Amnesty International: la violenza sessuale come arma di guerra in Sudan
di Elisa Bontempo
Amnesty International ha pubblicato alcune settimane fa un nuovo rapporto intitolato They Raped All of Us. Si tratta di un lavoro di estrema rilevanza, che offre una documentazione approfondita e rispettosa dell’uso sistematico e su larga scala della violenza sessuale perpetrata contro donne e ragazze in Sudan nel contesto del conflitto armato interno, iniziato ad 2023, tra le Forze Armate Sudanesi e le Forze di Supporto Rapido (RSF).
Nel corso di due anni di guerra civile, le RSF si sono rese responsabili di gravi violazioni dei diritti umani, utilizzando la violenza sessuale come strumento di umiliazione, controllo sociale e sfollamento forzato delle comunità. Tali condotte, tra cui forme estreme di abuso sessuale come la schiavitù sessuale e le aggressioni collettive, sono qualificabili come crimini di guerra e, sulla base delle evidenze raccolte, plausibilmente anche come crimini contro l’umanità.
A ciò si aggiungono episodi di violenza indiscriminata ai danni dei civili, come il bombardamento di un ospedale gestito da Medici Senza Frontiere a Old Fangak, che ha causato numerose vittime tra pazienti e personale sanitario. Sebbene la responsabilità dell’attacco non sia stata ufficialmente accertata, questa azione si inserisce in un più ampio clima di brutalità che colpisce sistematicamente strutture civili, aggravando ulteriormente la già drammatica crisi umanitaria in corso.
Il rapporto si fonda su un’indagine condotta attraverso 30 interviste effettuate tra novembre 2024 e febbraio 2025, prevalentemente in Uganda (dove hanno trovato rifugio) e, in alcuni casi, da remoto. Le persone intervistate includono 16 sopravvissute, loro familiari, testimoni oculari, difensori dei diritti umani e operatori sanitari.
Tutti gli interlocutori hanno indicato le RSF quali responsabili dirette delle violenze. Amnesty International ha registrato 36 casi verificabili di stupro, anche su minori di 15 anni, e altre forme di violenza sessuale in quattro Stati sudanesi. In numerosi episodi, gli abusi sono stati commessi pubblicamente, alla presenza di civili o altri membri delle forze armate, a testimonianza dell’assenza di timore di sanzioni o responsabilità.
Tra le testimonianze più significative, si evidenzia quella di Hamida, una donna di trent’anni residente a Wad Madani, che ha riferito di essere stata sottoposta a gravi atti di violenza fisica e sessuale in presenza della propria figlia. A Khartoum, un’altra donna è stata trattenuta per un mese in condizioni assimilabili alla schiavitù sessuale.
Nel Darfur meridionale, a Nyala, una sopravvissuta ha denunciato di essere stata immobilizzata e sottoposta ad abusi mentre altri militari erano presenti. Un episodio verificatosi a Madani ha visto una donna vittima di stupro di gruppo alla presenza di familiari. In un ulteriore caso, una madre ha subito violenza sessuale immediatamente dopo esserle stato sottratto il figlio neonato che stava allattando.
Diverse testimonianze indicano che le vittime venivano selezionate anche in base a presunti legami con le Forze Armate Sudanesi. Operatrici sanitarie sono state aggredite sessualmente per non essere riuscite a salvare miliziani feriti. Particolarmente drammatica è la vicenda di un’infermiera rapita da 13 soldati: costretta a prestare cure mediche a combattenti feriti, è stata successivamente vittima di un’aggressione sessuale collettiva di estrema gravità, che ha comportato una temporanea perdita di coscienza.
Amnesty ha inoltre documentato due casi di schiavitù sessuale a Khartoum, incluso quello di una donna trattenuta con la forza per un mese e vittima di abusi sessuali ripetuti.
Le ripercussioni fisiche e psicologiche subite dalle sopravvissute sono estremamente gravi e diffuse. Tra le principali conseguenze cliniche si annoverano traumi cranici, ustioni, lacerazioni e ferite da taglio, insufficienze renali, disfunzioni ginecologiche, difficoltà motorie e severe patologie psichiatriche. I minori che hanno assistito agli abusi presentano, a loro volta, manifestazioni riconducibili a disturbi da stress post-traumatico, tra cui incubi notturni ricorrenti.
L’impossibilità di accedere tempestivamente a trattamenti medici adeguati e di denunciare formalmente le violenze è stata determinata da una combinazione di fattori: l’insicurezza diffusa, lo stigma sociale associato alla violenza sessuale e, soprattutto, la drammatica compromissione del sistema sanitario nazionale. Oltre l’80% delle strutture sanitarie risulta inoperante, a causa della distruzione di numerosi impianti ospedalieri, della grave carenza di personale sanitario e della cronica insufficienza di forniture mediche essenziali.
A tale contesto si è aggiunta la contrazione dei finanziamenti umanitari internazionali, in particolare quelli erogati dall’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID), che ha ulteriormente aggravato le difficoltà nell’accesso ai servizi di salute sessuale e riproduttiva. Questa riduzione ha inciso negativamente sulla disponibilità di interventi fondamentali, quali le cure post-stupro, la profilassi per la prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili, il sostegno psicologico specializzato e i programmi di assistenza ostetrico-ginecologica, peggiorando in modo significativo la già critica condizione fisica e mentale delle sopravvissute.
“Gli attacchi delle RSF contro le donne e le ragazze sudanesi sono atti deliberatamente disumanizzanti, perpetrati al fine di infliggere la massima umiliazione”, ha dichiarato Deprose Muchena, direttore regionale di Amnesty International. “Nel corso del conflitto, le RSF hanno preso di mira la popolazione civile con modalità caratterizzate da una crudeltà inaccettabile. La comunità internazionale ha l’obbligo morale e giuridico di intervenire, bloccando il flusso di armamenti verso il Sudan e attivando meccanismi di giustizia penale internazionale per assicurare alla giustizia i responsabili, inclusi gli alti comandi militari”.
Dal 2023, il conflitto in Sudan ha causato la morte di decine di migliaia di civili e lo sfollamento forzato di oltre 11 milioni di persone, configurandosi come la più grave crisi di migrazione interna a livello globale. Sebbene entrambe le parti coinvolte abbiano commesso violazioni del diritto internazionale umanitario, le RSF sono state indicate come principali autrici della violenza sessuale sistematica. L’esecuzione pubblica di numerosi atti di stupro sottolinea l’assenza di deterrenza e la radicata cultura dell’impunità. “Ogni Stato che sostiene le RSF, direttamente o indirettamente, mediante la fornitura di armi, deve condividere la responsabilità morale di tali atrocità”, ha aggiunto Muchena.
Una delle donne intervistate ha dichiarato con dignità e fermezza: “Le donne non partecipano attivamente al conflitto, eppure sono coloro che ne subiscono le conseguenze più devastanti. Desidero che il mondo conosca la nostra sofferenza e si adoperi affinché gli autori delle violenze siano puniti”.
Il rapporto si conclude con una serie di raccomandazioni rivolte agli attori nazionali e internazionali: l’interruzione immediata di tutte le forme di violenza sessuale; la creazione di corridoi umanitari; il rafforzamento dell’embargo sulle armi esteso all’intero territorio sudanese; la promozione di meccanismi di giustizia transizionale; e l’implementazione di servizi integrati di assistenza medica, psicologica e sociale a beneficio delle sopravvissute.
Lo scorso 14 aprile si è tenuto a Roma, dinanzi alla sede del Ministero degli Affari Esteri, un presidio organizzato da Amnesty International Italia con l’obiettivo di sollecitare un intervento deciso da parte del governo italiano a favore della cessazione delle ostilità in Sudan, del rafforzamento dell’embargo sulle armi e dell’assicurazione di un accesso pieno e senza ostacoli agli aiuti umanitari.
Amnesty ha ribadito, in tale occasione, l’impellente necessità di un impegno coordinato da parte della comunità internazionale, volto a ristabilire la verità, garantire giustizia alle vittime e costruire percorsi di riparazione fondati sul rispetto della dignità umana e sulla tutela dei diritti fondamentali delle sopravvissute.
Elisa Bontempo è laureata in Scienze per la Pace all’Università di Pisa. Attualmente collabora col Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace”, in particolare, con “Scienza&Pace Magazine”.