martedì, Aprile 30, 2024
Conflitti

Quante armi nucleari possiedono oggi gli Stati Uniti?

a cura di Chiara Magneschi

Il Bulletin of Atomic Scientists, un’organizzazione indipendente senza scopo di lucro impegnata a fare informazione approfondita sulle minacce globali create dall’uomo, pubblica dal 1987 un Nuclear Notebook in cui si analizza la diffusione delle armi nucleari sul pianeta. L’edizione 2022, curata da Hans M. Kristensen, direttore del Nuclear Information Project della Federation of American Scientists, e da Matt Korda, un ricercatore senior associato al progetto, è interamente dedicata all’arsenale nucleare statunitense.

Il documento raccoglie e analizza dati preoccupanti sull’avanzamento dei programmi nucleari e sul connesso aumento degli investimenti economici da parte degli Stati Uniti ma anche, come effetto a catena, da parte di molti altri paesi, chiamati a “stare al passo”.

A un primo sguardo, l’arsenale nucleare statunitense sembra attenersi ai limiti del Trattato di riduzione delle armi strategiche (New START), con una scorta stimata di circa 3.708 testate (delle quali 1.744 dispiegate e 1.964 tenute in riserva), a cui se ne aggiungono 1.720 in attesa di smantellamento, per un inventario totale di circa 5.428 testate nucleari immagazzinate in 24 località geografiche, tra cui 11 Stati statunitensi (principalmente New Mexico e Washington) e 5 paesi europei. A ben vedere, tuttavia, da un lato l’attuale contenimento del numero entro la soglia del Trattato si spiega unicamente con l’ingresso di alcuni lanciatori in una fase di manutenzione; dall’altro lato, è da tenere presente che il sistema di conteggio adottato dal Dipartimento di Stato differisce da quello utilizzato nel Nuclear Notebook poiché, se le nuove regole di conteggio START contano una testata per ciascun bombardiere schierato, in questa sede si contano anche le armi presenti nelle basi e pronte per essere caricate rapidamente sui bombardieri, nonché le armi nucleari non strategiche collocate in Europa.

Nonostante i dati reali si presentino, dunque, difformi da quelli ufficiali, resta ferma la funzione di “contenimento” esercitata dal Trattato New START, ed è un’ottima notizia che, nel 2021, Stati Uniti e Federazione Russa si siano accordati per estenderne la durata fino a febbraio 2026. Colpisce, peraltro, il divario significativo e crescente tra Russia e Stati Uniti nel possesso di armi nucleari strategiche: questi ultimi posseggono 138 lanciatori schierati in più rispetto alla Federazione.

La revisione dell’impegno nucleare statunitense (Nuclear Posture Review), che avrebbe dovuto essere completata alla fine di gennaio 2022, sotto la nuova amministrazione Biden, è stata ritardata a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina.

L’analoga programmazione condotta sotto la presidenza Trump, tuttora in campo, aveva assunto toni conflittuali e competitivi e prevedeva piani per sviluppare nuove armi nucleari, con aumenti significativi del relativo budget, allo scopo di proteggersi contro le potenziali minacce strategiche nucleari e non nucleari, comprese aggressioni chimiche, biologiche, informatiche e convenzionali su larga scala. L’attuale piano strategico OPLAN 8010–12, in vigore dal 30 aprile 2019, ha già innescato un circolo vizioso, in virtù del quale altri Stati, in primis la Russia e, di riflesso, la Repubblica Popolare Cinese, ritengono urgente attuare analoghe iniziative di riarmo.

Tali cambiamenti sono indicazioni importanti di come la strategia degli Stati Uniti sia cambiata in risposta al deterioramento delle relazioni Est-Ovest e sia apertamente improntata a una “grande competizione di potere”. In effetti, già a seguito della crisi russo-ucraina del 2014, le operazioni di bombardieri statunitensi in Europa sono aumentate e da allora anche il numero degli schieramenti e dei bombardieri è costantemente aumentato, con l’obiettivo di tenere attiva una forza militare pronta al combattimento nel teatro europeo.

In linea con questo rinvigorimento programmatico, gli Stati Uniti stanno portando avanti tutta una serie di sotto-programmi di “modernizzazione” delle componenti di armamenti, che il documento esamina nel dettaglio e con dovizia di particolari tecnici.

Tra questi piani spicca l’attività dell’Air Force, incaricata di seguire la costruzione delle cosiddette strutture di allerta missilistica e di nuove strutture di addestramento. Attualmente l’Air Force conduce diversi “test di volo” all’anno, in cui missili balistici intercontinentali abilitati al trasporto di testate nucleari vengono lanciati verso i siti di test; gestisce inoltre una flotta di più di cento bombardieri con capacità nucleare, in grado di trasportare (in base alla tipologia) bombe nucleari o missili da crociera lanciati dall’aria. L’aeronautica statunitense sta inoltre sviluppando, insieme alla Boeing, un nuovo missile da crociera nucleare a lungo raggio, da poter integrare sui bombardieri, missile che dovrebbe essere completato entro l’inizio del 2025: si prevede che lo sviluppo e la produzione raggiungeranno il costo di 4,6 miliardi di dollari per ogni missile e di 10 miliardi di dollari per ogni testata.

Quanto alla Marina degli Stati Uniti, essa gestisce una flotta di 14 sottomarini che operano nel Pacifico e nell’Atlantico. Ogni sottomarino può trasportare fino a 20 missili balistici (il numero è stato ridotto, dai precedenti 24, per rispettare i limiti fissati nel New START), sui quali vengono a loro volta dispiegate circa 950 testate. Dal 2017, la Marina sta sostituendo i modelli originali con versioni aggiornate a portata aumentata (di oltre 12.000 km), dotate di nuovo sistema di guida e progettate per rendere il missile più preciso. In altri casi, invece, l’aggiornamento consiste nella “estensione della vita” di alcuni armamenti per assicurarsi che possano operare ancora a lungo (addirittura fino alla fine del millennio). Negli anni della Guerra Fredda, la stragrande maggioranza dei “pattugliamenti deterrenti” si svolgeva nell’Oceano Atlantico. Al contrario, oggi più del 60% dei pattugliamenti deterrenti avviene nel Pacifico, come segnale di una maggiore attenzione per quello scenario e di una possibile guerra nucleare contro Corea del Nord e Cina.

Gli Stati Uniti stanno modernizzando anche la propria forza di bombardieri nucleari, sia attraverso il potenziamento della capacità di comando e controllo nucleari di quelli già esistenti, sia attraverso lo sviluppo di nuovi mezzi. Gli aggiornamenti includono una profonda opera di affinamento della capacità di comunicazione e comando tra i bombardieri e gli altri strumenti militari in ordine agli attacchi nucleari, mentre l’attività di implementazione è rivolta soprattutto allo sviluppo della prima bomba nucleare a gravità guidata e distanziata, nota come B61-12, che avrà lo scopo di sostituire tutte le bombe a gravità già esistenti, per un costo stimato di circa 10 miliardi di dollari per circa 480 bombe B61-12. È inoltre in produzione il bombardiere pesante di nuova generazione, che si prevede entrerà in servizio a metà degli anni ’20: l’obiettivo è acquisire 145 nuovi velivoli di questo tipo, per un costo stimato di 550 milioni di dollari per aereo.

Gli Stati Uniti dispongono inoltre di un tipo di arma nucleare non strategica nelle loro scorte: la bomba a gravità B61. Si stima che circa 100 di queste siano schierate nelle sei basi statunitensi in suolo europeo: Aviano e Ghedi in Italia, Büchel in Germania, Incirlik in Turchia, Kleine Brogel in Belgio e Volkel nei Paesi Bassi. Il numero è diminuito dal 2009, in parte a causa della riduzione della capacità di stoccaggio operativa ad Aviano e Incirlik. Le restanti 100 bombe di questo tipo sono collocate in territorio statunitense, a potenziale sostegno degli alleati al di fuori dell’Europa, compreso il nord-est asiatico. Le forze aeree belga, olandese, italiana, tedesca sono peraltro tutte in fase di aggiornamento dei mezzi a disposizione. Ad esse possono venire assegnate missioni di attacco nucleare con armi nucleari statunitensi, mentre in circostanze normali le armi sono tenute sotto il controllo del personale dell’Air Force e il loro uso in guerra deve essere autorizzato dal presidente degli Stati Uniti. Gli Stati della NATO che non ospitano armi nucleari possono comunque partecipare alla missione nucleare come parte di operazioni di supporto convenzionali note come Support Nuclear Operations With Conventional Air Tactics (SNOWCAT).

Anche la NATO sta lavorando a un’ampia modernizzazione dell’arsenale nucleare in Europa, con il potenziamento delle bombe, degli aerei e del sistema di stoccaggio delle armi, soprattutto presso le sei basi attive (Aviano, Büchel, Ghedi, Kleine Brogel, Incirlik e Volkel) e presso la base di addestramento tedesca di Ramstein. Gli aggiornamenti di sicurezza sembrano già essere stati completati ad Aviano e Incirlik. L’Alleanza sta inoltre aumentando le dimostrazioni (come quella nel giugno 2020 ad Aviano) visive di forza nella propria capacità di dissuadere e sconfiggere qualsiasi avversario che minacci gli interessi degli Stati Uniti o della NATO stessa.

Come noto, avendo raggiunto le 50 ratifiche nell’ottobre 2020, il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari è entrato ufficialmente in vigore il 22 gennaio 2021. Non è chiaro se il trattato avrà un effetto sullo stato della posizione nucleare della NATO nei prossimi anni, e in particolare sul dispiegamento avanzato di armi nucleari statunitensi sul territorio europeo della NATO. Tuttavia, l’opinione pubblica in Belgio, Germania, Italia e Paesi Bassi è fermamente contraria a ospitare armi nucleari statunitensi. Allo scopo di far aderire i propri paesi al nuovo Trattato, alcuni paesi hanno già intrapreso azioni che sfidano la permanenza delle armi nucleari statunitensi sul loro suolo, come il Belgio, dove un gruppo di parlamentari ha presentato, nel gennaio 2020, una mozione per il ritiro delle armi nucleari sul territorio, respinta per pochi voti. È possibile che risoluzioni simili possano essere discusse e votate in altre nazioni ospitanti armamenti nucleari statunitensi nei prossimi anni. Questo spiega perché gli Stati Uniti hanno cercato, anche se invano, di persuadere alcuni paesi a ritirare le loro ratifiche, solo una settimana prima che il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari raggiungesse le 50 ratifiche.

Chiara Magneschi è avvocata, ricercatrice aggregata al Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace” e docente a contratto in Teorie giuridiche e politiche e diritti umani presso il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa. E-mail: chiaramagneschi@gmail.com