrebbe presto essere espulsa una volta scaduta l’estensione della validità del documento alla fine di giugno. Hilay, un’altra donna afghana che vive a Chaman, è priva di documenti. È arrivata in Pakistan tre anni fa da Kandahar in cerca di cure mediche per il figlio che si era ammalato.

Nonostante sia consuetudine per gli afghani cercare cure mediche in Pakistan, il governo pakistano ha reso difficile per gli afghani ottenere i visti per tali visite, e gli afghani finiscono per dover pagare dai 1.000 ai 2.000 dollari a persona agli intermediari per ottenere i documenti di viaggio legali – un prezzo che pochi possono permettersi.

Hilay è stata costretta a vendere la sua casa e i suoi beni a Kandahar per poter portare suo figlio in Pakistan. “Non posso tornare in Afghanistan. Non ho nulla lì”, ha detto.

Se non ve ne andate, vi costringeremo ad andarvene”

Dall’altra parte della Linea Durand, in Afghanistan, Noor Alam di 36 anni ci ha descritto l’ambiente di paura in cui vivono molti afghani in Pakistan.

Alla fine dello scorso anno, dopo l’annuncio della deportazione, Alam ha raccontato che la polizia pakistana ha iniziato a girare casa per casa alla ricerca di afghani e a minacciarli. Secondo Alam, il messaggio diretto agli afghani privi di documenti e a quelli in possesso di carte di registrazione (note anche come carte gialle) era lo stesso. “Andate via”, ha ricordato la polizia. “Carta gialla o non carta, andatevene”.

Invece di aspettare di essere arrestato e deportato, Alam – che era andato in Pakistan quattro anni fa in cerca di lavoro – ha deciso di tornare in Afghanistan da solo.

Imran, un afghano di 35 anni che ha trascorso tutta la sua vita in Pakistan e ha fornito solo il suo nome, ha preso una decisione simile. Lui e altri hanno raccontato che nelle moschee pakistane sono stati diffusi messaggi che intimavano agli afghani, sia con che senza documenti, di lasciare il paese.

“[Le autorità] sono venute nelle nostre masjid e ci hanno detto direttamente: ‘Tutti gli afghani, in ogni caso, dovranno andarsene. Se non ve ne andate, vi costringeremo ad andarvene’”, ha detto Imran.

Questo genere di annunci ha causato così tanta paura che Imran ha speso 60.000 rupie pakistane (215 dollari) per procurarsi un camion che portasse lui, la sua famiglia e le loro cose da Chaman al distretto di Spin Boldak a Kandahar. Come molti altri afghani con cui The New Humanitarian ha parlato, aveva in mano una carta di registrazione.

Imran ha detto che dovrà trovare altri 40.000-45.000 afghani (circa 560-640 dollari) per portare la sua famiglia e le sue cose nella provincia di Faryab, nel nord dell’Afghanistan, da dove proviene la sua famiglia. “Non so cosa farò una volta arrivato lì. Non ci sono mai stato”, ha affermato. “So solo il nome del distretto da cui proveniamo. Devo solo arrivarci. Il resto dipende da Dio”.

Circa il 75% dei rimpatriati che arrivano attraverso il valico di Spin Boldak finisce per rimanere a Kandahar, uno dei principali centri economici dell’Afghanistan secondo Mohammad Ehsan Nazari, coordinatore del programma di Mercy Corps nella città.

La popolazione della provincia sta facendo il possibile per aiutare i rimpatriati, ma l’aiuto può arrivare solo fino a un certo punto e probabilmente non è sostenibile, ha aggiunto Nazari: i posti di lavoro nell’economia afghana in crisi sono scarsi e gli affitti nella città di Kandahar sono aumentati fino al 30% a causa dell’afflusso di rimpatriati.

In questo contesto, le probabilità di rimpatrio [in Pakistan] sono molto alte, soprattutto per coloro che sono stati lontani per diversi decenni. “Non sanno davvero come affrontare questa situazione”, ha detto Nazari.

Questa è la situazione in cui Farzana, una donna afghana di 32 anni ancora a Chaman, teme di rimanere bloccata. I suoi genitori l’hanno portata in Pakistan quando aveva pochi mesi. Tutti i suoi fratelli – sei fratelli e quattro sorelle – sono poi nati in Pakistan. Due di loro, tuttavia, sono stati recentemente deportati in Afghanistan. Ciò che raccontano a Farzana della vita in Afghanistan non placa i suoi timori.

“Mio fratello mi dice che non c’è lavoro e che vuole tornare”, ha detto. “Ho vissuto tutta la mia vita qui. Tornare [in Afghanistan] significherebbe ricominciare da zero”.

Fonte: The New Humanitarian, 22 maggio 2024.