Abolire il carcere per costruire un sistema penale più giusto e utile
La questione della giusta pena a seguito della violazione di una legge è un problema storico delle società fondate sul diritto. Thomas Galli, ex direttore del carcere di Zeithain, in Sassonia, avanza una critica radicale all’attuale sistema penitenziario e invita a un dibattito pubblico per ripensare il sistema delle carceri, a partire dalle condizioni deumanizzanti dei detenuti, causate dalla rigida privazione di ogni libertà, che porta a una fallimentare gestione delle persone incarcerate. Thomas Galli, intervistato da Katharina Wiegmann per Perspective Daily, riflettendo sul bisogno umano di giustizia, sposta l’attenzione sulle responsabilità della società in generale e sulle cause strutturali della devianza, su cui occorre intervenire. Da questo punto di vista critico, Galli propone un sistema in cui si risponda al crimine tenendo conto degli interessi di tutti gli attori coinvolti (vittime, autori dei reati e società): occorre, a suo avviso, mettere a punto un modello di giustizia riparativa capace di conseguire, attraverso progetti post-condanna che coinvolgano l’insieme della cittadinanza, un reintegro completo e funzionale di chi ha commesso reati.
di Katharina Wiegmann
Quando qualcuno viola una norma, specie se si tratta di una norma penale, ci devono essere conseguenze. Ma quale pena è giusta e proporzionata? E quale scopo deve avere la pena? Per molto tempo abbiamo rinunciato a porci queste domande, delegandole interamente al sistema penale. La risposta dello Stato moderno per chi viola le norme oltre una certa soglia di gravità è la prigione. In Germania nel 2018 i detenuti per reati vari erano circa 51mila.
Abbiamo intervistato Thomas Galli: ha lavorato per 15 anni nell’ambito del sistema penale tedesco e molti li ha trascorsi come direttore del carcere di Zeithain, in Sassonia. Poco prima di dimettersi, alla domanda di una giornalista che gli chiedeva cosa avrebbe fatto dei 400 detenuti del suo carcere se fosse dipeso interamente da lui, rispose: “Li libererei tutti”. Nel suo recente libro Weggesperrt [Rinchiusi], Galli spiega come la gestione quotidiana di una prigione lo abbia convinto del fatto che abbiamo bisogno di cambiare radicalmente il modo di pensare e applicare il sistema delle pene.
Thomas Galli, lei ha lavorato per molti anni nel sistema penale, oggi è un attivista contro il carcere. Avrebbe semplicemente potuto cambiare lavoro, perché invece ritiene sia così importante ripensare il sistema penale?
È stato un percorso che ha sorpreso anche me, di certo non lo avevo programmato. Dopo 15 anni nel sistema penale mi sono convinto che in esso c’è molto di sbagliato. Ci sono molte ingiustizie e problemi di cui è necessario parlare pubblicamente. Attorno al sistema penale e carcerario girano moltissime idee sbagliate e c’è un grande bisogno di informazione. Grazie alla mia esperienza penso di poter essere utile in questo dibattito e ho deciso di impegnarmi per diminuire il livello di violenza della nostra società.
Cosa c’è che non funziona nel sistema carcerario secondo lei?
Si tratta di un ambiente in cui si esercita una forma estrema di potere. I detenuti subiscono una forte svalutazione della loro umanità e non c’è spazio per un rapporto alla pari. A partire dal fatto che spesso i detenuti devono indossare una divisa. E poi ci sono migliaia di piccoli e grandi meccanismi che concorrono a questa deumanizzazione: i detenuti devono fare richieste formali per qualunque cosa, altri decidono con chi possono avere contatti, chi può venire a far loro visita ecc. Se si fa lo sforzo di mettersi nei panni dei senza potere, allora diventa chiaro che una simile situazione non può portare a nulla di buono ma solo alimentare frustrazione e aggressività. Una condizione che conduce il detenuto ad allontanarsi ancora di più dalla società.
E che effetto fa in coloro che lavorano nel sistema penitenziario?
Privare qualcuno della libertà significa infliggergli un male. Il che ha un effetto, più o meno consapevole, anche su chi lavora ogni giorno nelle carceri. La maggior parte dei lavoratori che io ho conosciuto nei miei anni di lavoro nelle carceri sono persone impegnate socialmente, che non provano nessun piacere a far soffrire altre persone. E tuttavia sono costrette a trattare i detenuti con metodi molto repressivi, altrimenti semplicemente la struttura non funzionerebbe.
Perché no?
Nelle carceri sono di norma rinchiuse centinaia di persone, spesso giovani uomini, in spazi molto ristretti. Una simile situazione naturalmente non potrebbe funzionare se ciascuno di loro avesse la possibilità di scegliere la propria cella, di stabilire a che ora svegliarsi, cosa fare durante il giorno ecc. La cosa funziona solo se c’è una rigida tabella di marcia regolata al minuto: chi lavora dove, chi deve partecipare a quale misura, quando si può andare in cortile ecc. Per i detenuti c’è davvero pochissima libertà, anche per quel che riguarda l’organizzazione del loro tempo.
Nel suo libro parla della “gestione delle persone”, in cui c’è qualcosa di disumano che in verità parrebbe contraddire l’obiettivo dichiarato della pena, ossia la risocializzazione e il reinserimento in società. Ma se è così chiaro che il carcere non è utile a nessuno per raggiungere questo scopo, per quale motivo esiste ancora in questa forma?
Il carcere non serve allo scopo che il sistema gli assegna ufficialmente. Non garantisce nessuna giustizia, la società non è protetta meglio grazie al carcere e non ha effetti tali sui detenuti da produrre una riduzione della criminalità. Ma naturalmente questo sistema produce profitti, di cui alcuni, più o meno consapevolmente, si avvantaggiano. Per non parlare del fatto che ci sono persone che con questo sistema ci guadagnano, a partire dagli avvocati come me. Ma il problema principale è che molte persone hanno semplicemente un’idea sbagliata delle prigioni. Nel corso di presentazioni e dibattiti faccio sempre questa domanda al pubblico: che idea avete del carcere? Molti pensano che in carcere ci siano principalmente stupratori e assassini e non riescono a crederci quando si dice loro che circa la età dei detenuti sono responsabili di reati contro il patrimonio e che addirittura molti sono in carcere per aver viaggiato senza biglietto[1].
Da dove proviene questa falsa percezione?
Certamente c’è un deficit comunicativo del sistema giustizia. Il carcere svolge una sorta di funzione di distrazione. Quel che viene comunicato è: lo Stato fa qualcosa contro le ingiustizie e contro le persone che provocano danni ad altri. In ultima analisi, però, di solito lo fa dove è più facile e dove c’è meno resistenza. Punisce il tossicodipendente che viaggia senza biglietto e che, sorpreso da un poliziotto al supermercato a rubare una bottiglia di liquore, reagisce. Mentre ci sono persone che provocano molti più danni alla società, dal punto di vista politico ed economico. Certamente si tratta di problemi che non possono tutti essere risolti con il diritto penale, ma c’è una tendenza a guardare altrove per distrarre l’attenzione. I piccoli criminali svolgono in una certa misura la funzione di capro espiatorio.
Dopo la morte di George Floyd una delle ragioni che ha spinto le persone a scendere in piazza sia negli Stati Uniti sia nel resto del mondo è proprio la richiesta di un sistema pensale più giusto. Ma se non con il carcere, come si soddisfa il bisogno sociale che chi viola le leggi venga punito?
C’è un bisogno di giustizia molto radicato negli esseri umani, confermato da diverse ricerche sociali psicologiche, e naturalmente è comprensibile che si sia profondamente arrabbiati e indignati se un poliziotto responsabile della morte di una persona ne uscisse pulito. Ma io invito sempre a riflettere su questo bisogno così profondamente radicato in noi. Probabilmente l’indignazione di chi sta protestando nelle ultime settimane non ha tanto a che fare con il modo in cui quell’uomo sarà punito quanto piuttosto con il fatto che quel che ha compiuto non sia ufficialmente riconosciuto come un’ingiustizia. Le persone vogliono che si ammetta che si tratta di un fatto che non possiamo lasciar correre senza fare nulla, che si dica: è accaduta un’ingiustizia. Quale pena viene concretamente comminata è molto meno importante, come mostrano molti sondaggi fra le vittime. Oggi tuttavia lo Stato parla una sola lingua per esprimere ingiustizia e disapprovazione: ed è la lingua della pena detentiva, che si articola solo per la sua durata. Una lingua che dobbiamo cambiare.
Come?
Nel libro suggerisco che naturalmente devono continuare a essere i pubblici ministeri a condurre le indagini e i giudici a emettere le sentenze. Ma queste sentenze devono stabilire solo il grado di ingiustizia commessa. Dopo dovrebbe aprirsi un’ampia gamma di possibili conseguenze giuridiche. Si dovrebbe istituire un organismo che non applichi automaticamente una pena detentiva, ma che si orienti individualmente sia rispetto alle vittime sia rispetto al condannato, in modo da comminargli una pena sensata, che lo induca a non reiterare il reato. In questo modo sarebbe possibile prendere decisioni più giuste nei singoli casi. Nel caso di George Floyd, per esempio, il tribunale dovrebbe stabilire se si sia trattato di omicidio volontario o colposo. Ma a quali conseguenze giuridiche deve andare incontro il poliziotto è un’altra questione e dovrebbe essere legata anche cosa si auspicano i parenti delle vittime.
Insomma, come società dovremmo focalizzarci più sulla responsabilità che sulla colpa: è questo che intende?
L’attuale sistema ruota attorno al principio colpa/ritorsione. Il tribunale stabilisce quanto grave è la colpa di cui qualcuno si è macchiato e calcola una pena detentiva. Si tratta, se ci pensiamo bene, di una forma giuridicamente regolata di vendetta. Ma dovremmo chiederci: quali obiettivi raggiungiamo e quali non raggiungiamo in questo modo? Io penso che l’autore di un reato debba assumersi la responsabilità dei danni che ha causato sia alle vittime sia alla società in generale. Naturalmente questo non può accadere sempre al 100%: chi ha ucciso un altro essere umano non potrà mai riportarlo in vita. Ma direi che in tutti i casi è possibile riparare almeno una parte dei danni e quindi ottenere un effetto riparativo per le vittime e i loro parenti.
Cosa osta a una simile soluzione?
Il nostro attuale sistema non incoraggia quasi per nulla l’assunzione di responsabilità e anzi talvolta lo ostacola attivamente, come nel caso di uno dei condannati per gli omicidi della NSU[2]. Si tratta di un uomo che aveva fornito le armi per i delitti e che in tribunale si è mostrato sinceramente pentito. Molti gli hanno creduto, compresa la figlia di una delle vittime, che ha chiesto espressamente che l’uomo non fosse messo in carcere, ma che invece fosse mandato nelle scuole per informare i ragazzi dei pericoli dell’estremismo di destra. Eppure è stato condannato al carcere. È solo un esempio, che però mostra che il sistema per come lo consociamo oggi spesso non è di aiuto neanche alle vittime, nonostante dovrebbe essere proprio questa la sua ragion d’essere.
L’attuale sistema ha un che di meccanico: un reato viene “tradotto” in una precisa pena. Questo meccanismo rende anche possibile il fatto che noi come società non dobbiamo più occuparcene. In questo modo ci sottraiamo alla nostra responsabilità rispetto alle condizioni che conducono alla perpetrazione di reati?
Assolutamente sì. Il principio di responsabilità vale sia per la società in generale sia ciascuno di noi individualmente. Non dico certo che chiunque commetta un reato lo fa perché ha avuto un’infanzia difficile, ma è innegabile che ogni reato ha delle cause sociali. Non facciamo altro che ignorarle, mostrando di non essere all’altezza della nostra responsabilità di affrontarli coerentemente. Ho lavorato nelle carceri per 15 anni e ho avuto contatti intensi con qualche migliaio di detenuti, ho conosciuto i loro delitti e ho anche conosciuto un po’ loro come persone. Posso dire che fra di loro non ce n’è neanche una per la quale si possa dire che il reato è arrivato dal nulla. Tutti avevano un percorso personale molto problematico. Il che naturalmente non significa che questo li assolve dalle loro responsabilità nel momento in cui causano danni ad altre persone. Ma deve condurci a trattare ogni reato anche come sintomo di un problema sociale. Come richiesta d’aiuto o come campanello d’allarme che ci faccia guardare più da vicino. Tutto questo accade molto di rado, il che ha anche a che fare con il nostro concetto di colpa che presuppone l’idea che si tratti sempre di una decisione più o meno libera dell’autore del reato. Così però ci rendiamo la cosa troppo facile…
C’è un passaggio del suo libro che mi ha molto sorpreso. Lei scrive: “L’essere umano non è fondamentalmente cattivo, anzi tendenzialmente è al fondo piuttosto buono”. Ma allo stesso tempo non nega che esistono anche persone che compiono violenze o addirittura omicidi in modo del tutto sadico. E allora, come mai questa affermazione?
Non è detto che in prigione che si incontrino persone peggiori di quelle che stanno fuori. Si incontrano persone che non hanno saputo rispettare le regole, che magari per altri sono più facili da rispettare. Naturalmente si incontrano anche persone che hanno fatto del male ad altri. Ma sono davvero pochi quelli per i quali io mi sono detto: di questa persona non possiamo fidarci. Tutti gli altri sono persone normali, con sentimenti e bisogni umani, con le quali si può parlare e incontrarsi umanamente. Non ricordo davvero neanche un caso in cui io sia stato profondamente deluso da un detenuto. La prigione non mi ha lasciato un’immagine negativa dell’umanità. La ricerca criminologica conferma che nessuno nasce “cattivo”. Ogni persona è capace di amare, prova empatia e vuole andare d’accordo con gli altri. Le strutture sociali devono essere tali da promuovere il meglio in ciascuno di noi fin dall’infanzia.
Lei auspica soluzioni e misure individuali, che tengano conto al meglio degli interessi di tutti i soggetti coinvolti: vittime, autori dei reati, società. Come dovrebbe funzionare nella pratica?
Il nostro diritto penale attualmente contiene tutta una serie di reati minori, come il furto, che non necessariamente devono rientrare nel suo ambito. Non si tratta naturalmente di legalizzarli, ma di trasformarli in reati amministrativi. Già solo con questa misura avremmo a disposizione molto più personale. Diversi sondaggi rivelano che la popolazione non ha nessun interesse a che, per esempio, chi ha viaggiato senza biglietto finisca in prigione, mentre preferirebbe di gran lunga che queste persone fossero destinate a lavori socialmente utili per riparare i danni. La maggior parte della popolazione è molto più avanti del sistema giudiziario. Io propongo di istituire degli organismi che si occupino delle dispute dopo il processo giudiziario. Questi organismi dovrebbero essere composti da personale che già lavora nel sistema penale, non ci sarebbero costi aggiuntivi. Anzi, si potrebbe anche risparmiare se ci si potesse concentrare solo sui delitti più gravi.
Lei vorrebbe che in questi organismi abbiano voce non solo gli esperti ma anche “normali” cittadini: perché?
Solo se le persone si trovano faccia a faccia con chi ha commesso un reato e le loro vittime possono davvero percepire il peso delle cause sociali nella commissione dei reati. Se in questi organismi riuscissimo a portare due persone della cerchia della vittima e due della cerchia dell’autore del reato, potrebbero aprirsi nuove prospettive. Per esempio potrebbe emergere che in un certo quartiere vengono perpetrati sempre gli stessi reati. E magari anche che nello stesso quartiere il tasso di disoccupazione è molto alto come anche quello delle madri single. Allora forse si comincerebbe a ragionare su cosa si può fare in quei quartieri con i ragazzi, per esempio.
Quella che lei descrive è nota come “giustizia riparativa”: ci sono già casi concreti di applicazione?
Anche nel nostro attuale ordinamento ci sono anche elementi di giustizia riparativa, penso per esempio all’istituto della mediazione. Ma non ne è il perno. Viene utilizzata più spesso quando si tratta di minori, quando per esempio la sentenza tiene conto del fatto che siano state pagate o meno piccole somme di denaro alla vittima in via riparativa. Per gli adulti invece non vi si ricorre quasi mai e soprattutto per i delitti più gravi non gioca praticamente nessun ruolo. In Brasile c’è un sistema di carceri, riconosciute dallo Stato, gestite dall’APAC, un’associazione di ispirazione cristiana per la protezione e l’assistenza ai condannati. Un punto centrale di questo sistema è il confronto fra detenuti e vittime, se queste lo desiderano. Ma anche lì il concetto di giustizia riparativa non ha completamente modificato né tanto meno sostituito il sistema penale.
Lei vuole abolire il carcere: è consapevole che un simile auspicio mette paura alla maggior parte delle persone?
A me pare in realtà che negli ultimi anni questa paura sia sensibilmente diminuita, almeno nella misura in cui mi è stata comunicata. Probabilmente perché il tema ha iniziato a essere affrontato in maniera più approfondita e differenziata anche nei media. Fino a pochi anni fa, dopo ogni dibattito pubblico a cui partecipavo ricevevo regolarmente diverse lettere dalle vittime, per esempio di stupro, che mi comunicavano di vivere le mie tesi come uno schiaffo. In questi casi io mi sono sempre confrontato personalmente con le vittime e ho ascoltato cosa provavano e cosa auspicavano. Le vittime vogliono innanzitutto essere protette per tutta la vita dal colpevole, il che è del tutto comprensibile. Le vittime di reati sessuali non vogliono mai più rivedere i loro carnefici e vogliono anche che questi ultimi non facciano ad altre quello che hanno subito loro. Attualmente però le cose stanno così: che dopo un certo periodo di tempo il colpevole viene rilasciato e torna a commettere reati. Le vittime non hanno tanto il bisogno di infliggere un male sproporzionato ai colpevoli, quanto piuttosto quello di ridurre al minimo la reiterazione dei reati. Attualmente abbiamo una sola risposta a un reato: prigione. Finché sarà così, naturalmente capisco che la mia richiesta di abolire il carcere possa ferire e offendere le vittime. Sulla base della mia esperienza però posso dire che questo atteggiamento cambia non appena sono messe sul tappeto delle alternative.
Lei stesso ha affermato che i reati non vengono dal nulla. Non è sensato allora che i colpevoli anche grazie a una pena detentiva vengano allontanati dal loro contesto?
Naturalmente ha senso allontanare le persone da un ambiente dove, per esempio, circola molta droga. O, a tutela delle vittime, allontanare dalle case persone che esercitano violenza domestica. Ma l’altra metà della verità che viene nascosta sotto il tavolo dalla giustizia è che queste persone vengono allontanate dal loro ambiente per essere inserite in un contesto molto più criminogeno, con un grande mercato di droga, nel quale essi vengono a contatto con altri colpevoli di altri reati. Non ha nessun senso allontanare le persone dal proprio contesto per portarle in uno ancora più distruttivo. Dobbiamo riuscire ad agire in maniera più individuale. Il monitoraggio elettronico della residenza, che consente ai condannati di rimanere nella propria abitazione a determinate condizioni e di lasciarla solo per andare a lavoro o non di non lasciarla affatto, può essere una utile misura. Se per qualunque ragione non appare ragionevole che il condannato rimanga a casa sua, si potrebbe pensare a delle comunità residenziali di gruppo, dove naturalmente bisogna attentamente sorvegliare chi ci vive, quali misure e condizioni aggiuntive sono utili o quale tipo di cura e supervisione si rendono necessarie.
Quali sono i princìpi fondamentali che dovrebbero guidare in futuro la gestione di coloro che hanno violato le leggi?
Un giovane ruba la borsa a una signora. Il nostro primo impulso è: deve essere punito. La domanda successiva però dovrebbe essere: che scopo vogliamo raggiungere? L’idea della punizione e la sete di giustizia sono dentro di noi e non dobbiamo vergognarci del nostro impulso di vendetta. Dobbiamo però iniziare a riflettere su questo primo impulso. Allora percorsi nuovi e più sensati si apriranno quasi da soli.
Fonte: MicroMega, 7 luglio 2020.
[1] In Germania viaggiare senza regolare titolo di viaggio è un reato penale punibile con una multa o con la reclusione fino a un anno, n.d.t.