“Cronache degli anni neri” di Romano Bilenchi
di Andrea Panzavolta
Nell’aprile del 1984 gli Editori Riuniti mandarono in stampa Cronache degli anni neri, un vero e proprio memoriale della guerra di Liberazione, che rivolge a ogni cittadino e cittadina un duplice imperativo, di agostiniana memoria: tolle, lege ossia «prendi e leggi». Il volume, curato dallo scrittore Romano Bilenchi, raccoglie i testi della sezione Documenti apparsi sulla rivista fiorentina Società (di cui lo stesso Bilenchi fu uno dei fondatori) nel biennio 1945-46.
Si tratta di testimonianze impressionanti raccolte subito dopo la Liberazione e trascritte senza apportare alcun abbellimento stilistico o correzione sintattica: in esse risuonano ancora, per dirla con Quasimodo, il «lamento d’agnello dei fanciulli» e l’«urlo nero della madre» che rinnovano il raccapriccio e lo scandalo, lo sdegno e il domandare. Soprattutto il domandare, fondamento di ogni autentico rammemorare. Un ‘memoriale’ abbiamo definito sopra Cronache degli anni neri, e tale sarà se farà diventare il lettore di oggi, ormai lontano nel tempo dalle empietà ivi narrate, una magna quaestio per se stesso, cioè se lo spingerà a interrogare prima di tutto la propria coscienza e a riflettere su quale parte – l’Umano o l’Inumano – egli avrebbe scelto se si fosse trovato a vivere quegli eventi abnormi. E questo non per un fatuo esercizio retorico, bensì per una tanto semplice quanto fondamentale scelta di civiltà: poiché ciò che è stato è ragionevole supporre che possa accadere di nuovo, l’unico appiglio a cui possiamo aggrapparci per non cadere nella barbarie è l’insonne interrogazione di noi stessi.
Espressione compiuta di quella massimamente riprovevole forma d’odio che furono il nazismo e il fascismo è l’eccidio di Civitella della Chiana, in provincia di Arezzo, a cui il libro dedica la testimonianza più ampia. Il 29 giugno 1944 una unità della divisione paracadutisti corazzati ‘Hermann Göring’ – con la complicità di fascisti italiani, a detta di alcuni testimoni – mise a ferro e fuoco il paese toscano, affollato per la solennità dei santi Pietro e Paolo, quale ritorsione per la morte di tre soldati uccisi dai partigiani dieci giorni prima. Molti uomini, in particolare gli anziani e i malati, furono subito assassinati nella propria abitazione; i rimanenti, dopo essere stati raccolti nella piazza del paese, furono condotti sul retro della scuola e lì assassinati con un colpo di pistola alla nuca; i corpi furono poi gettati dentro le case, che erano state date alle fiamme. La stessa sorte toccò agli uomini che si erano riparati in chiesa, sperando di trovare salvezza almeno lì.
La strage di Civitella, questo il titolo della sezione che raccoglie le testimonianze dei superstiti, ha la potenza di un coro tragico. Il lamento funebre (thrénos) è innalzato dalle donne, sulle quali in massima parte ricadono, fin dalla fondazione del mondo, «los desasters de la guerra». Anna Cetoloni, Ada Sestini, Rina Caldelli, Uliana Merini, Corinna Stopponi, Maddalena Scaletti, Rosa Sensini e altre donne ancora narrano una dopo l’altra la loro storia, la cui atrocità è antica come le montagne eppure sempre nuova.
Dove abbiamo già udito, infatti, queste storie di sangue? Non siamo forse già stati percossi da simili immagini di violenza? Quelle grida non hanno forse accenti a noi noti? Già non le udimmo dalla bocca di Andromaca e di Antigone, di Cassandra e di Ecuba? E le case in fiamme di Civitella non sono le stesse di Troia? «Già l’ampia dimora di Deifobo crolla nell’incendio che la sovrasta, già arde il vicino Ucalegonte […]. Sorge un clamore di guerrieri e un clangore di trombe. […] Moltissimi corpi giacciono qua e là senza vita, per le vie, per le case e sulle soglie consacrate degli dèi […]. Crudele ovunque il dolore, ovunque il terrore, e molteplice l’immagine della morte» (Eneide, Libro II).
Di una grandiosità autenticamente classica è il thrénos delle donne di Civitella. Anche se non è raccontato in dimetri anapestici o in esametri esso possiede, tuttavia, una forza che si incide in modo indelebile nella mente e nel cuore, perché lo spirito del Classico soffia su chiunque si chini sulla dolente umanità, le rimane accanto e la veglia. Più che nelle «parole alate», lo spirito del Classico si avverte nei gesti: le donne di Civitella piangono insieme, consolano i loro bambini, li prendono in braccio, abbandonano il paese per metterli in salvo e soprattutto compiono quel gesto che è la cifra dell’Umano: seppellire i morti. Ogni testimonianza termina allo stesso modo, con la descrizione della sepoltura dei mariti, dei fratelli, dei padri: «[…] andai con le altre vedove dove erano stati uccisi i nostri uomini. Con il camion li trasportammo al cimitero e, aiutandosi tra donne, li seppellimmo»; «io, sua moglie, gli feci la cassa e quando la cassa fu fatta un po’ alla meglio prendemmo un carretto sopra il quale si mise mio marito e altri due uomini e li trasportammo al cimitero dove la fossa la feci da me»; «da noi stesse raccogliemmo i nostri morti, da noi facemmo le casse, da noi li caricammo su un carretto che serviva allo spazzino per raccogliere l’immondizia del paese e a tre a tre li portammo al cimitero»; «dopo tante lacrime prendemmo i morti, li rivoltammo in un lenzuolo e li portammo in chiesa insieme con un ragazzo di quindici anni perché non c’era rimasto nessuno. La sera furono incassati e posti su un carretto e portati al cimitero»; «facemmo le casse aiutandoci l’una con l’altra e portammo i nostri morti al cimitero su un carretto a due per due. Cose da raccapricciare».
Lo dice la parola stessa, humare: siamo esseri umani, anzi, lo siamo tanto più quanto più offriamo degna sepoltura ai nostri simili. E c’è questo di paradossale nell’inumazione: che i morti sono sottratti alla vista degli occhi per essere sempre presenti a quella del cuore. La furia dei tedeschi, che si accanì contro quegli innocenti devastandone prima il volto, la parte più sacra di un essere umano, con i proiettili, poi il corpo con il fuoco, a ben vedere è del tutto impotente contro il gesto delle donne di cercare tra le macerie fumiganti i resti dei loro congiunti, di costruire con le loro mani le bare, di trasportarle al camposanto e di sotterrarle. Sono gesti che, se non si compiono, escludono dal consesso umano.
Come Antigone, le donne di Civitella danno sepoltura ai loro cari, correndo il rischio di esporsi a ulteriori rappresaglie; come le pie donne dei racconti evangelici, esse avvolgono nel lenzuolo i loro morti, li piangono e li depongono in una tomba da esse stesse scavata. Perché quei morti sono, appunto, ‘i loro’ morti. Nelle testimonianze sopra riportate ricorrono con insistenza gli aggettivi possessivi, i quali dicono l’intimità con corpi che, a dispetto della violenza che li ha vilipesi rendendoli irriconoscibili, ancora sono per coloro li hanno amati. Se per la soldataglia tedesca quei miseri resti sono Körper, pura datità organica (ma lo erano già prima di essere annientati, cosa questa che apre un altro capitolo oltremodo inquietante, quello cioè del pervertimento dello spirito per opera di filosofie e ideologie abominevoli), per le donne invece essi sono Leiber, corpi narranti una storia, preziosissima perché unica.
Alla misura d’orrore, già colma, toccata a Civitella della Chiana se ne aggiunse nei decenni successivi un’altra ancora che rende l’assassinio di quegli innocenti, se possibile, ancora più esecrando. Neppure uno degli ufficiali responsabili dell’eccidio ha pagato i conti con la giustizia, o per sopravvenuta morte degli imputati, o per il rifiuto della loro estradizione; inoltre il governo tedesco ha eccepito che nessun tribunale nazionale può condannare uno Stato sovrano al pagamento di danni ai familiari delle vittime. A conferma di come Dike abbia da tempo immemorabile abbandonato la Terra.
«Ma ciò che resta, lo fondano i poeti», ci ricorda Friedrich Hölderlin. E fondativo dell’Umano, prima ancora di un atto di giustizia, è la sepoltura dei propri simili. Se non da un tribunale, ciascuno di quegli assassini è stato già giudicato dalle donne di Civitella e dalla loro compassione, che è sovrabbondanza di giustizia.
Andrea Panzavolta è giornalista pubblicista. Collabora alla rubrica “Film in discussione” di Iride. Filosofia e discussione pubblica, e ad alcune riviste di critica cinematografica. Dal 2014 è il direttore artistico della rassegna concertistica forlivese “Passioni in musica”.