sabato, Settembre 13, 2025
AmbienteDiritti

Riconosciuto il diritto di agire in tribunale contro la crisi climatica

di Emma Fanciulli e Arianna Soldani

Agire nelle corti contro il riscaldamento globale

Il riscaldamento globale continua a ritmo sostenuto, con gravi ripercussioni sulla vivibilità del pianeta, ma anche sulla stabilità sociale ed economica di molte comunità umane. Ondate di calore record, siccità prolungate e tempeste di intensità crescente non sono più emergenze stagionali, ma i segni di un sistema climatico destabilizzato dalle attività umane.

La crisi climatica non è più una minaccia futura, ma un fenomeno in atto che sta ridefinendo le condizioni stesse della vita sulla Terra, mettendo a rischio il diritto a un clima sano quale condizione imprescindibile per l’esercizio di tutti gli altri diritti fondamentali.

Secondo la comunità scientifica, l’aumento della concentrazione di CO₂ in atmosfera è il principale motore della crisi, di cui i paesi più industrializzati e ad alto reddito portano le maggiori responsabilità. Gli effetti sono molteplici e interconnessi: riduzione della disponibilità di acqua e cibo, perdita di biodiversità, danni alle infrastrutture a causa degli eventi meteorologici estremi, peggioramento della salute pubblica e, in alcuni casi, l’impossibilità di continuare a vivere in determinate aree geografiche.

L’impatto del cambiamento non è equamente distribuito, ma dà luogo a una profonda ingiustizia climatica. Il riscaldamento globale colpisce in modo sproporzionato le comunità più vulnerabili che, pur avendo una minima impronta di carbonio, sono spesso più duramente colpite da eventi climatici estremi come siccità, inondazioni e tempeste.

Si tratta di comunità residenti nei paesi a medio e basso reddito, che vivono in aree meno protette o in abitazioni fragili, senza le risorse economiche e le infrastrutture necessarie per difendersi o per riprendersi da catastrofi naturali. Le loro economie dipendono in modo significativo da agricoltura, allevamento e pesca, settori estremamente sensibili alle variazioni climatiche. Hanno inoltre un accesso ridotto a servizi sanitari, sistemi di allarme e reti di sicurezza sociale, che potrebbero aiutarle a far fronte alle emergenze.

È per rispondere a queste ingiustizie e sbloccare l’inazione dei governi che, nel corso dell’ultimo decennio, si sono moltiplicate in tutto il mondo le cosiddette cause climatiche (climate litigations). L’obiettivo di queste azioni legali è far riconoscere l’esistenza di un diritto al clima sano, costringendo i responsabili politici ed economici a rispettare gli standard di riduzione delle emissioni adottati a livello internazionale e a farsi carico dei danni causati dalla crisi climatica.

In questo articolo ricostruiamo il contesto nel quale hanno visto la luce le cause climatiche, facendo il punto del loro avanzamento in Italia (a partire da una recente ordinanza della Corte di Cassazione) e nel mondo (a partire da un altrettanto recente parere della Corte Internazionale di Giustizia).

L’adozione di strumenti vincolanti in materia climatica

Le basi scientifiche per lo studio del cambiamento climatico causato da attività umane sono state gettate alla fine dell’800, ma è solo nella seconda metà del ‘900 che il dibattito è uscito dall’ambito strettamente scientifico per interessare i movimenti sociali e la società civile nel suo insieme. Da una parte, si è iniziato a mettere in discussione il modello economico dominante in occidente, energivoro e fondato sul fossile; dall’altra parte, si è richiamata la politica alle sue responsabilità, investendola del compito di mitigare il cambiamento climatico e comunità.

La risposta internazionale è iniziata negli anni ’90 con l’entrata in vigore della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (1994) adottata al Vertice di Rio del 1992. Il suo obiettivo dichiarato era quello di “raggiungere la stabilizzazione delle concentrazioni dei gas serra in atmosfera a un livello abbastanza basso per prevenire interferenze antropogeniche dannose per il sistema climatico”.

Il trattato, così come stipulato originariamente, non poneva limiti obbligatori per le emissioni di gas climalteranti alle singole nazioni, ma includeva la possibilità che le parti firmatarie adottassero, in apposite conferenze, atti ulteriori (denominati protocolli) che avrebbero posto i limiti obbligatori di emissioni. Il principale di questi, adottato nel 1997, è il Protocollo di Kyoto diventato molto più noto al grande pubblico della stessa Convenzione Quadro.

Per valutare il progresso nel trattare il cambiamento climatico, dall’entrata in vigore della Convenzione si tengono ogni anno incontri formali tra le parti firmatarie note come COP. Dal 2005 tale conferenza ospita anche gli incontri per negoziare impegni vincolanti nel quadro del Protocollo di Kyoto.

Nel 2009, con l’Accordo di Copenaghen, i paesi hanno concordato di limitare l’aumento medio della temperatura media globale a meno di 2°C rispetto ai livelli preindustriali. Ma è solo nel 2015 che questi impegni sono diventati vincolanti dal punto di vista giuridico, con l’Accordo di Parigi.

Ratificato dall’Italia con la Legge 204/2016, l’Accordo mira a mantenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2°C” e, preferibilmente, entro 1,5°C. Il nuovo trattato internazionale si concentra solo sulla riduzione delle emissioni (mitigazione), ma anche sull’adattamento agli impatti climatici e sulla riallocazione dei flussi finanziari verso progetti a basse emissioni e ad alta resilienza.

Nel quadro dell’Accordo, ogni governo deve definire i propri obiettivi di riduzione attraverso i Contributi Determinati a Livello Nazionale (NDC), aggiornati ogni cinque anni e sottoposti a un meccanismo trasparente di controllo e e revisione collettiva chiamato Global Stocktake.

L’ultimo Rapporto di Valutazione dell’IPCC, pubblicato a marzo 2023, è stato molto chiaro: per restare entro la soglia di +1,5°C è necessario procedere a una riduzione rapida, profonda e sostenuta nell’uso di combustibili fossili principali responsabili delle emissioni climalteranti. Ritardare ulteriormente l’adozione di misure stringenti in materia significa rischiare cambiamenti irreversibili potenzialmente catastrofici.

Cause climatiche contro governi e aziende inadempienti

Se gli impegni formali abbondano, e le promesse dei governi di agire si rinnovano a ogni summit internazionale, l’adozione di piani concreti per ridurre le emissioni e favorire la transizione energetica ed ecologica procede a rilento. È per questa ragione che, in varie parti del mondo, associazioni e movimenti sociali hanno avviato delle cause legali contro l’inazione climatica dei governi, ma anche contro alcune aziende energetiche ritenute particolarmente responsabili.

Secondo l’ultimo Global Climate Litigation Report realizzato dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), alla fine del 2022 erano stati registrati 2.180 casi in 65 giurisdizioni, con un forte aumento rispetto agli anni precedenti. Nel 2024, il numero è salito a 2.967 casi in quasi 60 paesi.

La prima climate litigation risale al 2015: l’organizzazione Urgenda ha citato in giudizio il governo olandese, sostenendo che le sue politiche di riduzione delle emissioni fossero insufficienti e lesive dei diritti fondamentali dei suoi cittadini connessi all’integrità climatica. La Corte d’Appello dell’Aja ha dato ragione a Urgenda, ordinando al governo di accelerare la riduzione delle emissioni di gas serra.

Nel caso Neubauer (2021) la Corte Costituzionale tedesca ha stabilito che la legge nazionale sul clima era parzialmente incostituzionale perché non fissava obiettivi sufficientemente ambiziosi, violando così i diritti fondamentali delle generazioni future.

Nel caso delle KlimaSeniorinnen contro la Svizzera (2024), un gruppo di donne over 60 ha vinto una causa contro il governo svizzero presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, costituendo un importante precedente: la Corte ha stabilito che i governi violano il diritto a un habitat integro, condizione fondamentale per una vita sana, quando non adottano misure adeguate per mitigare i cambiamenti climatici.

Le cause climatiche in Italia

A maggio 2023 Greenpeace Italia e ReCommon, con 12 cittadine e cittadini italiani, hanno avviato al Tribunale di Roma un’azione legale contro ENI, Cassa Depositi e Prestiti (CDP) e Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF).

Obiettivo della causa: obbligare la principale società energetica nazionale, compartecipata per il 30% dallo Stato italiano, a rispettare l’Accordo di Parigi riducendo le sue emissioni di almeno il 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020. I proponenti della causa hanno anche chiesto l’adozione, da parte del governo, di meccanismi pubblici per monitorare e sanzionare eventuali inadempienze di questa e di altre aziende in materia climatica.

La scelta di chiamare in causa ENI è stata strategica. Nonostante il Codice etico della società richiami gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, il suo piano di decarbonizzazione prevede per il 2030 un taglio delle emissioni del 35% rispetto al 2020, senza un impegno a eliminare del tutto i combustibili fossili: nel breve periodo, l’estrazione e la raffinazione di idrocarburi è destinata persino ad aumentare.

Si tratta di strategie aziendali incompatibili, secondo la comunità scientifica, con la traiettoria di riduzione delle emissioni indicata dalla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite. A queste criticità si aggiungono anche campagne pubblicitarie fuorvianti, finalizzate a presentarsi come un’azienda responsabile impegnata nella transizione energetica.

Contro la causa ENI, CDP e MEF avevano eccepito con successo un “difetto assoluto di giurisdizione del giudice ordinario”, ossia del Tribunale di Roma, ritenendo che nell’ordinamento italiano una simile azione legale non fosse ammissibile. Per contestare questa decisione, le associazioni si sono rivolte alla Corte di Cassazione, cui è stato chiesto se in Italia fosse possibile o meno portare le aziende inquinanti in tribunale per chiedere giustizia climatica. Lo scorso 18 febbraio, le Sezioni Unite dell’Alta Corte hanno dato ragione a Greenpeace Italia, ReCommon e ai cittadini.

Nelle motivazioni della sentenza, rese pubbliche lo scorso 21 luglio, i giudici hanno affermato che i giudici ordinari italiani si possono pronunciare sui danni derivanti dal cambiamento climatico, sia sulla scorta della normativa nazionale, quanto delle normative sovranazionali. Le cause climatiche sono dunque pienamente lecite e ammissibili nel nostro ordinamento: potranno condurre a condanne in capo alle aziende fossili inadempienti e a limitazioni vincolanti dei volumi di emissioni climalteranti rilasciate in atmosfera.

La pronuncia della Cassazione allinea l’Italia agli altri paesi più avanzati in materia, in cui il clima è incluso nel sistema dei diritti fondamentali e, come tale, suscettibile di avere una tutela giurisdizionale in caso di inadempimenti sia da parte del governo, che da parte delle aziende. La causa iniziata nel 2023 riprenderà, dunque, presso il Tribunale di Roma chiamato questa volta a pronunciarsi nel merito del ricorso di Greenpeace, ReCommons e dei cittadini promotori.

Il parere della Corte Internazionale di Giustizia

A due giorni di distanza dal deposito delle motivazioni della Cassazione italiana, anche la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ossia il supremo organo giurisdizionale delle Nazioni Unite, si è pronunciata con un parere consultivo a favore di un diritto al clima e della possibilità di difenderlo tramite azioni legali.

Il 23 luglio si è conclusa così quella che era stata chiamata la “Causa del secolo”, iniziata sei anni fa da 27 studenti di legge delle Isole Salomone, decisi a chiedere alla CIG dell’Aja di pronunciarsi sugli obblighi degli Stati in materia climatica. Il parere, formalmente richiesto dall’Assemblea delle Nazioni Unite, riconosce la responsabilità degli Stati nella protezione dei sistemi climatici nell’interesse delle generazioni future.

La Corte ha chiarito che gli Stati hanno obblighi vincolanti, derivanti non solo dai trattati ma anche dal diritto internazionale consuetudinario, per proteggere il sistema climatico. Tali obblighi corrispondono al fatto che ogni persona ha diritto a un ambiente sano, diritto strettamente connesso al godimento di altri diritti fondamentali. La violazione di tali obblighi può comportare responsabilità legali e obblighi di riparazione.

Nel parere la CIG ha anche affermato che l’obiettivo di contenere l’aumento delle temperature medie mondiali a +1,5°C è giuridicamente rilevante e limita la discrezionalità degli Stati nella definizione dei propri obiettivi in materia di emissioni. Per questo motivo, gli Stati possono essere ritenuti responsabili per non aver regolamentato adeguatamente le emissioni delle imprese private.

Pur non essendo vincolante al modo di una sentenza, il parere ha un forte peso politico, per due motivi: da una parte, stabilisce una base autorevole per successive cause giudiziarie relative al clima; dall’altra parte, rafforza la posizione della società civile che da anni sostiene le posizioni ora espresse dalla Corte.

Dai negoziati internazionali alle aule di giustizia, la lotta alla crisi climatica sta assumendo una dimensione sempre più giuridica: non è solo questione di politiche pubbliche o di codici etici non vincolanti, ma di diritti fondamentali e responsabilità precise, di cui i cittadini e le cittadine del mondo possono chiedere conto nelle aule di tribunale.

Mobilitato dalla società civile, il diritto può dimostrarsi uno strumento decisivo per salvare il pianeta dalla catastrofe climatica: non abbiamo più molto tempo prima che la finestra di opportunità per contenere il riscaldamento globale entro limiti vivibili si chiuda definitivamente. E il tempo, come ricordano scienziati, attivisti e ora anche giudici, non è una variabile negoziabile quando ne va del futuro della vita umana sulla Terra.