“Ti senti come se fossi un subumano”: il rapporto di Amnesty International sul genocidio a Gaza
a cura di Elisa Bontempo
Il rapporto di Amnesty International, intitolato “Ti senti come se fossi un subumano: il genocidio di Israele contro la popolazione palestinese a Gaza”, offre un’analisi estremamente dettagliata dell’offensiva militare israeliana su Gaza in seguito agli attacchi guidati da Hamas il 7 ottobre 2023 nel Sud di Israele. Il documento denuncia non solo le gravi violazioni dei diritti umani, ma accusa Israele di aver commesso crimini di genocidio all’interno di un quadro di occupazione illegale e di apartheid imposto da decenni alla popolazione palestinese. La ricerca, basata su 212 interviste a vittime, sopravvissuti e testimoni, è stata integrata con immagini satellitari, filmati autenticati, resoconti di stampa e analisi di esperti. Amnesty ha raccolto prove che documentano non solo uccisioni intenzionali, ma anche traumi fisici e psicologici sistematici, insieme a condizioni di vita insostenibili che hanno trasformato Gaza in un luogo invivibile.
L’annuncio del cessate il fuoco, a lungo atteso e sollecitato invano, non deve far dimenticare quello che è accaduto in questi mesi, né cancella le responsabilità legali, politiche e morali, di chi ha condotto la guerra genocidaria su Gaza e chi l’ha sostenuta direttamente o indirettamente, attraverso l’invio di armi e l’offerta di supporto logistico all’esercito israeliano. Occorrerà, inoltre, monitorare strettamente l’implementazione del cessate il fuoco e premere affinché venga tolto ogni ostacolo all’ingresso di cibo, acqua, medicine e combustibile nella Striscia.
Secondo il diritto internazionale, come stabilito nell’articolo II della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1948, il genocidio è definito come l’insieme di cinque atti specifici commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso.
Per configurare il genocidio, è cruciale dimostrare che tali atti siano stati perpetrati con l’intento specifico di distruggere il gruppo in quanto tale. Questo elemento soggettivo – l’intenzione – distingue il genocidio da altri crimini contro l’umanità. Nel caso di Israele, Amnesty ha raccolto e verificato prove che collegano le azioni militari e le dichiarazioni ufficiali a questa intenzione distruttiva.
Uccisioni di membri del gruppo. Amnesty documenta attacchi militari indiscriminati che hanno causato migliaia di morti tra i civili, inclusi centinaia di bambini. Nei due mesi successivi agli attacchi di Hamas, l’aviazione israeliana ha effettuato circa 10.000 attacchi, molti dei quali con armi esplosive di vasta portata su aree densamente popolate. Questi attacchi hanno devastato case, ospedali, mercati e infrastrutture vitali, causando un elevato numero di vittime civili. Tali attacchi sono stati sistematici e non mirati a obiettivi militari, come dimostrato dall’assenza di infrastrutture di Hamas nelle vicinanze. La sistematicità delle uccisioni dimostra un piano volto a eliminare una parte significativa della popolazione civile palestinese.
Gravi lesioni fisiche o mentali ai membri del gruppo. Le testimonianze raccolte evidenziano un aumento esponenziale dei disturbi da stress post-traumatico, in particolare tra bambini e adolescenti. Ahmad Nasman, che ha perso la moglie e i figli in un attacco aereo israeliano il 14 dicembre 2023, ha dichiarato: “Il mio corpo è sopravvissuto, ma il mio spirito è morto con i miei figli, è stato schiacciato sotto le macerie con loro.” Questa testimonianza, rappresentativa di molte altre, evidenzia la devastazione personale inflitta dai bombardamenti indiscriminati e collega direttamente l’impatto emotivo di tali tragedie all’ampia scala di sofferenze inflitte alla popolazione civile.
Deliberata esposizione a condizioni di vita calcolate per portare alla distruzione fisica, totale o parziale, del gruppo. Israele ha imposto un blocco totale a Gaza, impedendo l’accesso a cibo, acqua, carburante e medicine, portando la popolazione sull’orlo della carestia. Entro gennaio 2024, il 62% delle abitazioni era distrutto o gravemente danneggiato, mentre malnutrizione, malattie e mancanza di servizi igienici adeguati hanno colpito in modo particolarmente grave bambini, donne incinte e anziani. Inoltre, il 97% dell’acqua disponibile non è potabile, mentre ospedali e cliniche hanno chiuso a causa della mancanza di elettricità e rifornimenti medici. Amnesty sottolinea che queste misure non sono incidentali, ma progettate per rendere impossibile la sopravvivenza della popolazione, configurando un atto di genocidio.
Misure volte a prevenire nascite all’interno del gruppo. La distruzione delle infrastrutture sanitarie ha compromesso l’accesso ai servizi di salute riproduttiva, aggravando le condizioni per donne incinte e neonati. Il tasso di mortalità neonatale è cresciuto drasticamente, mentre molte donne non riescono a portare a termine gravidanze a causa della mancanza di cure adeguate. Anche queste conseguenze sono il risultato di politiche sistematiche volte a ridurre la capacità di riproduzione della popolazione palestinese.
Trasferimento forzato di bambini ad un altro gruppo. Amnesty ha documentato casi di bambini separati dai genitori durante gli sfollamenti forzati. Molti di questi bambini sono rimasti senza supporto, vivendo in condizioni di estrema vulnerabilità. La separazione sistematica delle famiglie e la mancanza di strutture di supporto adeguate contribuiscono alla disgregazione del tessuto sociale palestinese.
Israele ha dimostrato un intento deliberato di distruggere la popolazione palestinese, come evidenziato anche da dichiarazioni ufficiali e da una retorica disumanizzante che ha accompagnato le azioni militari. Il ministro dell’Energia israeliano ha affermato: “È finita. Senza carburante, anche l’elettricità locale si spegnerà entro pochi giorni e i pozzi di pompaggio si fermeranno entro una settimana.” Dichiarazioni di questo tipo non solo confermano l’intenzionalità, ma riflettono una strategia calcolata per infliggere sofferenze insostenibili alla popolazione civile, rafforzando un clima di totale deumanizzazione. Inoltre, numerosi funzionari israeliani hanno equiparato pubblicamente i palestinesi a “animali” o “terroristi” collettivi, cancellando ogni distinzione tra civili e combattenti. Ad esempio, il presidente israeliano ha affermato che “non ci sono innocenti a Gaza”, insinuando che l’intera popolazione possa essere considerata un bersaglio legittimo. Questo linguaggio è stato accompagnato da minacce dirette di distruzione, come quelle che invitavano a “spazzare via” Gaza. In aggiunta, il “blocco totale” imposto su Gaza è stato giustificato attraverso dichiarazioni che disumanizzano la popolazione palestinese, presentandola nel suo complesso come una minaccia per Israele. Tali giustificazioni sono parte di una narrativa che mira a cancellare l’identità e i diritti dei palestinesi, tentando di rendere legittima l’inflizione di sofferenze collettive.
Nonostante la gravità delle evidenze, la comunità internazionale ha dimostrato una risposta frammentata e spesso inefficace. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nonostante numerose discussioni, è stato ripetutamente paralizzato dal veto esercitato dagli Stati Uniti, lasciando irrisolte le richieste di intervento immediato. Molti governi hanno espresso condanne ufficiali per le violazioni, ma queste dichiarazioni non si sono tradotte in azioni concrete per fermare le atrocità o garantire che Israele rispondesse delle sue azioni. L’Unione Europea, sebbene abbia espresso preoccupazione in più occasioni, non si è impegnata a imporre sanzioni né a formulare una posizione unitaria e decisa. Parallelamente, numerose organizzazioni della società civile e movimenti globali per la Palestina hanno cercato di colmare il vuoto lasciato dagli stati, facendo pressione attraverso campagne di sensibilizzazione e manifestazioni: tra questi, un significativo gruppo di ebrei della diaspora, indignato dall’utilizzo strumentale della memoria della Shoah per perpetrare uno sterminio ai danni della popolazione palestinese.
Infine, Amnesty International sottolinea che la Convenzione del 1948 sul genocidio non si limita a obbligare gli Stati firmatari a punire il genocidio, ma impone il dovere inderogabile di prevenirlo e sanziona anche l’incitamento e la complicità. L’inerzia della comunità internazionale costituisce quindi non solo un fallimento morale, ma anche una violazione degli obblighi legali sanciti dal diritto internazionale. Ogni giorno di ritardo nel far rispettare il diritto e revocare ogni impunità si traduce in sofferenze prolungate per il popolo palestinese e rappresenta una minaccia per la pace e la sicurezza del mondo, oltre a costituite una macchia indelebile sulla coscienza dei governi occidentali che, più di tutti, hanno consapevolmente ignorato la gravità di quanto accaduto limitandosi a un rammarico di circostanza.
In conclusione, il rapporto di Amnesty evidenzia che proteggere i palestinesi non è solo un imperativo morale che incombe su tutte e tutti noi, in quanto abitanti del pianeta Terra, ma che rappresenta uno spartiacque storico: una prova decisiva per riaffermare i principi fondamentali di giustizia, dignità e diritti umani su cui si fonda il diritto internazionale.
Elisa Bontempo è laureata in Scienze per la Pace all’Università di Pisa. Attualmente collabora col Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace”, in particolare, con “Scienza&Pace Magazine”.