lunedì, Dicembre 23, 2024
Cultura

Patrimonio culturale: per Covid, ma non per tutti

Nonostante la riapertura decisa dal governo per musei e siti archeologici, il 17 maggio scorso, molti di questi hanno di fatto scelto di rimanere chiusi al pubblico, con alcune eccezioni legate a giornate di raccolta fondi. La questione dell’accessibilità dei beni culturali nel dopo-lockdown ha aperto un interessante dibattito sulla fruibilità pubblica del patrimonio italiano, divenuta sempre più un privilegio per pochi, come spiega Mariasole Garacci su MicroMega. Si tratta di una deriva pericolosa, che conduce alla cancellazione del bene pubblico e alla sua sottrazione alla comunità, in favore di concessioni esclusive ai privati. Questa problematica è anche strettamente collegata alla questione del lavoro: l’uso di “volontari” da parte delle amministrazioni private dei beni pubblici rischia, infatti, di ledere il lavoro dei professionisti del settore e indebolire il loro insostituibile ruolo nella cura del patrimonio culturale.

 

di Mariasole Garacci

 

Da quando, dopo il lockdown, è stata autorizzata la riapertura delle aree archeologiche e dei musei, molti di essi sono in realtà rimasti chiusi. “Causa Covid-19” si dice, ma questa motivazione cela mancanza di soldi e di personale. Succede in un importante area archeologica di Roma, ancora chiusa al pubblico ma misteriosamente aperta per il FAI. Sicuri che il non profit sia una soluzione democratica?

Lo scorso 11 settembre, il Fondo Ambiente Italiano ha pubblicato sui suoi social un post tramite il quale cercava volontari per le sue visite guidate: “Ti piace raccontare la bellezza dei luoghi che ami? Sei convinto che il territorio in cui vivi sia ricco di tesori eccezionali che ti piacerebbe far conoscere agli altri? Condividi con noi la tua passione: diventa volontario per le Giornate Fai d’autunno!”. Come ha riferito Tomaso Montanari su Il Fatto Quotidiano, il post è stato oggetto di centinaia di commenti di cittadini arrabbiati e indignati: “vergognatevi, il settore del turismo è alla fame e voi cercate volontari, il lavoro si paga: è vergognoso questo lucro sul volontariato. Ci sono professionisti senza lavoro!” oppure “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Il FAI ha rimosso il post e, in data 18 settembre, ne ha pubblicato un altro sulla sua pagina Facebook in cui, tacciando le voci critiche di essere “sgradevoli e disinformate”, afferma l’impegno a perseguire la propria missione: “permettere al maggior numero possibile di monumenti di avere un futuro”. E prosegue: “siamo un ente non profit, non dividiamo profitti, quello che raccogliamo dal contributo di tutti lo investiamo per intero, da quarantacinque anni, nella cura, nella tutela e nella valorizzazione del patrimonio d’arte e natura del Paese per renderlo fruibile a tutti”.

Cura, valorizzazione, fruibilità. Patrimonio culturale. Cittadinanza. Lavoro. Tali sono le questioni in ballo, strettamente intrecciate; senza voler essere “sgradevole” e senza nulla togliere all’importanza sociale del Terzo Settore in un Paese che tanto (troppo?) conta sul principio di sussidiarietà, è utile spiegare attraverso un esempio concreto in che modo alcune iniziative di enti privati come il FAI entrino in grave conflitto con la libera fruizione del patrimonio collettivo, da un lato, e con una materia cruciale, specie in questo momento, come quella del lavoro nel settore turistico e culturale, dall’altro. E come, infine, belle parole come “volontariato” e “non profit”, descrivano in realtà uno scenario regressivo di gestione del patrimonio, in cui l’azione sussidiaria diventa pericolosamente suppletiva di uno Stato che abdica alle sue funzioni.

Partiamo dalla meritoria missione di rendere il patrimonio “fruibile a tutti”, per venire poi alla questione del lavoro. Da quando, dopo il lockdown, è stata autorizzata con DPCM 17 maggio 2020 la riapertura delle aree archeologiche e dei musei, molti di essi sono in realtà rimasti chiusi. “Causa Covid-19” si dice, ma questa motivazione ne cela spesso altre, strutturali: la mancanza di soldi e di personale. Nella Capitale, per esempio, resta interdetto l’ingresso a quello che noi romani chiamiamo familiarmente “Monte dei Cocci”, il Mons Testaceus che dà il nome a un quartiere di Roma affacciato sul Tevere: un incredibile sito archeologico di epoca imperiale che consiste in un vero e proprio monte, appunto, alto 36 metri sul livello stradale e interamente composto da milioni di testae (ossia cocci) di anfore in terracotta provenienti dal vicino porto fluviale dell’Emporium, ordinatamente accatastate e disposte in quel punto nel corso di oltre due secoli.

Trattandosi di un luogo impervio e delicato, la visita è sempre stata consentita solo se accompagnati da guida autorizzata, ma per accedere è sufficiente prenotare chiamando il call center di informazione turistica e culturale di Roma Capitale al numero 060608 e fissare un giorno (sperando sia disponibile un custode di turno per aprire il cancello). Adesso, in ottemperanza alle norme imposte dall’allarme sanitario, questo non è più possibile. Strano, dal momento che il Monte dei Cocci è un luogo in cui si potrebbe, date le caratteristiche, stare all’aperto senza mascherina e rispettando il distanziamento. Tra l’altro, le guide autorizzate sarebbero investite della competenza e della responsabilità di imporre norme sanitarie e comportamentali ai visitatori per la loro sicurezza, come si legge nell’Ordinanza della Regione Lazio del 27/05/2020.

Chiuso per Covid-19, dunque. Per il 26 settembre, però, la Delegazione di Roma del FAI ha organizzato proprio lì e “con la collaborazione della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali” (così si legge nella pagina che pubblicizza l’evento) un’intera giornata di visite guidate da loro volontari non retribuiti. Le prenotazioni sono già aperte. Inspiegabilmente, in questo caso le norme sanitarie non valgono. E si vede bene come, anziché perseguire il suo scopo dichiarato di rendere il patrimonio “fruibile a tutti”, il FAI stia in realtà avvalendosi della chiusura alla collettività di un pezzo di patrimonio, per renderlo “fruibile a pochi” e precisamente nelle giornate dedicate alla promozione e alla raccolta fondi per il finanziamento delle sue attività. Date che quest’anno, inoltre, coincidono con le Giornate Europee del Patrimonio promosse dal MiBACT.

Non intendo accanirmi sul FAI, che in molti casi amministra e apre ai cittadini incantevoli beni di sua proprietà: questa è una collaborazione virtuosa tra Stato e privato. Ma quando, invece, beni demaniali che lo Stato non riesce a mantenere vengono affidati a un privato (come Villa Gregoriana a Tivoli, per restare nel Lazio), dobbiamo sapere che qualcosa non va esattamente come dovrebbe andare: mentre lo Stato si libera di un imbarazzante fardello e non ci dà conto di un patrimonio di cui noi siamo i proprietari, si lascia avanzare un lento e impercettibile indebolimento, uno svuotamento della cosa pubblica. È questo ciò a cui è destinato anche il Monte dei Cocci a Roma? Se è così, sappiate che, sotto i nostri occhi e senza che nessuno si senta in dovere di avvertirci e di considerare soluzioni alternative, si sta compiendo la transazione gratuita di un nostro bene.

E veniamo al lavoro (quello pagato). Se si ha l’ambizione di farsi paladini del patrimonio, e se, d’altro canto, in virtù della sussidiarietà (di cui si è mostrata la deriva), si accetta che un soggetto privato intervenga nella prerogativa costituzionale che assegna alla Repubblica (art. 9) la tutela del patrimonio storico e artistico della Nazione che in esso trova un fattore identitario, allora non si può ignorare altri fondamenti costituzionali come quello che riconosce il diritto al lavoro e il dovere, da parte dello Stato, di promuovere le condizioni che tale diritto rendano effettivo (art. 4). Specie quando il lavoro in questione è precisamente lo studio, la condivisione, la trasmissione, la valorizzazione del patrimonio stesso. Ignorare lo stretto legame tra patrimonio culturale e lavoro, ciascuno reciprocamente risorsa e lievito dell’altro, rivela una concezione ancien régime del primo, da una parte; le frange di nuove forme di sfruttamento neocapitalistico dall’altro.

In questa drammatica e dolorosissima fase di crisi, è davvero un segnale negativo e pericoloso quello lanciato dalla Sovrintendenza Capitolina, che “causa Covid-19” non soltanto impedisce a storici dell’arte e archeologi – lavoratori autorizzati dallo Stato all’esercizio della professione di guida con esame pubblico- il lavoro in un momento in cui lo Stato elargisce sostegni di €600 una tantum, ma addirittura agevola e introduce una concorrenza imbattibile concedendo l’ingresso – la “collaborazione” – a un ente privato che si serve di volontari.

Così si fa ripartire l’economia di un Paese? Elargendo sostegni economici e ostacolando il lavoro? E ancora: quando non si apre (o non si riapre) un pezzo di patrimonio pubblico per una ragione congiunturale che la assegnazione della visita a un ente privato, poi, dimostra chiaramente essere pretestuosa, di fatto lo si sta cancellando. Lo si sta sottraendo alla comunità. Lo si sta sottraendo alla libera fruizione da parte dei cittadini che ne sono gli unici legittimi proprietari. Lo si sta delimitando, in questo caso particolare, in favore delle attività autopromozionali (oggi) di possibili concessionari esclusivi (domani), siano essi una fondazione senza scopo di lucro o, magari più in là, una qualche altra associazione o cooperativa for profit. E questo attacco allo Stato – sì, allo Stato rappresentato dalla Costituzione, dalla collettività e dai suoi lavoratori – viene proprio da coloro che per definizione avrebbero il fine di mantenere, tutelare e valorizzare i beni archeologici, storico-artistici e monumentali di una città.

 

Fonte: MicroMega, 23 settembre 2020.