giovedì, Aprile 18, 2024
AmbienteEconomia

Re-immaginare il capitalismo nella ricostruzione post Covid-19

di Veronica Cundari

 

L’emergenza sanitaria da Covid-19 ha sconvolto il mondo intero, esacerbando iniquità sociali e problemi strutturali dei sistemi socio-economici. Il virus ha ucciso, oltre che milioni di vite umane, anche la nostra illusione di continuare a “vivere sani in un mondo che era malato”, come ha affermato in una recente omelia Papa Francesco.

Mi piace pensare che questo virus non abbia portato solo morte e sofferenza, ma che sia valso a qualcosa di utile. Oltre al significativo, per quanto temporaneo, miglioramento della qualità dell’aria e altri effetti positivi sull’ambiente, questa interruzione della normalità ha avuto ricadute potenzialmente benefiche su alcuni aspetti della nostra vita, in particolare il forte impulso al “lavoro a distanza” che, se ben organizzato, consente di tenere alta la produttività conciliando tempi di vita e occupazione e riducendo gli spostamenti. Lo sconvolgimento causato dalla pandemia costituisce, inoltre, un’occasione unica per affrontare e tentare di risolvere fondamentali problematiche sociali – come la povertà e le diseguaglianze – che nella vita pre-Covid le istituzioni pubbliche hanno affrontato in modo inadeguato e che il Covid ha reso più visibili ed evidenti.

Un aspetto importante da cui ripartire è, a mio avviso, la piena consapevolezza della forte interdipendenza tra impresa e società: un’economia forte, ma anche sana, dipende dall’esistenza di un tessuto sociale prospero e armonioso. Una semplice verità molto spesso ignorata dalle imprese che, a partire dal secondo dopoguerra, hanno generato anche elevati costi sociali e ambientali. Le criticità messe in luce dalla pandemia offrono l’occasione per rilanciare la necessità di ristrutturare il capitalismo affinché sia capace di produrre per soddisfare anche i bisogni sociali e non soltanto per accumulare capitale. Questa ristrutturazione mi pare inevitabile se vogliamo che le imprese contribuiscano, con un ruolo da protagoniste, al percorso di ricostruzione e risanamento post-Covid, senza ritornare alla precedente e insostenibile “normalità”.

Quali modelli teorici e pratici abbiamo a disposizione per mettere in cantiere questa ristrutturazione del capitalismo? Ormai da anni è divenuto dominante quello della Corporate Social Responsibility (CSR), la Responsabilità Sociale di Impresa, nata quando il mondo accademico ha iniziato a fare del collegamento tra sostenibilità e redditività un focus centrale della letteratura economico-aziendale. Il concetto di responsabilità sociale delle aziende mira a integrare motivi di natura etica all’interno della loro visione strategica: le imprese, animate dallo spirito del “give back”, si dimostrano protese a manifestare i più alti livelli di integrità morale e trasparenza al fine di avere un impatto positivo sul contesto sociale in cui esse operano e di cui sono parte integrante (Baneryee, 2008).

A partire dalle sue prime storiche tracce embrionali, la CSR ha compiuto un viaggio lungo 70 anni durante il quale il concetto si è evoluto continuamente, seguendo in parallelo i cambiamenti della società. Fu Howard Bowen (1953) il primo a parlare di responsabilità sociale delle aziende, esponendo un pensiero che risultò alquanto illuminante a quei tempi. L’autore definiva i businessmen come “servitori della società”, assegnando a tali soggetti l’obbligo di perseguire degli obiettivi e prendere delle decisioni in linea con i “valori” della società. Altro importante contributo è stato fornito da Archie B. Carroll (1979), che definiva una vera e propria “piramide delle priorità” che le imprese avrebbero dovuto adottare per definire i loro obiettivi: alla massimizzazione degli utili e al rispetto della legge, considerati da sempre aspetti imprescindibili, si aggiungeva ora una condotta da seguire considerata ”etica”, in modo tale da contribuire a migliorare il benessere sociale in senso ampio di una comunità. Si è arrivati poi alla nozione, ancora più articolata, di sostenibilità aziendale con la teoria della Triple Bottom Line di John Elkington (1998). In questo modello di impresa “responsabile”, il sistema di misurazione delle performance aziendali non si limita più a considerare solo l’aspetto economico (la tipica “bottom line”), ma si espande fino a includere anche l’aspetto sociale e ambientale.

Un concetto tanto innovativo dal punto di vista teorico è risultato, tuttavia, largamente fallimentare dal punto di vista pratico. Le imprese che seguono la logica CSR spesso finiscono nel trovarsi di fronte a un trade-off: dare priorità alla profittabilità del business o alla sostenibilità del pianeta, o in altri termini, servire gli interessi degli shareholders che vogliono veder fruttare il proprio investimento nell’azienda o rispondere ai bisogni della società, lavoratori e lavoratrici incluse. Si tratta di un dilemma che, il più delle volte, si risolve in un’unica strada, in quanto il business di tipo capitalistico, per sua stessa natura, sceglie sempre la massimizzazione dei profitti, a ogni costo.

Finisce così che quelle che sono esaltate come attività “socialmente responsabili” alla fine si riducono in mera filantropia, prive di rilevante impatto sociale e che neanche favoriscono il successo di un’azienda. A ben vedere, il fallimento dell’approccio CSR in termini pragmatici deriva da una questione di tipo concettuale, in quanto non mette in discussione l’idea dell’impresa capitalistica come antagonista della società, il che non giova né all’impresa né alla società essendo l’una costitutiva dell’altra (Porter e Kramer, 2006). Frutto di questo errore e della connessa strumentalità dell’approccio CSR è stata la tendenza di molte aziende di proclamare sedicenti comportamenti sostenibili in modo da ottenere un’immagine aziendale ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale: è la ben nota pratica del greenwashing. Questo genere di distorsioni richiama alla necessità di un serio ripensamento della responsabilità d’impresa: occorre superare la logica della “pubblicità”, a volte ingannevole e persino dannosa per l’ambiente, in direzione di un reale e concreto contributo degli operatori economici alla società. Si tratta di pensare un modello economico che sia fin da principio e strutturalmente in sintonia con il benessere della comunità e con la salvaguardia dell’ambiente.

In questa prospettiva Porter e Kramer (2011) hanno elaborato una nuova teoria, nota con il nome di Creating Shared Value (CSV), che si propone come soluzione al fallimento dell’approccio CSR. Tale concetto ridefinisce il ruolo delle imprese nella società a partire da una semplice idea: il successo economico e il benessere sociale sono interdipendenti. Creare valore condiviso significa integrare nel core business dell’azienda degli obiettivi sociali che servano ad aumentare la capacità dell’impresa di stare sul mercato e, allo stesso tempo, migliorare le condizioni economiche e sociali della comunità che la circonda (Pfitzer, 2013). In altre parole, l’approccio CSV non è orientato tanto a redistribuire utili devolvendoli a cause sociali tramite pratiche filantropiche o di beneficienza, come avviene secondo la logica CSR: esso mira, piuttosto, a creare “valore” in modo congiunto, da parte dell’impresa e della comunità, a beneficio di entrambe.

In questo modo, lo Shared Value consente alle imprese di agire come tali – e non come “enti di beneficienza” – per mezzo di un business model che crea profitti, contribuendo al tempo stesso a risolvere varie problematiche che affliggono la società. Esistono oggi un discreto numero di imprese che stanno dimostrando in concreto come questa idea del CSV possa tradursi in un vantaggio competitivo: Novartis ha iniziato a vendere farmaci nelle comunità rurali dell’India, inventando un nuova modalità di distribuzione dei prodotti che permette di garantire a 16 milioni di persone l’accesso all’assistenza sanitaria (Novartis, 2020); Johnson&Johnson ha investito su alcuni programmi di benessere per i suoi dipendenti, risparmiando 250 milioni di dollari sui costi di assistenza sanitaria (Webb, 2016). Dunque, il modello CSV ha permesso a queste aziende leader e a tante altre di affrontare i problemi sociali non più come costi o come limiti, ma come vere e proprie opportunità di business per soddisfare nuovi bisogni, acquisire efficienza, creare differenziazione ed aprire nuovi mercati. Solo il tempo potrà dirci se questo modello è effettivamente sostenibile, o se si tratta di una ennesima e sofisticata forma di manipolazione delle esigenze sociali e ambientali, oggi molto avvertite, a fini di profitto.

Per altro, l’approccio CSV identificato da Porter e Kramer non è stato risparmiato dalle critiche. Secondo Elkington (2011), ad esempio, non si tratterebbe di un’iniziativa di reale trasformazione ma solo di una re-interpretazione di concetti già formulati nella letteratura della CSR, nella stakeholder management di Freeman o nella social innovation definita da Moss Kanter (1999). Secondo altri invece (vedi Crane et al., 2014) il CSV è basato su una concezione superficiale del ruolo della corporation nella società. Credo, però, che queste critiche non siano sufficienti per rinunciare a sperimentare, sulla pista aperta dalla CSV, un nuovo modello economico. Tale nuovo modello dovrebbe superare l’idea di una produzione di merci finalizzata essenzialmente al profitto, assunto come variabile indipendente rispetto a occupazione, salari e consumi, in direzione di un sistema di “produzione del valore” che apporti utili all’impresa ma anche benefici reali ed effettivi alla comunità, rispettando i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, e della cittadinanza tutta a un ambiente salubre.

Esacerbato dagli accadimenti correnti provocati dalla pandemia di Covid-19, il ruolo delle aziende va davvero ripensato: quelle che da sempre sono considerate come semplici erogatrici di servizi e prodotti o fonte di posti di lavoro, possono diventare uno dei principali motori di innovazione e progresso sociale in questa fase di transizione. L’approccio dello Shared Value costituisce una potenzialità significativa da esplorare nel percorso di ricostruzione e risanamento del mondo post-Covid per riscoprire un nuovo modo di fare business al servizio della comunità.

 

Veronica Cundari si è laureata in Economia Aziendale – Management e Controllo presso l’Università di Pisa nel giugno 2020 e proseguirà gli studi presso la Luiss di Roma. Al centro dei suoi interessi vi sono i temi di strategia sostenibile d’impresa e green management. E-mail: veronica.cundari@gmail.com

 

Riferimenti bibliografici

Banerjee, S. B. (2008). Corporate social responsibility: The good, the bad and the ugly. Critical sociology, 34(1), pp. 51-79.

Bowen H.R. (1953) Social responsibility of the businessman. Iowa City: University of Iowa Press.

Carroll A.B. (1979) “A three-dimensional conceptual model of corporate social performance”, Academy of Management Review, 4, pp. 497-505.

Crane, A., Palazzo G., Spence L . J. and Matten, D. (2014) “Contesting the Value of the Shared Value Concept”, California Management Review, 56 (2), Winter 2014.

Elkington J. (1998) “Partnerships from cannibals with forks: The triple bottom line of 21st-century business”, Environmental Quality Management, 8 (1), pp. 37–51.

Elkington J. (2011) Don’t abandon CSR for creating shared value just yet, The Guardian. Available at https://www.theguardian.com/ [Accessed 12th July]

Kanter R.M., (1999) “From Spare Change to Real Change. The Social Sector as Beta Site for Business Innovation”, Harvard Business Review, 77 (3), pp.122-128.

Novartis (2020)”Addressing the needs of underserved populations”. [online] Available

from: https://www.novartis.com/ [accessed 8th May 2020]

Freeman, E. (1984) Strategic Management: a Stakeholder Approach. Boston: Pittman.

Porter M.E. and Kramer M.R. (2011) “The Big Idea: Creating Shared Value. How to reinvent capitalism— and unleash a wave of innovation and growth”, Harvard Business Review, 89 (1-2), pp.62-77.

Porter M., Kramer M. (2006) “Strategy and Society: The Link Between Competitive Advantage and Corporate Responsibility”, Harvard Business Review, 84 (12), pp. 76- 92.

Porter (2013) “Why business can be good at solving social problems” [Youtube]. Available from: https://www.youtube.com/watch?v=0iIh5YYDR2o&t=461s [Accessed 19th June]

Pfitzer M., Bockstette V., Stamp M. (2013) “Innovating for shared value”, Harvard Business Review, 91(9), pp. 100-107.

Webb J. (2016) “The shared value of corporate social responsibility”. [online] Availabe from: https://www.ft.com/ [accessed 10th August 2020]