lunedì, Aprile 28, 2025
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Rileggere Leo Valiani nell’Ottantesimo della Liberazione

 

di Andrea Panzavolta

In tempi calamitosi come quelli in cui viviamo, da più parti del mondo giungono immagini di guerre e ingiustizie e chi si sforza di investigare le zone grigie, in cui spesso agiscono gli esseri umani, viene giudicato o irriso. Come antidoto, nell’ottantesimo anniversario della Liberazione, sarebbe bene riprendere tra le mani un libro come Tutte le strade conducono a Roma di Leo Valiani. Scritto tra il gennaio e il luglio del 1946, quando si era appena spento il fuoco della guerra partigiana, questo volume di memorie viene pubblicato quando ardeva più che mai la lotta politica in vista del nuovo assetto istituzionale da dare all’Italia.

Da un libro come questo si può apprendere, innanzitutto, l’essenziale virtù della medietà: tanto più encomiabile se professata da chi si trova nel pieno di una controversia e, quindi, è più esposto alle passioni. Chi pratica la virtù dell’equilibrio riflessivo non è equidistante tra le parti in conflitto: è colui che, dopo aver compiuto una risoluta scelta di parte, considera quest’ultima soltanto una parte, appunto, di un quadro più complesso che richiede di essere conosciuto e investigato in modo critico.

Leo Valiani è un partigiano: non nutre alcun dubbio che la parte da lui scelta sia la migliore, la sola in grado di preservare l’Europa da un ulteriore suicidio. E tuttavia rende il proprio orecchio attento anche alle ragioni degli avversari, premessa irrinunciabile per chi, come lo stesso Valiani, voleva impegnarsi nella ricostruzione morale e civile del paese.

La virtù della medietà consiste esattamente in questo: avere, sì, dei principi, ma senza dimenticare che questi, come dice la parola stessa, sono solamente dei punti di partenza e non di arrivo e che la stessa pace è un sentiero, un orizzonte, rispetto al quale non si può che essere sempre in cammino.

Chi pratica la medietà è realista nel senso migliore del termine: si guarda bene dal chiedere l’impossibile a quel legno storto che è l’umanità ma, non per questo, rinuncia a perseguire i propri ideali. Questo spirito rifulge già nella splendida dedica che apre il libro: «A Duccio Galimberti; per tutti i Caduti; della nostra parte e dell’altra».

Valiani fu un antifascista della prima ora, scontando per questo anni di carcere e di esilio. Un antifascista militante che alla Resistenza, come si legge nella Prefazione, «ha partecipato, ha combattuto, ha odiato, ha ordinato di sparare sui nemici e ha mandato alla morte degli amici, che il caso o la selezione della lotta avevano posto alle sue dipendenze», senza però mai smettere «di amare e di ridere».

Amare e ridere. Sono bellissimi, questi due verbi. Essi parlano di un’altra resistenza senza la quale ogni lotta nel mondo risulterebbe vana: quella che ciascun essere umano, quotidianamente, deve combattere contro la propria attrazione per l’abisso. «Ho sparato e ho odiato» scrive Valiani senza sfumature lessicali o reticenze, ma non è questo il punto: ciò che importa è che, accanto all’odio, sopravviva anche l’amore, che è sorridente adesione alla vita nonostante tutto.

Soltanto chi ha consapevolezza dei paradossi dell’esistenza può avere il coraggio – ché altrimenti sarebbe temerarietà – di dedicare il proprio lavoro «ai caduti della nostra parte e dell’altra» e, così facendo, di affrancarsi tanto dagli uni quanto dagli altri. Perché è bene che «i morti seppelliscano i morti» e che il circolo tragico che lega conoscenza profonda e sofferenza si chiuda con l’affermazione dell’amore quale autentico sapere, in cui acquistano senso i travagli del secolo.

Sono le minuscole e anonime resistenze quotidiane che mantengono verde la pianta della Resistenza, intesa come meta mai raggiunta, come cammino ancora da compiersi, come esodo da intraprendere sempre di nuovo.

Già nel 1946 gli ideali della Resistenza storica apparivano sbiaditi a Valiani. La caduta del governo guidato da Ferruccio Parri, il 24 novembre 1945, aveva mostrato chiaramente come molte delle forze politiche che si definivano eredi della guerra di liberazione mirassero alla riconciliazione con il vecchio Stato, più che a un autentico rinnovamento del paese.

“Riconciliazione” è una grande e bella parola, purché ciò a cui essa allude avvenga secondo verità. Senza lo sforzo di una minuziosa ricostruzione storica degli eventi e senza una faticosa comprensione delle cause dei conflitti, la riconciliazione coincide con la normalizzazione, la cui ragion d’essere è «negli applausi delle folle e nei molti voti che raccoglie nelle elezioni», nelle lusinghe «della demagogia» e negli «interessi corporativi» irriducibili a quelli «generali dello Stato».

Di Ferrucci Parri l’autore offre un indimenticabile e commosso ritratto, che fa il paio con quello di Carlo Levi ne L’orologio. Ma le memorie di Valiani contengono molti altri personaggi, oggi in gran parte dimenticati, tratteggiati con scabra forza stilistica: sono coloro che, se non fossero stati uccisi, avrebbero reso l’Italia un paese migliore.

Ermanno Bartellini, morto nel campo di Dachau, «era la cultura, la profondità di pensiero, l’audacia ideale fattasi amicizia, semplicità, comunione. Col metodo socratico […] portava i giovani a dubitare delle verità belle e fatte, a tormentarsi, a pensare».

Negli «occhi di fuoco» di Leone Ginzburg «ardeva il medesimo travaglio di Rosselli, la stessa passione per il rinnovamento democratico sociale italiano […]. Nessuno avrebbe potuto colmare il vuoto da lui lasciato. Con lui scompariva l’unico di noi che fosse capace di creatività spirituale, di mettersi al di sopra della politica in atto».

Tancredi Galimberti detto Duccio, antifascista da sempre, «da severo studioso del diritto penale si era trasformato in cavaliere armato del diritto delle genti»: con lui abbiamo perso «il nostro più ferreo combattente e organizzatore, e un uomo politico di primo piano, uno dei pochi che abbiano saputo adeguare la tradizione mazziniana alla realtà odierna».

E ancora Willy Jervis, Emanuele Artom, Eugenio Curiel: uomini che avremmo voluto quali colleghi di lavoro e compagni di lotta. «Grandi amici», come li avrebbe chiamati Vittorio Sereni, capaci di «portare noi nella loro luce».

Dinanzi a queste e a tante altre perdite irreparabili si prova un senso di sgomento, che si unisce al disincanto per la facilità con cui ci si è da subito adoperati per rimuovere i più autentici valori resistenziali, presentandoli sempre di più in una dimensione astratta e rituale, quando non contestandoli attivamente.

Anche l’Europa, agli occhi di Valiani, mostra nel dopoguerra un volto irriconoscibile. Non tanto per i disastri provocati dalla guerra, quanto piuttosto per la perdita del proprio principio guida: essere una patria inesistente o, se si preferisce, una patria che è tale in quanto è molteplice e che, proprio per questo, può accogliere in sé ogni possibile altra patria.

Valiani ha scorto da subito l’emergere di un’Europa non veramente libera, ma ostaggio degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, le due sole potenze uscite vincitrici dal conflitto. Nelle parole conclusive delle sue memorie torna a brillare il più genuino spirito europeo, inteso come una lingua universale che non annulla le lingue particolari e che, proprio per questo, è capace di superare non solo la crisi postbellica, ma anche qualsiasi crisi futura a livello mondiale.

«Combattendo contro l’ingiustizia, noi combattiamo in realtà per una pace mondiale, che non sia un armistizio. Combattendo per l’unità dei popoli europei martoriati, noi combattiamo in realtà per un governo unitario del mondo, degno del nome […]. Per questo non ci pentiamo di aver preso le armi al fianco delle democrazie e dell’Unione Sovietica, che oggi ci deludono. Siamo anzi fieri di averlo fatto con assoluto disinteresse. Così abbiamo il diritto di resistere al presente di quelle potenze, in nome di un futuro più profondamente democratico, che non apparterrà più ai vincitori soltanto ma ai vincitori e ai vinti e, insomma, ai popoli».

 

Andrea Panzavolta è giornalista pubblicista. Collabora alla rubrica “Film in discussione” di Iride. Filosofia e discussione pubblica, e ad alcune riviste di critica cinematografica. Dal 2014 è il direttore artistico della rassegna concertistica forlivese “Passioni in musica”.