Perché (ri)leggere I cani del Sinai di Franco Fortini
di Andrea Panzavolta
Chiunque nasca in Europa riceve in eredità una tradizione (tráditum) poderosa di cui, sempre che non preferisca pattinare sopra la superficie degli eventi senza curarsi di ragionare sulle cause che li hanno prodotti, dovrà farsi carico per comprendere anche il novum: questo è l’imperativo che si cela in ogni trasmissione (traditio) di saperi, esperienze, disincanti, tragedie.
Una parte di questo tráditum è l’ebraismo, nelle specifiche forme che ha assunto nella diaspora: non si è pienamente europei se non lo si riconosce. E quali sono le cifre emblematiche di questo ebraismo? Una religiosità critica, che non esita a scendere in contesa con Dio. Una visione integra e piena dell’esistenza, pur nella lacerazione subita dalle tante diaspore e persecuzioni. E, soprattutto, un certo tipo di universalismo come capacità di pensare e pensarsi in una pluralità di popoli, di considerare l’esperienza culturale e religiosa degli altri parte integrante dell’identità ebraica, e viceversa.
A partire dal 1967, quando è esplosa la cosiddetta “Guerra dei sei giorni”, fino a oggi è proprio questo universalismo a essere stato progressivamente ripudiato dallo Stato di Israele in nome di un nefasto nazionalismo, lo stesso che ha bruciato e devastato per ben due volte l’Europa, nel corso del Novecento. Anche se scritto “a muscoli tesi, con rabbia estrema” in quel fatidico 1967, anno di guerra e inizio dell’occupazione militare della Cisgiordania, di Gaza e del Sinai da parte di Israele, il libro I cani del Sinai di Franco Lattes Fortini mantiene intatta la sua implacabile lucidità, la sua serrata forza argomentativa, la sua inesausta pietas dinanzi alla sofferenza umana.
Sollecitato, in quanto ebreo, da amici ebrei a rompere il silenzio e a far udire la propria voce sul conflitto che si stava consumando in Medio Oriente, il grande intellettuale ha risposto con uno scritto che sfugge a qualsiasi definizione. È prima di tutto un corrosivo pamphlet contro, appunto, i “cani del Sinai”: una locuzione che, nel dialetto dei nomadi che percorrevano il deserto sinaitico, stava a significare coloro che corrono in aiuto del vincitore, o che stanno dalla parte del padrone o, ancora, che esibiscono nobili sentimenti dietro cui celano ben più basse intenzioni.
In quel 1967, erano tali le cancellerie degli Stati Uniti e del Regno Unito, con il loro sostegno incondizionato a Israele frutto di puro calcolo strategico. Erano tali i giornalisti che, dalle prime pagine dei grandi quotidiani, ogni giorno abbaiavano a difesa dello Stato ebraico contro i “barbari” arabi. Erano tali, infine, i tanti sopravvissuti della Shoah, il cui unico argomento a favore dell’irresistibile avanzata dei carri armati israeliani guidati da Moshe Dayan era: “Sì, capisco, hai ragione. Ma è più forte di me. Quando gli ebrei sono minacciati…”.
Ma I cani del Sinai è anche un assorto e dolente memoir, con il quale l’autore fa i conti con le proprie origini e con il proprio padre, e, infine, una appassionata esortazione all’uso corretto dell’intelligenza, quale capacità di cogliere ciò che sta “dentro” (intus) le cose, per poi metterle in relazione tra loro (inter) e alimentare una memoria attiva, impedendo che questa si calcifichi fino a isterilirsi.
La memoria si presenta come un concetto neutro ma può dare luogo a usi ed esiti molto diversi: può anchilosarsi in un culto regressivo o, invece, farsi coraggiosa ricerca della verità. Scrive Fortini: “Se l’eredità storica dei diversi gruppi umani e degli individui non è vissuta come consapevolezza-prassi, essa diventa il più ipocrita degli alibi dei nostri giorni, sotto la forma di uno storicismo degradato che pretende di conoscere il donde con il rifiuto del dove. […] Il loro passato li ha collocati dove sono; ma è il futuro a farli muovere”. E conclude citando Sartre: “Non mi interessa che cosa è stato fatto all’essere umano, ma cosa egli fa di quel che è stato fatto a lui”.
Ecco il nocciolo della questione: che cosa ne ha fatto il popolo ebraico di ciò che ha subito nel corso dei secoli e in particolare nel Novecento? La Shoah ha colpito l’essere umano sic et simpliciter oppure l’ebreo in quanto ebreo? Auschwitz è il nome di un crimine universale, perpetrato contro la sacralità della persona umana, o di un crimine etnico, che riguarda e interpella un solo popolo? Il convinto entusiasmo con il quale le democrazie occidentali e i grandi organi di stampa hanno appoggiato nel 1967 la causa di Israele contro “l’Arabo straccione gesticolante analfabeta incapace di usare un’arma moderna eccetera”, tradisce, agli occhi di Fortini, non soltanto una cattiva coscienza, ma anche una distorsione della memoria che finisce per attribuire al popolo ebraico un primato etico assoluto, solo per il fatto di essere stato Vittima.
Considerare la Shoah un unicum, una proprietà esclusiva di coloro che l’hanno vissuta e dei loro discendenti, rischia di attribuire a questi ultimi un salvacondotto morale che li solleva da qualsiasi responsabilità per le proprie azioni, specie se queste vengono presentate e giustificate come azioni di difesa. Un soggetto è morale non in forza della sofferenza che ha patito, ma se si comporta, ogni giorno, secondo una retta coscienza e rispetta negli altri quell’umanità che è stata loro negata.
Ecco il passaggio compiuto dall’ebreo Fortini, che conobbe la sciagura delle Leggi razziali del 1938: l’identità ebraica, che fece di lui un perseguitato, e il “grido di ferito” che l’accompagna si dilatano fino a fargli cogliere la figura eterna e ripetitiva dell’Oppresso. Da qui una lezione universale: “una lezione di lotta contro le condizioni estreme a noi note che rendono possibile la distruzione dell’uomo, di cui la strage ebraica è solo un esempio” [corsivo dell’autore, ndr].
La ristampa, da parte dell’editore Quodlibet, de I Cani del Sinai comprende in appendice la Lettera agli ebrei italiani, apparsa sulle colonne de il manifesto nel maggio del 1989, ai tempi della Prima Intifada. È un testo esemplare, per coraggio e chiarezza di pensiero, che si legge non senza provare un brivido se solamente si pensa a quanto si sia radicalizzata, nel corso degli anni, la violenza coloniale in quel lembo di terra.
Per tutti valgano questi passaggi: “Ogni giorno siamo informati della repressione israeliana contro la popolazione palestinese. E ogni giorno più distratti dal suo significato, come vuole chi la guida. Cresce ogni giorno un assedio che insieme alle vite, alla cultura, le abitazioni, le piantagioni e la memoria di quel popolo – nel medesimo tempo – distrugge e deforma l’onore di Israele. […] Il popolo della memoria non dovrebbe disprezzare gli altri popoli e crederli incapaci di ricordare per sempre. […] Ma ogni giorno di più chiedo: come sono possibili tanto silenzio o non poche parole equivoche fra gli ebrei italiani e fra gli amici degli ebrei italiani? Coloro che, amici ebrei o amici degli ebrei […] credono che la coscienza e la verità siano più importanti della fedeltà e della tradizione, anzi che queste senza quelle imputridiscano, ebbene parlino finché sono in tempo […]. Ogni casa che gli israeliani distruggono, ogni vita che quotidianamente uccidono e persino ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi della Palestina, va perduta una parte dell’immenso deposito di verità e sapienza che, nella e per la cultura dell’Occidente, è stato accumulato dalle generazioni della Diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti e attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti”.
Coscienza e verità sono, per Fortini, gli antidoti più efficaci contro la perversione di una religione che invita a uccidere per la terra, in nome di Dio: sono questi gli strumenti per depurare l’idea stessa di Dio, liberandola dall’antropomorfismo e dalle strumentalizzazioni di chi lo invoca per giustificare nefande scelte politiche, e per stemperare l’antagonismo delle fedi. Anche perché, come recita una frase di Zelman Lewental, membro ebreo del Sonderkommando del Crematorio II di Auschwitz, posta a suggello de I cani del Sinai: “se tu non vuoi più credere alla verità, nessuno vorrà più credere a te”.
Andrea Panzavolta è giornalista pubblicista. Collabora alla rubrica “Film in discussione” di Iride. Filosofia e discussione pubblica, e ad alcune riviste di critica cinematografica. Dal 2014 è il direttore artistico della rassegna concertistica forlivese “Passioni in musica”.