sabato, Febbraio 22, 2025
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Scholars at Risk: la rete che protegge ricercatori e ricercatrici in pericolo

 

di Silvia Ferreira Barbosa

Scholars at Risk (SAR) è una rete internazionale fondata nel 1999 presso l’Università di Chicago per promuovere la libertà accademica e proteggere studiosi e studiose che, nel loro paese d’origine, sono in pericolo di vita o il cui lavoro è gravemente compromesso. Ricercatori, borsisti, accademici donne e uomini provenienti da Afghanistan, Russia, Ucraina, Iran, Yemen, Turchia, Siria e Palestina, in fuga da regimi autoritari, conflitti armati o persecuzioni possono continuare a svolgere le proprie attività in paesi sicuri, tra cui anche l’Italia.

La missione della rete SAR è quella di collaborare con le università e gli enti partner per istituire borse di studio temporanee per accademici che fanno richiesta di protezione, per valorizzare la ricerca e la formazione sui temi dei diritti umani, per promuovere una politica di accoglienza per ricercatori e studenti attraverso l’organizzazione di seminari, conferenze o corsi e la partecipazione a progetti, oltre a numerose altre iniziative a tutela della libertà personale e accademica. Il finanziamento delle borse è interamente a carico dell’università ospitante, sebbene la rete SAR sia impegnata a stabilire collaborazioni con enti finanziatori dei vari paesi o di livello internazionale.

SAR Italia si è costituita nel 2019 e conta oggi 27 membri tra atenei, istituti di ricerca e associazioni accademiche operanti sul territorio nazionale, tra cui l’Università di Pisa, che ha anche attivato il corso “Libertà accademica e diritti umani degli studiosi a rischio. Teoria, prassi e advocacy” presso il corso di laurea triennale in “Scienze per la Pace”.

 

La nascita della rete SAR in Italia, tra opportunità e difficoltà

Ester Gallo, professoressa all’Università di Trento, responsabile SAR per i rapporti con le istituzioni e tra le fondatrici di SAR Italy, in una recente intervista per il quotidiano Domani ha messo in evidenza come la rete sia nata per offrire reciprocità e supporto accademico. È stata la sua esperienza personale in Turchia ad averla ispirata: nel 2011 era stata assunta dall’università di Smirne ma, a seguito del tentato colpo di stato del 2016, è stata licenziata ed espulsa dal paese. Tornata in Italia, non è riuscita a dimenticare l’arresto di suoi colleghi e persino di studenti turchi, con cui aveva stretto rapporti durante il suo soggiorno nel paese. Per questo, in collaborazione con gli atenei di Padova, Trieste, Verona, ha dato vita al nucleo fondativo della rete SAR.

L’esperienza della professoressa Mara Matta, docente alla Sapienza di Roma e delegata della rete SAR, costituisce un altro caso emblematico della lotta per la libertà accademica. Nei giorni in cui le forze occidentali hanno abbandonato precipitosamente Kabul dopo quasi vent’anni di occupazione, mentre i Talebani riprendevano il controllo del paese, la professoressa Matta ha tenuto lezioni online a studentesse nascoste nella capitale. Grazie a SAR, circa 90 studiosi/e e studentesse afghane sono state evacuate e oggi studiano e lavorano in Italia: un successo tangibile dell’impegno della rete.

La docente, anch’essa intervistata dal quotidiano Domani, ha spiegato come non tutti gli studiosi e le studiose vengano percepiti “a rischio” allo stesso modo. È il caso di ricercatori cinesi o indiani che, provenendo da paesi non in guerra, sono generalmente considerati meno meritevoli di aiuto. Questo accade anche per evitare di compromettere collaborazioni internazionali: una visione spesso influenzata da accordi politici, che penalizza chi cerca protezione e proviene da nazioni non in guerra.

Un’altra difficoltà si riscontra nel riconoscimento dei titoli di studio e nella complessità nell’ottenere visti e permessi di soggiorno. L’attenzione delle istituzioni, così come le decisioni delle università, sono spesso influenzate dalle dinamiche geopolitiche e dal posizionamento dei rispettivi governi. Emblematico il caso della guerra in Ucraina, che ha contibuito a mettere in ombra le crisi e i conflitti armati in altre aree del mondo. Inoltre, le borse di studio sono spesso di breve durata, senza prospettive di inserimento a tempo indeterminato. Oggi l’Italia non dispone di una strategia sostenibile per l’inclusione scientifica di ricercatori e ricercatrici a rischio e, spesso, i fondi sono dirottati sulle emergenze a discapito di interventi strategici di lungo periodo.

Come ha denunciato, ancora una volta, la professoressa Mara Matta i muri della burocrazia e della politica possono essere pericolosi: “illudere una persona e poi levarle quella speranza è una crudeltà perché tu sai che la speranza è l’unica cosa che tiene quella persona viva oppure impedisce un atto di follia”. Il riferimento è alle procedure lunghe e complesse per l’uscita delle persone dal paese d’origine e l’accoglienza in Italia.

L’obiettivo della rete SAR è quello di creare un programma nazionale di borse triennali che faciliti l’ingresso dei ricercatori e delle ricercatrici “a rischio” nel mondo del lavoro. Tuttavia, servono maggiori fondi e i ministeri competenti, essenzialmente quello dell’università e della ricerca, quello degli esteri e quello degli interni, fanno fatica a dialogare: ne consegue, da una parte, la difficoltà di dare certezze a chi ha lasciato il proprio paese, e dall’altro la tendenza delle persone accolte tramite la rete SAR ad andare verso altri paesi più accoglienti, con inter burocratici meno tortuosi.

Come ha affermato Ester Gallo: “Ci vuole un po’ di onestà politica e anche intellettuale. Se l’Italia non è in grado di portare avanti un’inclusione scientifica sostenibile e seria, allora dovrebbe dire ai lavoratori e alle lavoratrici qualificate di farsi accogliere dalla Germania”.

 

Esperienze virtuose

I corridoi umanitari possono rappresentare una via concreta per rendere possibili esperienze di studio e ricerca in Italia, altrimenti precluse a chi ha deciso di lasciare il proprio paese. Jamila, proveniente da Kabul, è riuscita ad arrivare alla Sapienza di Roma come studentessa internazionale grazie a un corridoio umanitario, un’opportunità che le ha permesso di frequentare il dottorato di ricerca in “Asian Women Diaspora and Green Economy” coordinato dalla professoressa Matta. Nonostante le difficoltà iniziali, Jamila si è adattata al nuovo contesto, portando avanti con coraggio la sua battaglia per la libertà e la conoscenza. Le sue parole sono una fonte di ispirazione: “Sarebbe un regalo per i Talebani se noi donne, che abbiamo perso tutto, ci arrendessimo. Fuori dall’Afghanistan noi donne stiamo resistendo”.

Manar Abdalarazeq, ricercatrice in biotecnologie, lavora adesso all’istituto di Scienze dell’Alimentazione del CNR di Avellino. Prima di questa esperienza ha conseguito un dottorato in biotecnologie alla Università Federico II di Napoli e ha svolto ricerca al Frauenhofer Institut in Germania, dove le è stato assegnato il premio “Green Talent” per i suoi studi sulla bioplastica nel campo della sostenibilità ambientale.

Abdalarazeq ha raccontato a Domani la prima volta in cui ha varcato i confini della Palestina e ha compreso cosa significasse davvero una vita sicura, “normale”. Perché nella Palestina occupata, la “normalità” assume contorni spesso drammatici: a nove anni, lo sguardo si abitua a scene di aerei israeliani che bombardano dall’alto, carri armati che colpiscono infrastrutture civili e persone innocenti, raid dell’esercito che arrestano anche donne e minori.

In questo contesto di violenza costante, persino la scuola e un semplice supermercato diventano luoghi da evitare, per il rischio di ritrovarsi improvvisamente coinvolti in uno scontro a fuoco. Un viaggio breve, di appena 40 chilometri, come quello per raggiungere l’aeroporto di Gerico, può trasformarsi in un’odissea di sei ore, a causa dei continui checkpoint israeliani. Si vive una “normalità” fatta di paura, violenza e restrizioni, che Manar ha compreso appieno solo una volta giunta in Italia, dove camminare per la strada senza timore, fare la spesa senza ansia, lavorare in un contesto accademico dotato di risorse adeguate.

 

Silvia Ferreira Barbosa è studentessa del corso di laurea triennale in “Scienze per la pace” dell’Università di Pisa. Membro dell’associazione “Comunità Papa Giovanni XXIII”, attualmente svolge il proprio tirocinio presso il Centro Interdisciplinare Scienze per la Pace.