venerdì, Marzo 14, 2025
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L’arte a Gaza come resistenza alla guerra di sterminio

L’arte è diventata un potente strumento di resistenza per gli artisti della Striscia di Gaza, che trasformano in espressione creativa la distruzione e la sofferenza della guerra di sterminio portata avanti da Israele in risposta agli attacchi del 7 ottobre: ne dà conto un articolo pubblicato da Al Jazeera. Privati dei loro materiali tradizionali, molti dipingono su sacchi di farina e scatole provenienti dagli aiuti umanitari e raccontano storie di sfollamento e di lotta per la sopravvivenza. Nonostante la distruzione degli spazi culturali, dei musei e delle università, la comunità artistica di Gaza continua a esistere e a produrre opere che riaffermano l’identità palestinese. Le testimonianze di Hussein al-Jerjawi e Ibrahim Mahna evidenziano come l’arte non sia solo una forma di espressione, ma un mezzo per documentare criticamente la realtà, resistere alla cancellazione e al silenziamento, mantenere viva la memoria collettiva per la liberazione che verrà. 

 

di Asem Al Jerjawi

Tra le macerie delle case distrutte e il fragore assordante dei bombardamenti, gli artisti di Gaza continuano a dipingere, trasformando la disperazione in resistenza, e ogni pennellata diventa una testimonianza della loro realtà quotidiana. I sacchi di farina si trasformano in tele e le scatole di aiuti umanitari diventano ritratti: l’arte diventa il mezzo attraverso cui raccontano la distruzione della guerra di sterminio.

Da oltre 76 anni, l’occupazione israeliana minaccia la cultura palestinese attraverso sfollamenti forzati e distruzione. Tuttavia, neppure l’attuale guerra, che ha già causato più di 61.700 vittime palestinesi, è riuscita a spegnere l’identità artistica di Gaza. Con risorse sempre più limitate e in condizioni di estrema precarietà, gli artisti continuano a creare, convinti che la loro arte sia un atto di sopravvivenza e di resistenza. Alcuni riescono persino a trasformare il dolore in speranza: dipingendo le dure realtà della guerra e dello sfollamento, riaffermano la loro volontà di esistere.

La distruzione non ha risparmiato nemmeno il patrimonio culturale della Striscia di Gaza. Decine di centri culturali, musei, siti e manufatti storici – tra cui antiche ceramiche e manoscritti – sono stati colpiti. Il cessate il fuoco, iniziato il 19 gennaio, ha concesso una breve tregua, ma l’entità reale dei danni rimane incerta. Secondo un rapporto dell’Ufficio Centrale di Statistica Palestinese e del Ministero della Cultura, pubblicato a marzo, almeno 45 scrittori e artisti sono stati uccisi dall’inizio del conflitto il 7 ottobre 2023, mentre 32 centri culturali e 12 musei sono stati distrutti. Ad oggi, è probabile che il bilancio sia ancora più grave.

Tra le vittime c’è anche l’artista Mahasen al-Khateeb, uccisa a ottobre in un attacco aereo israeliano che ha colpito il campo profughi di Jabalia, nel nord di Gaza. È morta insieme alla sua intera famiglia.

 

Un tentativo di cancellare la cultura palestinese
Nonostante Israele continui a sostenere di colpire obiettivi militari, gli artisti e esperti d’arte denunciano un chiaro tentativo di cancellare la cultura palestinese.

“Israele ha distrutto siti storici e monumenti antichi, cancellando migliaia di anni di patrimonio culturale a Gaza”, afferma Sobhi Qouta, artista visivo e docente all’Università di Al-Aqsa, nonché coordinatore del Visual Arts Club presso la Fondazione Abdel Mohsin Al-Qattan. “Molti artisti palestinesi hanno perso le loro opere, distrutte dai bombardamenti sulle loro case o annientate insieme ai centri culturali che le custodivano”.

L’arte palestinese affonda le sue radici nelle influenze bizantine e islamiche, evolvendosi nei secoli fino a diventare, dopo il 1967, un potente strumento di resistenza. Artisti come Kamal Boullata e Suleiman Mansour hanno utilizzato il loro lavoro per riaffermare l’identità palestinese in un contesto di occupazione militare.

Negli anni ’90, l’insegnamento delle belle arti è stato integrato nell’Università di Al-Aqsa, contribuendo alla crescita della scena artistica locale. La nascita del collettivo Eltiqa Group for Contemporary Art nel 2002 e di Shababeek for Contemporary Art nel 2009 ha dato ulteriore slancio alla produzione artistica a Gaza. Nonostante il blocco imposto da Israele e i conflitti ricorrenti, la comunità artistica è rimasta viva e vibrante. Oggi, però, tutti i principali spazi d’arte – Eltiqa, Shababeek e il Dipartimento di belle arti dell’Università di Al-Aqsa – sono stati distrutti dalla guerra, causando una perdita incalcolabile per la cultura palestinese.

 

Testimonianze silenziose di lotta
Hussein al-Jerjawi, 18 anni, ha vissuto cinque sfollamenti forzati a causa dell’operazione militare israeliana, perdendo un intero anno di studi. Il conflitto ha segnato profondamente il suo percorso artistico, spingendolo a sperimentare un mezzo espressivo inusuale: i sacchi di farina degli aiuti umanitari sono diventati le sue tele. Le sue opere raccontano la fragilità della sopravvivenza in una terra sotto assedio, attraverso immagini di crepe, fratture e simboli che evocano l’esistenza spezzata di chi vive a Gaza.

“Quando dipingo su un sacco di farina, è come se stessi scrivendo la nostra storia con un pennello intinto nel dolore e nella resistenza”, racconta al-Jerjawi. La scelta di questi materiali è nata dalla necessità: con la mancanza di strumenti artistici tradizionali, ha trasformato ciò che aveva a disposizione in un mezzo per raccontare la sua esperienza. “In una tenda per rifugiati, circondato da sacchi vuoti dell’UNRWA, ho deciso di dipingerci sopra per catturare il dolore della guerra e la mia storia di sfollamento”, spiega, riferendosi all’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati Palestinesi.

Nonostante la violenza quotidiana, Hussein ha continuato a partecipare a mostre e workshop, collaborando con la Fondazione Qattan e con Shababeek. Una delle sue opere è stata esposta nella Cisgiordania occupata presso la Qattan Gallery, spazio culturale che da anni sostiene la comunità artistica di Gaza.

“La mia arte rimane il mio atto di resistenza”, afferma. In una delle sue opere descrive come i sacchi di farina diventino testimoni silenziosi della sofferenza degli sfollati, con mani alzate e serrate – alcune stringendo la farina, altre vuote – in un disperato tentativo di trovare speranza. “I volti raccontano storie di stanchezza e di fame. Gli occhi non chiedono solo pane, ma dignità. La folla sbiadita sullo sfondo, come ombre, attende in una fila infinita”, aggiunge.

 

Trasformare il dolore in arte
Anche Ibrahim Mahna, 19 anni, ha trovato nella pittura un mezzo per raccontare la tragedia della guerra. Ha trasformato le scatole degli aiuti umanitari, usate per contenere cibo e beni essenziali, in opere d’arte che esprimono il dolore e la resilienza delle famiglie sfollate.

“Queste scatole non sono solo contenitori di cibo. Sono diventate simboli delle difficili condizioni in cui viviamo oggi, ma anche della nostra capacità di resistere e sopravvivere”, spiega Mahna. A causa della mancanza di materiali artistici, ha iniziato a dipingere su queste superfici di fortuna. Nei suoi lavori emergono volti scavati dalla sofferenza, occhi vuoti che sembrano gridare in silenzio. Sullo sfondo, tende si stagliano in un paesaggio arido. “Questi volti sono il mio popolo”, dice Mahna.

Per lui, l’arte è una forma di resistenza e di affermazione dell’identità palestinese: “L’occupazione non ci toglie solo la terra. Cerca di cancellare la nostra esistenza. Dipingere su queste scatole è il mio modo di reclamare la nostra storia”.

 

[traduzione di Elisa Bontempo].

Fonte: Al Jazeera, 12 febbraio 2025.