venerdì, Settembre 12, 2025
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“Senza respiro”. L’ultimo rapporto di Antigone sulle carceri italiane

di Lucia Gatto 

Anche quest’anno l’associazione Antigone, attiva dal 1991 nella promozione di campagne informative e proposte per garantire dignità e diritti alle persone private della libertà personale, ha pubblicato il suo XXI rapporto sulle condizioni di vita nelle carceri italiane. 

Intitolato “Senza respiro”, il rapporto è il risultato di visite effettuate dall’associazione in 95 istituti penitenziari per adulti e nella maggior parte degli istituti penali per minorenni in tutta Italia. Ne emerge un quadro critico – sovraffollamento, carenza di personale e condizioni di lavoro problematiche, diritti compressi e una deriva punitiva che mette a rischio la tenuta costituzionale del sistema – con alcune note positive in materia di diritto all’istruzione.

 

Un sistema in contrasto coi principi costituzionali 

L’indagine di Antigone assume come punto di riferimento l’attuazione della Costituzione italiana, che affida alle pene una funzione eminentemente rieducativa, affermando che queste “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”.

Alla luce di tale principio, gli autori e le autrici affermano che “il sistema penitenziario deve tornare a respirare, altrimenti rischia una pericolosissima implosione. Oltre a ogni volontà riformatrice, negli ultimi tempi si è smarrito anche un senso comune di appartenenza costituzionale. Non di rado accade che non solo la pratica, ma anche la retorica pubblica, sia esplicitamente aggressiva, truce, illegittima”.  

A fronte di questa deriva, alimentata da quanti vedono nel diritto penale la risposta a tutti i problemi economico-sociali del paese e nell’inasprimento delle pene l’unica leva contro la devianza, Antigone invita a “costruire una grande alleanza di tutti coloro che intendano muoversi nel solco dell’articolo 27 della Costituzione, a partire dalle università, dalle associazioni, dal mondo delle professioni e dai sindacati”.

L’associazione invia un messaggio chiaro: “il carcere non va trasformato in una trincea di guerra. Chi usa toni militareschi o guerrafondai per orientare e gestire la vita carceraria commette un gravissimo atto di insubordinazione costituzionale che renderà durissima la vita degli stessi poliziotti”.

Questo richiamo alle condizioni di lavoro nel carcere non è scontato, né retorico, e deve fare riflettere su quanto poco sostenibile sia l’attuale sistema carcerario: da diversi anni, infatti, il suicidio non è più l’estremo gesto di protesta dei soli detenuti ma interessa, sia pure con numeri molto più piccoli, anche i funzionari della polizia penitenziaria.

Oltre che nei suicidi, il deterioramento delle condizioni di vita nelle carceri si manifesta nell’aumento degli episodi di autolesionismo e delle proteste promosse dalle persone detenute, in forma individuale e collettiva. Nel 2024 rispetto al 2023 gli scioperi della fame e/o sete hanno registrato un aumento in termini assoluti del 35%; il rifiuto del vitto/delle terapie del 21%; l’astensione dalle attività del 7%; le battiture del 39%, il rifiuto di rientrare nelle celle del 64% e gli atti turbativi dell’ordine e della “sicurezza” (categoria dai contorni sfuggenti) addirittura del 72%. Anche le aggressioni tra persone detenute registrano una crescita (7%) e quelle commesse nei confronti del personale di polizia penitenziaria (22%). 

Per offrire almeno un saggio della ricchezza di dati e riflessioni contenuta nel rapporto, ho scelto di soffermarmi su alcune domande: perché le persone straniere sono sovrarappresentate nel sistema penitenziario? Che spazio hanno l’istruzione e il lavoro in carcere, necessari per garantire la rieducazione e il pieno reinserimento sociale delle persone?

 

Le persone straniere nel sistema carcerario 

La popolazione detenuta di origine straniera costituisce, da molti anni, tema di strumentalizzazioni più che di attente analisi (premessa indispensabile per politiche pubbliche adeguate).

Il rapporto di Antigone smentisce, innanzitutto, l’esistenza di una “emergenza criminalità” connessa alle migrazioni. A fronte della lieve crescita della popolazione straniera residente in Italia (passata dall’8,7% del primo gennaio 2023 al 9% del primo gennaio 2024), il numero delle persone straniere in carcere è anch’esso lievemente aumentato (passando dal 31,4% al 31,8% nello stesso periodo).

Negli ultimi vent’anni la percentuale dei detenuti stranieri sul totale è rimasta sostanzialmente costante, passando dal 31,7% del 31 dicembre 2004 al 31,8% del 31 dicembre 2023, salvo registrare un massimo nel 2007 (37,5%) e un minimo nel 2023 (31,4%).

Resta da spiegare perché la popolazione straniera sia sovrarappresentata in carcere: a fronte di una presenza straniera corrispondente al 9% della popolazione residente, la popolazione carceraria composta da persone straniere è superiore al 31%, come appena visto.

Le ragioni di questa situazione sono varie. Escludendo come non scientifica l’idea di una “propensione etnica al crimine”, e non potendo considerare soddisfacenti affermazioni come “gli stranieri delinquono di più degli italiani”, occorre spiegare questo dato.

Il rapporto di Antigone parte dall’assunto che l’aumento della popolazione carceraria, a fronte di un calo complessivo dei delitti denunciati nell’utimo quinquennio, dipenda dall’aumento delle pene e dal ricorso alla custodia cautelare come misura preventiva prevalente (il 28,9% del totale) durante lo svolgimento dei processi. 

Per gli italiani la percentuale delle persone in custodia cautelare è del 23%, mentre per gli stranieri tale percentuale sale al 29%. Questa discrepanza si spiega col fatto che, mediamente, gli italiani hanno un accesso più facile a misure cautelari differenti come gli arresti domiciliari – con o senza braccialetto elettronico – in ragione della loro migliore condizione sociale in termini di capacità economica, presenza di nuclei familiari alle spalle, disponibilità di dimore adeguate, di opportunità di lavoro e così via.

La presenza di più stranieri nelle carceri è legata anche alla tipologia dei reati commessi. A livello generale, i reati più comuni tra i detenuti sono quelli contro il patrimonio (35.287), contro la persona (27.382) e quelli legati alle sostanze stupefacenti (21.131). Tuttavia, confrontando i dati tra stranieri e italiani, si nota che i reati contro il patrimonio sono più diffusi tra i detenuti stranieri: rappresentano il 26,7% del totale dei reati commessi da stranieri, rispetto al 22,8% degli italiani. Inoltre, le tre categorie menzionate sopra sono anche le più esposte al rischio di recidiva.

Le statistiche utilizzate da Antigone non permettono purtroppo di distinguere, all’interno della popolazione straniera, tra persone con regolare permesso di soggiorno e persone in condizione di soggiorno irregolare (che costituiscono almeno l’8% della popolazione straniera presente in Italia, corrispondente a circa 425.000 persone).

In passato, alcuni studi hanno riscontrato un nesso significativo tra l’irregolarità del soggiorno e il tasso di detenzione della popolazione straniera, suggerendo il carattere criminogeno della  condizione irregolare, connessa a sua volta a politiche migratorie restrittive. Gli autori e le autrici del rapporto si ricollegano implicitamente a queste riflessioni, quando affermano che “posizioni maggiormente regolari [in termini di permesso di soggiorno] portano [le persone straniere] a un ricorso inferiore al circuito criminale per garantirsi la sopravvivenza”.

Il rapporto discute, infine, le carenze sul fronte della mediazione linguistico-culturale e della formazione professionale per le persone detenute di origine straniera: si tratta di due fattori importanti per avviare un percorso di reinserimento che tenga conto delle specifiche esigenze e della posizione di svantaggio delle persone straniere.

Tali carenze sono particolarmente significative nel caso dei minori stranieri non accompagnati, moltissimi dei quali faticano a riprendere contatto con le loro famiglie di origine, vorrebbero accedere al lavoro al fine di ottenere un sostegno economico, ma spesso non riescono a fuoriuscire dai circuiti delittuosi (principalmente piccolo spaccio, furti e rapine).

Il diritto all’istruzione e alla formazione professionale

L’istruzione in carcere costituisce una risorsa vitale per promuovere il pieno recupero delle persone, promuovendone la crescita, la rieducazione, l’occupabilità e l’inclusione sociale.

Gli ultimi dati elaborati dal Ministero della Giustizia, pubblicati il 30 giugno 2024, mostrano che nell’anno scolastico 2023-2024 sono stati erogati in totale 1.711 corsi scolastici di primo e secondo livelllo, coinvolgendo 19.250 persone iscritte (di cui 8.965 stranieri) e che la percentuale dei detenuti iscritti che è riuscita ad ottenere la promozione si è attestata al 43,9%.

In riferimento agli stranieri, la maggior parte degli iscritti a corsi si concentra nel primo livello (7.410 detenuti). Tra questi 4.580 hanno partecipato a corsi di alfabetizzazione e apprendimento della lingua italiana, e 1.693 sono stati promossi, ovvero il 36,96% del totale degli studenti stranieri iscritti ai corsi appena citati.

Nonostante il numero di corsi e iscritti sia relativamente stabile nel biennio preso in considerazione, la performance complessiva è in calo.

Il rapporto registra, inoltre, una significativa diminuzione dei corsi erogati, passati da 1.760 nel 2022-2023 a 1.711 nel 2023-2024: a essere più toccati sono stati i corsi di secondo livello, diminuiti di 47 unità, mentre il numero dei corsi di primo livello è rimasto sostanzialmente invariato, in aumento di 2 unità. Per quanto riguarda, invece, i corsi di formazione professionale al 31 dicembre 2024 ne risultavano attivi 393: 85 in più rispetto al 2023.

Infine, nel 94,7% delle strutture monitorate da Antigone, sono presenti spazi dedicati esclusivamente alla scuola e alla formazione, mentre solo nel 4,2% tali spazi risultano assenti. Per quanto riguarda le biblioteche, il 55,9% degli istituti ne dispone e le utilizza anche come spazi comuni, come sale lettura o aule studio. Nel restante 43%, invece, la biblioteca è presente ma non viene adibita a uso collettivo.

Il diritto allo studio universitario

Le università possono svolgere un ruolo importante nell’accompagnare le persone private della libertà in un percorso di crescita, emancipazione e responsabilizzazione: lo studio può mitigare il peso della detenzione e aiutare a superare lo stigma del carcere, offrendo una via per ricostruire la propria identità e per progettare il futuro.

Per garantire l’accesso a studi di livello accademico, in molte regioni sono stati istituiti dei Poli universitari penitenziari (PUP), attraverso i quali gli atenei promotori si impegnano a garantire il diritto allo studio in carcere. Affinché possa costituirsi un PUP, sono necessari due elementi fondamentali: una struttura dedicata all’interno dell’ateneo e un’attività didattica continuativa e articolata all’interno di una o più sedi penitenziarie.

Il rapporto di Antigone registra con favore l’aumento delle persone iscritte all’università nel circuito penitenziario, con un incremento complessivo del 7,5% rispetto all’anno accademico 2023-2024. Disaggregando il dato, tuttavia, si nota un lieve calo delle donne iscritte, passate da 71 a 67, mentre aumentano le persone straniere, che passano da 177 a 189. Si tratta di numeri ancora molto piccoli, ma che indicano una strada con grandi potenzialità.

Sui 50 istituti penitenziari in cui sono presenti più di 10 iscritti a corsi universitari, tuttavia, solo 14 dispongono di “sezioni dedicate” per gli studenti, ovvero camere o reparti adeguati allo svolgimento dello studio e locali comuni. Di queste 14, 10 sono sezioni diurne e notturne, mentre 4 sono solo diurne, ossia il cui accesso è limitato alle sole ore di studio e attività.

Il diritto al lavoro in carcere

L’accesso al lavoro, garantendo alle persone in uscita dal carcere un’alternativa valida ai circuiti criminali, dovrebbe essere la delle priorità del sistema penitenziario. I dati raccolti da Antigone mostrano una realtà ancora molto lontana dall’attuare questa prospettiva.

Il lavoro in carcere continua a essere segnato da profonde contraddizioni e diseguaglianze. La scarsità di opportunità lavorative, la turnazione forzata e l’offerta di mansioni poco qualificanti, impediscono a molti detenuti non solo di acquisire competenze realmente utili per il reinserimento, ma anche di sostenere spese di base durante la detenzione a causa delle basse retribuzioni. 

Nei 95 istituti penitenziari visitati da Antigone nel 2024 solo 6 vedevano impiegate nei lavori connessi all’amministrazione carceraria più del 50% delle persone detenute; l’anno precedente gli istituti che superavano il 50% dei lavoranti erano 11. Inoltre, la distribuzione nazionale disomogenea delle risorse destinate alla retribuzione del lavoro in carcere acuisce ulteriormente il divario tra Nord e Sud. Infine, fattori come il genere influiscono sulle opportunità lavorative, facendo sì che le donne detenute siano impiegate prevalentemente in attività di lavanderia e sartoria.

Infine, la media di persone detenute che nel 2024 hanno lavorato per datori di lavoro esterni si è fermata al 4,8%, riportando un aumento evidente rispetto alla media del 3,2% rilevata per gli istituti visitati nel 2023. I numeri sono comunque estremamente bassi: solo in 6 istituti penitenziari in tutta Italia il dato relativo alle persone detenute impiegate all’esterno supera il 20%.

Una valutazione critica delle disposizioni approvate dal governo

Lo scorso 22 luglio il Consiglio dei Ministri ha approvato un insieme di misure in tema di carcere. Il Ministro della Giustizia le ha presentate come un insieme di provvedimenti finalizzati a umanizzare il sistema penitenziario.

La principale risposta del governo al sovraffollamento delle carceri consiste nella realizzazione di nuove strutture e nell’ampliamento di quelle esistenti. Attraverso ampliamenti delle strutture esistenti, dovrebbero essere creati 3.716 nuovi posti, mentre ristrutturazioni e manutenzioni consentirebbero il recupero complessivo di ulteriori 5.980 posti, per un totale di 9.696 posti aggiuntivi al termine del triennio.

Nel pacchetto rientrano anche altre disposizioni. Si intendono rendere al contempo più rigorose e rapide le procedure di valutazione sulla liberazione anticipata. Si incrementa il numero dei colloqui telefonici settimanali e mensili dei detenuti con i propri familiari, al fine di garantirne la prosecuzione dei rapporti personali. Si allargano le possibilità di riabilitazione esterne al carcere per i detenuti con dipendenza da stupefacenti o alcol.

Queste ultime norme, se approvate dal Parlamento, consentirebbero alle persone tossicodipendenti o alcoldipendenti con pena detentiva, anche residua, non superiore a otto anni o quattro anni a seconda dei reati commessi, di chiedere l’ammissione alla detenzione domiciliare presso una struttura autorizzata, sulla base di uno specifico programma terapeutico. 

L’associazione Antigone, in un’articolata presa di posizione, ha giudicato insufficienti, problematici e inefficaci molti di questi provvedimenti, segnalando la necessità di intervenire immediatamente con misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza caldo nelle carceri. 

Riguardo alle disposizioni relative alle persone detenute tossicodipendenti e alcoldipendenti, dopo aver ricordato che il nostro ordinamento già prevede la misura dell’affidamento in prova con un residuo di pena fino a sei anni, l’associazione ha dichiarato: “L’innalzamento della soglia di due anni, pur allargando la potenziale platea di coloro che potrebbero fruire del provvedimento, non migliorerà la situazione, sacrificando invece una misura più aperta come l’affidamento per una misura strettamente detentiva. La preclusione per i recidivi con pene superiori a due anni esclude inoltre molti potenziali beneficiari, essendo la tossicodipendenza spesso connessa alla ripetizione del reato”. Concludendo che “la depenalizzazione del consumo di droga è la sola strada per risolvere il problema”.

A fronte di un sistema che appare irriformabile, strutturalmente lontano dalla visione costituzionale della pena, vengono in mente le parole di Angela Davis, attivista e accademica statunitense, impegnata da anni in una lotta per l’abolizione delle carceri: “Le prigioni non eliminano i problemi sociali: eliminano gli esseri umani”.

Viviamo in una società che non riesce a immaginare altre pene se non quelle carcerarie e che, soprattutto, ha rinunciato a riformare il modello economico-sociale dalle sue ingiustizie, che ha smesso consapevolmente di agire sulle cause che spingono alla devianza: la crisi di senso e di futuro, la crescita delle diseguaglianze e delle povertà, compresa quella educativa, il blocco di ogni autentico ascensore sociale.

Eppure, dati come quelli diffusi da Antigone devono spingere la società civile a lavorare, con il sostegno delle università e degli enti del Terzo settore, alla costruzione di alternative all’attuale sistema carcerario.

Lucia Gatto è studentessa di storia presso il dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa. Attualmente è volontaria del Servizio Civile Universale presso il Centro Interdisciplinare di Scienze per la Pace.