Un nuovo cielo e una nuova terra
di Giorgio Gallo
Spesso di fronte a crisi drammatiche e dolorose, come la pandemia che l’umanità sta affrontando in questi giorni, così come di fronte a terremoti, eruzioni, tifoni e altri cosiddetti “disastri naturali”, pensiamo che non siano altro che questo, dei fatti “naturali”, da affrontare nel modo migliore, per potere al più presto, con i minimi danni, ritornare alla “vita normale”. In realtà, come osserva Kathleen Tierney, direttrice del Natural Hazards Center dell’Università del Colorado a Boulder, in un bel libro di qualche anno fa1, “I disastri e i loro impatti sono produzioni sociali, e le forze che portano alla produzione del disastro sono iscritte nello stesso ordine sociale.” E non è un caso che spesso per parlare di questi disastri usiamo l’aggettivo Apocalittico. Come ci ricorda don Roberto Filippini, Apokálypsi significa “svelamento”, e la crisi è proprio questo: l’occasione per guardare con occhi nuovi, senza più veli, alla società in cui viviamo, al nostro tipo e stile di vita, e per metterli radicalmente in discussione.
Questo comporta che, anche di fronte alla pandemia Covid-19, non possiamo limitarci a discutere di cosa fare per affrontarla in modo da minimizzare i danni umani, sociali ed economici. Anche se questa è certamente la cosa più importante nell’immediato, dobbiamo tuttavia interrogarci anche sulle radici sociali della pandemia e dei suoi effetti, dal passaggio del virus dal mondo animale agli umani, fino ai limiti e alle mancanze delle nostre risposte. Nel seguito cerchiamo di fornire degli spunti su come rispondere a queste domande.
Il Covid-19 è, come per altro circa il 60% delle malattie infettive, il risultato di una zoonosi, cioè di una trasmissione di un virus da un animale all’uomo, attraverso eventuali passaggi intermedi. Ad esempio, la SARS, nel 2003, è stata originata da un passaggio da pipistrelli all’uomo, passando però prima per degli zibetti (piccoli mammiferi delle dimensioni dei gatti) che vivono nel sud-est asiatico (masked palm civetes). Passaggi questi sempre avvenuti, ma accelerati dalle attività umane. Secondo Kate Jones, titolare della cattedra di Ecologia e Biodiversità all’University College di Londra, “l’aumento del trasporto di animali e la distruzione dell’habitat hanno fatto sì che gli animali si mescolassero in modi che non avevano mai avuto luogo prima”2. Questo è confermato da uno studio apparso sulla rivista Nature nel 2010, nel quale si affronta il problema della relazione fra biodiversità e diffusione di patogeni. Gli autori, pur riconoscendo che l’argomento richiede ulteriori e più approfondite ricerche, concludono che, almeno nella maggioranza dei casi studiati, “la perdita di biodiversità tende ad aumentare la trasmissione degli agenti patogeni e l’incidenza delle malattie”3. Un elemento non trascurabile sembra sia poi la diffusione dei macro-allevamenti di bestiame. In uno studio pubblicato nel 2018 da un gruppo di ricercatori cinesi si faceva notare come la crescita dei macro-allevamenti di bestiame avesse alterato le nicchie vitali dei pipistrelli. Inoltre, veniva evidenziato come l’allevamento industriale avesse incrementato le possibilità di contatto tra fauna selvatica e bestiame, facendo esplodere il rischio di trasmissione di malattie originate da animali selvatici i cui habitat sono drammaticamente aggrediti dalla deforestazione. Di questo si parla in un un articolo la cui traduzione in italiano è stata pubblicata sul Manifesto, il 5 aprile scorso.
Sempre rimanendo nell’ambito delle cause di tipo antropico della crisi Covid-19, è presumibile, afferma David Quammen, autore di Spillover (Adelphi, 2014), “che ci possa essere una correlazione tra l’inquinamento dell’aria e i danni ai polmoni e alle vie respiratorie delle persone e quindi la loro suscettibilità a questo particolare virus.” Sembrerebbe orientare verso questa ipotesi la significativa corrispondenza fra inquinamento e mortalità per coronavirus in Italia, evidenziata nella figura seguente in cui sono indicati in modo qualitativo i livelli di PM10 in Europa. Un elemento che potrebbe avere contribuito è anche la capacità delle microparticelle di svolgere il ruolo di vettori del virus, aumentando così il suo raggio di diffusione. Ovviamente si tratta solo di uno dei fattori che possono avere influito sui livelli di mortalità, ma certamente, almeno per quel che riguarda l’Italia, si può osservare come le aree più inquinate siano proprio quelle dove si è manifestata l’epidemia in modo più forte e più mortale. E in effetti un recentissimo studio di alcuni ricercatori dell’università di Siena e della Aarhus University in Danimarca sostiene che “l’alto livello di inquinamento nel Nord Italia deve essere considerato un ulteriore co-fattore dell’alto livello di letalità registrato in quell’area.”
PM10 concentrations in Europe between 2006 and 2010. Source: European Environment Agency
Quella del Covid-19 è certamente una epidemia più virale e letale dell’influenza stagionale, ma con effetti lievi sulla grande maggioranza della popolazione, e molto seri solo su una piccola frazione di essa. Il fatto che si sia trasformata in “una catastrofe senza precedenti nella storia dell’umanità e in una minaccia per l’insieme dei nostri sistemi economici”4 è dovuto, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti, a cause sociali ed economiche ben individuabili. “Lo smantellamento del sistema sanitario pubblico ha trasformato questo virus in una catastrofe senza precedenti nella storia dell’umanità e in una minaccia per l’insieme dei nostri sistemi economici”5. È vero che, almeno in Europa, e in Italia in particolare, il sistema sanitario pubblico è universale e ha, in molti dei suoi ospedali, delle punte di eccellenza a livello mondiale. Tuttavia, dagli anni ’80 del secolo scorso a oggi, abbiamo assistito a un suo sistematico indebolimento a causa dell’accettazione diffusa e acritica dell’ideologia del neoliberismo, secondo la quale un mercato senza limitazioni è la strada più sicura, se non l’unica, verso la prosperità. Ricordiamo tutti Reagan e la Tatcher, secondo la quale la società non esiste, esistono solo gli individui. E ricordiamo il libro “La fine della storia e l’ultimo uomo” con il quale Francis Fukuyama ci annunciava un futuro fatto di democrazia liberale e di economia di mercato. Oggi, dopo la crisi del 2008, con la forte crescita delle disuguaglianze e con oltre la metà della popolazione mondiale che vive sotto regimi illiberali e autoritari, il radioso futuro preannunciato da Fukuyama appare più il frutto di una “cecità ideologica” che di una analisi critica e razionale della realtà e della storia. E la presente emergenza conferma questo giudizio. Il progressivo ritirarsi del pubblico a favore del privato, acriticamente considerato sempre e comunque più efficiente6, è certamente alla base delle grandi difficoltà che anche i paesi più ricchi, in Europa e nel Nord America, stanno trovando nel rispondere alla pandemia Covid-19. Queste difficoltà riguardano diversi punti. Ne esamineremo brevemente nel seguito tre: la riduzione del pubblico rispetto al privato nei sistemi sanitari, con una sanità centrata sull’ospedale piuttosto che sul territorio; l’allungarsi delle catene della produzione del valore; la notevole crescita delle disuguaglianze.
Lo spostamento dal pubblico al privato nella sanità non si esprime tanto né solo in un ampliamento dello spazio della sanità privata, quanto piuttosto in un modo di pensare, in una filosofia che sottende sempre più un sistema sanitario che viene visto come una azienda, anzi un sistema di aziende. Un momento simbolico del passaggio a questo nuovo approccio è stata la riforma del 1992 che ha trasformato le USL, Unità Sanitarie Locali, in ASL, Aziende Sanitarie Locali, vere e proprie aziende pubbliche dotate di autonomia imprenditoriale e gestite da potenti “manager della salute”. Le ASL “informano la propria attività a criteri di efficacia, efficienza ed economicità e sono tenute al rispetto del vincolo di bilancio, attraverso l’equilibrio di costi e ricavi, compresi i trasferimenti di risorse finanziarie”7.
Questa nuova impostazione, oltre a portare a una drastica riduzione dei posti letto negli ospedali, ha accentuato la caratteristica “ospedalocentrica” del sistema sanitario, rendendo più difficile muoversi verso una sanità più orientata al territorio, più vicina ai cittadini e capace di portare là dove essi vivono professionalità, sia mediche che infermieristica. L’assistenza domiciliare permetterebbe di orientare sempre più gli interventi verso forme di assistenza non ospedalizzate e più vicine alle esigenze di umanizzazione e di rispetto della qualità della vita. Team formati da medici generali, medici specialistici e infermieri, operanti sul territorio, permetterebbero di ridurre i ricoveri inappropriati, e le liste di attesa, e, di conseguenza, anche la pressione sugli ospedali. Nulla di questo è stato fatto e gli effetti si vedono ora con l’emergenza coronavirus: ospedali al collasso, ma soprattutto diventati essi stessi il centro del contagio e della diffusione del virus. Va infine osservato che un sistema gestito con logiche aziendali è più incentivato a operare a livello di cura piuttosto che di prevenzione, a mettere a punto sistemi centrati sulla “malattia” piuttosto che sulla “persona”.
Uno degli effetti della pandemia è stata poi la rottura delle catene del valore e delle forniture, che il neoliberismo aveva allungato spesso oltre il ragionevole. La ricerca di materie prime e di manodopera a costo minimo ha fatto sì, ad esempio, che oggetti di consumo di uso comune, come ad esempio cellulari o computer, siano il risultato di operazioni di produzione e assemblaggio svolte in decine di paesi, fra loro lontanissimi, in diversi continenti. Questo moltiplica gli effetti economici delle chiusure di molte attività produttive che si stanno verificando in tanti paesi. Ma l’effetto che abbiamo sentito prima e con maggiore evidenza è stato il fatto che la produzione di oggetti di basso valore aggiunto, ad esempio mascherine o anche respiratori, viene delegata a paesi dove il lavoro costa pochissimo (ed è anche sfruttato e privo di diritti). Da qui la difficolta a procurarceli quando sarebbero essenziali per salvare vite.
Al di là della retorica del “siamo tutti nella stessa barca”, quello che emerge sempre più chiaramente è che la pandemia non colpisce tutti allo stesso modo, e che è caratterizzata molto chiaramente in termini di classe e anche di “razza”. Ad esempio, una ricerca del Furman Center della New York University mostra come a New York i massimi tassi di infezione e di mortalità si abbiano nei quartieri abitati da afroamericani e ispanici. I residenti di questi quartieri hanno redditi più bassi, età media inferiore e più basso livello di istruzione. Hanno di conseguenza minore accesso a internet e minore possibilità di effettuare tele-lavoro e sono quindi costretti a un maggiore uso del trasporto pubblico.
Tutto questo deve farci riflettere. Su un editoriale del Financial Times8, a proposito del dopo Covid-19, si afferma che “Bisognerà prendere in considerazione misure che fino a ieri sono state considerate stravaganti, come il reddito di base e le tasse patrimoniali”. Significative, e in curiosa sintonia con quelle del Financial Times, sono le parole del Papa nel messaggio inviato il giorno di Pasqua ai “fratelli e alle sorelle dei movimenti e delle organizzazioni popolari”. Papa Francesco afferma che se è vero che il virus colpisce tutti, senza differenza di nazionalità né appartenenze religiose o sociali, tuttavia, sono i poveri e gli scartati quelli che pagano in questi giorni e pagheranno in futuro il prezzo più alto. E aggiunge che forse è arrivato il tempo di pensare a un salario universale per gli esclusi.
Alla luce di tutto questo, forse, piuttosto che auspicare un ritorno alla “normale” vita pre-pandemia, dovremmo cominciare a pensare a come fare tesoro di ciò che è successo, per “tentare di imboccare nuove vie per la vita umana sul nostro pianeta” come ci invita a fare don Roberto, oppure, citando il libro dell’Apocalisse, per immaginare e costruire “un nuovo cielo e una nuova terra”.
Note
1 Kathleen Tierney, The Social Roots of Risk. Producing disasters, promoting resilience, Stanford Business Books, 2014.
2 Nick Paton Walsh, Vasco Cotovio, “Bats are not to blame for coronavirus. Humans are”, CNN Health, 20 marzo 2020.
3 Felicia Keesing et al., “Impacts of biodiversity on the emergence and transmission of infectious diseases”, Nature, vol. 468, pp. 647–652, 2010.
4 Gaël Giraud, “Per ripartire dopo l’emergenza Covid-19”, La Civiltà Cattolica, Quaderno 4075, vol. II, pag. 7–19, 4 Aprile 2020.
5 Gaël Giraud, ibidem.
6 Vulgata, questa, accettata anche da una parte della sinistra, sia pure in versione “compassionevole”. Pensiamo alla “terza via” di Tony Blair.