Le ferrovie e la Shoah. La battaglia di Salo Muller, fisioterapista dell’Ajax
di David Cerri
Adolf Eichmann, in Argentina, non aveva difficoltà a raccontare agli amici delle sue esperienze durante la guerra, fino ad affermare, come sappiamo grazie alle ricerche di Bettina Stangneth:
Vedete, come potete lasciare che 25.000 ebrei, o persone o diciamo mucche, come potete lasciare che 25.000 bestie spariscano durante il tragitto? […] Avete mai visto 25.000 persone ammucchiate? […] Avete mai visto anche solo 10.000 persone ammucchiate? Equivalgono a cinque treni merci e mettiamo che stipaste i treni merci secondo il modello della polizia ungherese, con tutta la buona volontà non riuscireste a far entrare più di 3.000 persone in un treno.
Gli interlocutori di Eichmann non riuscivano di certo a immaginare quanti problemi dovesse affrontare un organizzatore di un’operazione di sterminio.
È incredibilmente difficile fare un carico su un treno, che si tratti di buoi o di sacchi di farina […] e quando si tratta di caricare delle persone le cose sono molto più complicate, soprattutto se si devono fare i conti con certe difficoltà.
Quando pensiamo alla Shoah, probabilmente una delle prime immagini che si affacciano alla mente è quella dell’ingresso di Auschwitz-Birkenau, con quei binari che si arrestano alla rampa sulla quale veniva operata la prima selezione dei deportati. Essa ha un significato tecnico, oltre che fortemente emotivo: evidenzia un indispensabile strumento dello sterminio, il trasporto ferroviario. Dai paesi dell’Europa occupata, dapprima le ferrovie nazionali curavano il viaggio di quelli che sarebbero presto diventati dei semplici Stücke [pezzi], poi dall’ingresso in territorio tedesco o direttamente amministrato (come la Polonia) la responsabilità ricadeva sulla Deutsche Reichsbahn [ferrovia nazionale tedesca]. Ebrei (la grande maggioranza), Sinti, Rom, erano caricati sui carri bestiame che tutti conosciamo.
Il ruolo giocato dalle ferrovie nella distruzione degli ebrei d’Europa è già stato considerato dagli storici, ma se oggi ne riparliamo è a causa delle perenne attualità della Shoah, ferita che non si rimargina, e grazie a un sopravvissuto che ha fatto della memoria di quei trasporti una battaglia per l’affermazione della responsabilità storica e giuridica degli enti che vi avevano collaborato, e per il conseguente risarcimento dei danni subiti.
È Salo Muller, ebreo olandese oggi ottantacinquenne, ragazzino di cinque anni salvatosi per caso dal rastrellamento, che ha avviato una battaglia contro le ferrovie della Shoah per far ottenere ai familiari delle vittime un indennizzo da parte delle società di trasporto. Evidentemente aveva giurato a sé stesso di non tacere, dopo che ad Amsterdam i familiari erano saliti su quei carri diretti dapprima al campo di transito di Westerbork, e di là ad Auschwitz. In quella occasione la madre lo salutò così: “A stasera e fai il bravo”, frase che è divenuta poi il titolo di un suo libro ora tradotto anche in italiano. Una vita di lavoro come celeberrimo fisioterapista dell’Ajax di Johan Cruijff, negli anni ’70, non gli ha fatto dimenticare i 107.000 ebrei olandesi (tra loro anche Etty Hillesum e Anna Frank, la seconda con l’ultimo treno del settembre 1944) che, su vagoni delle ferrovie olandesi, erano giunti a una o all’altra delle famigerate rampe dei Lager di sterminio.
Novantatré treni erano partiti dall’Olanda tra il 1942 e il 1944 e, colmo di una tragica beffa, con passeggeri che pagavano per andare alla morte. Il colossale sforzo organizzativo che ebbe come protagonisti figure note – come Adolf Eichmann – e meno note – come Albert Ganzenmüller – aveva infatti anche notevoli costi: quale soluzione migliore di quella di farne pagare la maggior parte alle vittime, in particolar modo tramite i prelievi dai fondi delle comunità ebraiche? I migliori clienti della Reichsbahn, Himmler e la Gestapo, avevano concluso buoni accordi con l’ente ferroviario, grazie a una burocrazia del tutto cieca al contenuto dei treni e attenta solo a conseguire la massima efficienza. Il costo era quello del biglietto di terza classe (4 Pfennig a testa per chilometro) ma – somma generosità – i bambini fino a dieci anni per quella sola andata pagavano la metà e i minori di quattro addirittura nulla. Ma la Gestapo (agenzia promotrice dello sterminio) non aveva fondi in bilancio appositamente stanziati e doveva ricorrere all’autofinanziamento; così gli oneri furono trasferiti sugli enti che gestivano la confisca delle proprietà ebraiche, oppure sulle stesse comunità.
La sorveglianza dei treni era affidata alla Ordnungspolizei, composta in buona parte da quegli “uomini comuni” da cui trae il titolo il noto volume di Christopher Browning; come egli scrive, questi poliziotti, tra i quali riservisti e personale di mezza età, vedevano in faccia i deportati, li fucilavano se tentavano di fuggire, descrivevano nei loro rapporti i viaggi, senza apparentemente batter ciglio.
Tutti conosciamo Eichmann, ma solo le ricerche degli ultimi anni e la scoperta di nuovo materiale documentario ne hanno chiarito il ruolo propulsivo nel processo dello sterminio, quale principale organizzatore delle deportazioni all’interno del Reichssicherheitshauptamt [Direzione generale per la Sicurezza del Reich], Ufficio IV B4, correggendo l’abuso che si è fatto a volte di un’espressione pur straordinariamente efficace come quella coniata da Hannah Arendt nel suo resoconto del processo di Gerusalemme, la “banalità del male”. Questa espressione, forse, è più adatta alle migliaia di ferrovieri, di diverse nazionalità, che non potevano ignorare quale compito stessero contribuendo a svolgere e, ancor di più, a tutto il personale aziendale che si occupava di una complessa operazione come la deportazione di massa. Ai loro vertici, in Germania, c’era l’ingegnere Ganzenmüller.
Ganzenmüller era un nazista della prima ora: aveva partecipato con Hitler al fallito Putsch di Monaco del ’23. Nel 1942, dalla sua scrivania di Direttore generale facente funzione della Reichsbahn (fresca nomina suggerita da Albert Speer), scriveva orgogliosamente all’aiutante personale di Himmler, Karl Wolff, di esser riuscito a realizzare il trasporto quotidiano di ebrei da Varsavia a Treblinka e di esser in procinto di garantire simili trasporti al campo di Sobibor. Si garantiva così l’elogio e il ringraziamento di Wolff: “È con gioia tutta particolare [mit besonderer Freude] che ho letto come da due settimane, ogni giorno, un treno con 5000 componenti del popolo eletto viene fatto partire per Treblinka”. Il primo treno era arrivato a quel campo il 23 luglio 1942. L’ultimo Sonderzug [trasporto speciale] fu probabilmente quello del 15 aprile 1945, da Vienna a Theresienstadt, che nonostante tutte le difficoltà del momento gli impareggiabili uffici di Eichmann riuscirono a far partire.
Anche Ganzenmüller, per la cronaca, riparò in Argentina dopo la guerra, tornando poi in Germania nel 1955 e superando pressoché indenne un processo grazie alle sue condizioni di salute, fino alla morte avvenuta a 91 anni a Monaco.
Ora, quando si affrontano simili questioni – del come sia stato possibile per diecine, centinaia di migliaia di persone, facenti parte degli apparati burocratici e aziendali coinvolti nello sterminio, gestire quotidianamente una simile impresa al pari della produzione e della vendita di bulloni – talvolta si tende a immaginare che sia stato un periodo eccezionale, straordinario. Si ritiene che la guerra in corso, l’indottrinamento continuo, la minaccia di severe sanzioni per i rifiuti, siano stati strumenti sufficienti per indurre all’obbedienza generalizzata. Forse (e purtroppo) non è esattamente così, e si possono evidenziare – senza alcuna ambizione di svolgere una vera analisi storico-sociologica – alcune caratteristiche del sistema dello stato totalitario nazista. Ho scritto “purtroppo” perché alcuni tipi di organizzazione sociale sono probabilmente ripetibili, mutatis mutandis, anche in altri ordinamenti e in altre epoche.
In primo luogo, seguendo l’interpretazione di uno dei più noti studiosi della Shoah, Raul Hilberg, va notato come anche nel caso dei trasporti l’assegnazione di specifici ruoli al personale (la “parcellizzazione”, per così dire, della complessa operazione) consentisse di superare ostacoli organizzativi di prima grandezza, senza rinunciare a un attenta considerazione del rapporto costi/ricavi. Tutto questo, ovviamente, in presenza di un coordinamento centrale: ho ricordato a riguardo solo alcune delle posizioni apicali delle ferrovie nazionali, come Ganzenmüller, e della Direzione generale per la Sicurezza del Reich, come Eichmann, entrambi in stretto collegamento con Himmler attraverso la catena di comando. La Reichsbahn era “preparata a trasportare ebrei, o qualsiasi altro gruppo, dietro compenso”, scrive Hilberg. “Fondamentalmente, gli Ebrei furono distrutti come conseguenza di una molteplicità di atti eseguiti da una falange di funzionari in uffici pubblici o imprese private, e molte di queste misure, presa una ad una, si rivelavano essere burocratiche, immerse nell’abitudine, nella routine e nella tradizione”.
I funzionari e gli impiegati, vorrei notare, non avevano alcuna specifica preparazione per la trattazione degli “affari razziali”: erano “tecnici” il cui lavoro, tra l’altro, non era tutelato da particolari misure di segretezza, a differenza per esempio dei trasporti militari.
Lo svolgimento pratico dei trasporti evidenziava poi un – voluto, nella logica dello sterminio – effetto collaterale: come scrive ancora Hilberg, gli ebrei erano “gestiti [booked] come persone, e trasportati come bestiame”. Per chi non avesse presenti le condizioni all’interno dei carri bestiame, sarà sufficiente rileggere la lettera da Westerbork di Etty Hillesum del 24 agosto 1943 (“Se dico che stanotte sono stata all’inferno, che cosa ne potete capire voi?”), o il primo Canto (“Canto della banchina”) de L’istruttoria di Peter Weiss, con la trascrizione in versi liberi dei verbali del Processo di Francoforte.
La “carriera morale” del deportato, per riprendere un’espressione coniata da Erving Goffman a proposito delle “istituzioni totali” (come carceri, ospedali psichiatrici, orfanotrofi) iniziava con la chiusura dei portelloni del vagone, al buio, senza aria, acqua, cibo, servizi di alcun genere, per giorni e giorni, nell’indescrivibile lezzo che era parte essenziale di quello che è stato descritto da Terrence Des Pres, nel suo The Survivor, come un “excremental assault”.
Altra caratteristica, comune all’esecuzione della “soluzione finale” in tutti i suoi aspetti, era l’attenzione a non usare mai termini espliciti nella pur imponente documentazione scritta necessaria alla gestione del servizio. Il modello hitleriano di comando era usato anche nella pratica quotidiana; non sembra ci sia mai stato un ordine scritto del Führer di procedere allo sterminio, ma le sue indicazioni ai principali collaboratori (e a dire il vero le sue esplicite, benchè generiche, esternazioni pubbliche, da Mein Kampf al discorso al Reichstag del 30 gennaio 1939) erano ben chiare: stava a loro eseguirle, quando necessario “inventando” le strategie migliori. Così anche per le deportazioni; rari i documenti come quelli citati (lo scambio tra Ganzenmüller e Wolff), classificati Geheim [segreto], ma inevitabili le anodine Fahrplananordnungen [disposizioni in materia di orari ferroviari], eloquenti per la ricostruzione dei fatti: riportavano il numero dei deportati, il percorso, la destinazione. Così, per esempio, dalla Fahrplananordnung n. 587 (che si vede in Shoah di Claude Lanzmann, nell’intervista a Hilberg) si ricava che il 1 ottobre del ’42, alle ore 11:24, 10.000 ebrei arrivarono a Treblinka, e che il treno (50 vagoni) ripartì vuoto.
La battaglia di Salo Muller per mettere in luce l’importanza dei trasporti nello sterminio aveva avuto un precedente nell’ammissione di colpa delle ferrovie francesi (SNCF): tra il 1941 ed il 1944, 160.000 persone erano state deportate dalla Francia, 76.000 delle quali per motivi razziali. Nel 2010 il presidente delle ferrovie francesi aveva ammesso che la SNCF, benché costretta, era stata un ingranaggio della macchina di sterminio nazista. Lo aveva fatto perché l’azienda era sotto pressione da parte di alcuni stati degli Stati Uniti per poter partecipare a importanti gare d’appalto: ma lo aveva fatto, creando un sistema per la presentazione di reclami e richieste di risarcimento, che nel 2014 avrebbe riconosciuto un totale di 49.000.000 di euro.
Nel 2018, sono state le ferrovie olandesi a capitolare di fronte alla campagna promossa da Muller, per conto dei circa 500 sopravvissuti allo sterminio, e di oltre 5.500 familiari di vittime, cui sono stati destinati poco meno di 50.000.000 di euro.
Ora è la volta della Deutsche Bahn, “erede” aziendale della Reichsbahn. Gli avvocati di Muller si sono rivolti alla società e direttamente all’allora cancelliera Angela Merkel, chiedendo che venisse pubblicamente assunta la responsabilità morale e giuridica delle deportazioni. Per ora il governo tedesco ha dichiarato che “la Germania, ovviamente, è ritenuta responsabile dei crimini del regime nazista”, e che “non dimenticheremo mai i crimini commessi dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Fino a oggi ci riempiono di grande sgomento e vergogna”. La Deutsche Bahn, negli anni ’90, aveva in effetti creato una Fondazione per la Memoria, la Responsabilità e il Futuro, avviando nel 2010 un progetto a beneficio dei sopravvissuti alle deportazioni.
Tutto lascia pensare che Salo non si accontenterà di altre promesse.
[Una versione più ampia dell’articolo è stata pubblicata su Giustizia Insieme].
David Cerri è avvocato cassazionista, docente della Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali dell’Università di Pisa, docente esterno di “Italiano per il diritto” presso Università di Pisa, membro del Comitato Scientifico e Commissione mediazione Fondazione Scuola Forense Alto Tirreno.