Violenza domestica questione pubblica
A fronte dei progressi in corso sul terreno dell’emancipazione femminile nella società, in ambito domestico sembra riprendere vigore con la crisi sanitaria una tendenza opposta: quella di ripristinare i “naturali” privilegi maschili che fanno parte del nucleo atavico delle società patriarcali. Tiziana Di Iorio, Rosario Murdica e Maria Parente, in questo articolo scritto per InGenere, ripercorrono i dati, le cause e le forme di violenza sulle donne che ancora oggi manifestano quanto la disuguaglianza di genere sia fortemente presente a tutti i livelli della nostra vita sociale, politica e professionale, a partire dall’utilizzo del linguaggio. A questo proposito, le autrici invitano a riflettere su come il fatto di parlare delle donne come “soggetti deboli”, da proteggere, possa alimentare la paura invece che combatterla. E tracciano una strada da seguire: far diventare la questione di genere e la violenza domestica a tutti gli effetti un un problema dell’intera comunità, una questione pubblica.
di Tiziana Di Iorio, Rosario Murdica, Maria Parente
La prima citazione del termine femminicidio, inteso come “l’uccisione di una donna da parte di un uomo per motivi di odio, disprezzo, piacere o senso di possesso delle donne”[1], è stata proposta dalla docente femminista di Studi Culturali Americani, Jane Caputi e dalla criminologa Diana E. H. Russell.
Teorie e pratiche femministe hanno visto nel corpo della donna un punto di vista fondamentale da cui partire per analizzare la società in maniera critica rispetto al passato. La reificazione del corpo femminile come oggetto di scambio e di violenza da parte degli uomini è alla base dell’analisi di Susan Brownmiller, per cui la violenza sessuale rappresenta l’esercizio di un privilegio da parte degli uomini (mariti, padri oppure estranei) contro le donne: “non è niente di più né di meno che un processo cosciente di intimidazione attraverso cui gli uomini mantengono tutte le donne in uno stato di soggezione”,[2] in grado di condizionare il loro comportamento e quindi la loro ribellione, rivelandosi come strumento fondante del dominio patriarcale.
Lea Melandri,[3] una delle protagoniste del movimento femminista, ricerca la causa della violenza sulle donne in una mancata messa in discussione dei rapporti tra i sessi, in una assegnazione al sesso maschile di “naturali” privilegi, tramandati per via educativa di padre in figlio. Melandri sottolinea come le donne subiscano una continua espropriazione di esistenza e progettualità, dal momento che il loro corpo e la loro sessualità vengono considerati solo in rapporto alla maternità. Le donne si portano dietro una pesante eredità che proviene da secoli di storia, trasmessa attraverso la famiglia, l’educazione, la scuola, interiorizzando un modello erroneo di “sopportazione” rispetto alla violenza fisica e psicologica degli uomini. Secondo questo schema nel legame tra uomo e donna vengono intrecciati e confusi amore e violenza nell’ambito privato, al punto di giustificare e coprire l’una con l’altro.
Le cause principali della violenza sulle donne sono da annoverare nei rapporti di potere asimmetrici e ineguali tra gli uomini e le donne. Tale ineguaglianza da sempre evidenzia lo status di dominio maschile e lo status subordinato femminile. Se l’emancipazione femminile ha rappresentato un’autentica rivoluzione e una rottura con il passato, ha invece evidenziato, all’interno dei rapporti familiari, forti tensioni regressive, nel tentativo di ristabilire una sorta di “equilibrio riparativo” che restituisca al partner i simboli del potere ormai perduto non ricoprendo più il ruolo di breadwinner. L’emancipazione e la flessibilità lavorativa nella vita pubblica hanno il loro rovescio nelle mura domestiche e nelle relazioni interpersonali, per cui se le donne e gli uomini sono sempre più impegnati a rispondere in modo flessibile alle sfide del mercato del lavoro, sono ugualmente esposti ad avere elasticità nelle relazioni intime, realtà che mal si concilia con la tradizionale idea di stabilità e continuità del rapporto di coppia.
Dalle analisi delle percezioni soggettive/oggettive di in/sicurezza nelle città, emerge che uomini e donne sembrano abitare città diverse. “Cosa che rimanda a una osservazione non nuova: una città sicura per gli uomini non è necessariamente sicura per le donne. Viceversa, una città sicura per le donne lo sarebbe per tutti” come scriveva Tamar Pitch nel 1998. Ma continuare a sottolineare alle donne quanto facilmente possano essere il bersaglio di aggressioni e violenza, significa solo esercitare un controllo, generando e mantenendo viva la paura. Vecchio e nuovo sopravvivono trasversalmente alle esperienze dei singoli e i ruoli di genere risultano essere, ancora oggi, fortemente irrigiditi.
Le fondamenta della violenza di genere poggiano su basi stratificate politicamente, culturalmente e socialmente dove uomini e donne si trovano per lo più divisi su fronti contrapposti.
L’accettazione della disuguaglianza ha un potere che è trasversale a tutte le classi sociali e che impedisce di focalizzarsi su altri obiettivi di giustizia distributiva che sembrano allontanarsi di più proprio nel momento in cui sembravano essere stati raggiunti. Le asimmetrie di genere, invece, pervadono ancora tutti i settori della vita sociale, politica, professionale, con l’avanzare di un linguaggio sempre più sessista e la rimozione dell’eguaglianza tra i sessi, dando dimostrazione di una regressione su quelli che sembravano i punti fermi di una raggiunta parità.
A causa del paternalismo imperante nella nostra società, talvolta si considerano le donne come soggetti deboli, quasi appartenessero a una categoria protetta, il che comporta, spesso, suggerimenti e proposte, che, anziché colpevolizzare chi commette reato di violenza, mira a tenere le donne dentro le mura domestiche, dove, invece, corrono i rischi maggiori. Delle 123 donne uccise nel 2017, l’80,5% è stata uccisa da una persona conosciuta. In particolare, nel 43,9% dei casi sono state uccise dal partner attuale (35,8%, corrispondente a 44 donne) o dal precedente (8,1%, corrispondente a 10 donne). Nel 28,5% dei casi (35 donne) sono state uccise da un familiare (inclusi figli e genitori) e nell’8,1% dei casi (10 donne) da un conoscente, colleghi, amici.
Le espressioni di violenza familiare non devono essere ridotte a semplice manifestazione di crisi di coppia, ma devono essere considerate come vere e proprie minacce alla salute psico-fisica della persona e come tali vanno trattate. È per questo motivo che la violenza domestica non può essere considerata una questione privata, ma un problema che riguarda l’intera comunità. La cultura del patriarcato, di cui la nostra società è ancora troppo e capillarmente intrisa ha portato, per decenni, ad intendere la violenza domestica come una questione privata, che riguardava la famiglia e per cui nessuno aveva, in qualche modo, il diritto di intromettersi. Lasciando, pertanto, le donne ancora più sole e contribuendo a stratificare quella cultura della violenza contro cui, ancora oggi, sono costrette e costretti a lottare. Spesso la famiglia diventa un involucro, socialmente riconosciuto, all’interno del quale si nascondono frustrazioni e violenze, uno spazio in cui le relazioni affettive possono diventare ambigue e la presenza del binomio “amore-aggressività” (un finto amore costruito sulla sopraffazione); “affetto-violenza” (affetto soffocante e dispotico) non rappresenta un evento raro. Tra le varie forme di violenza un posto importante è occupato dalla violenza economica, ossia quella serie di atteggiamenti volti essenzialmente a impedire che il partner diventi o possa diventare economicamente indipendente, ma anche, semplicemente, disporre liberamente delle sue finanze.
Una forma di violenza molto sottile, ma che comporta conseguenze devastanti per le vittime, è la violenza psicologica, cioè tutti quegli atteggiamenti intimidatori, vessatori e denigratori da parte del partner (incluso: il danneggiamento degli oggetti personali di valore affettivo per la donna, proibirle di frequentare amici e/o parenti, terrorizzarla con scenate verbali e/o lanci di oggetti).
Spesso il maltrattamento è così pesante che la donna perde completamente la stima di se stessa e il senso della propria identità, annientata come individuo, perde fiducia nelle proprie potenzialità e ciò comporta una maggiore difficoltà, per le vittime, di trovare la forza per denunciare. Spesso la violenza psicologica si manifesta in modo così subdolo che non viene neanche percepita da quanti gravitano intorno alla coppia. Le aggressioni sono sottili e quello che è un sadico e perverso tentativo di annientare l’altro, viene spesso interpretato semplicemente come un rapporto conflittuale o passionale tra i partner.
Fonte: InGenere, 13 maggio 2020.
Riferimenti
Bartholini I., (2013), Violenza di prossimità, La vittima, il carnefice, lo spettatore, il “grande occhio”, FrancoAngeli
Pitch T., (2001), Che genere di sicurezza. Donne e uomini in città, Franco Angeli
Note
[1] Radford G., Diana E.H.Russel (1992), Femicide: the politics of woman killing, Twayne Pub
[2] Brownmiller S. (1975) Against our will, Simon & Schuster, Stati Uniti
[3] Melandri L., (2011), Amore e violenza, Bollati Boringhieri