giovedì, Dicembre 26, 2024
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Tormente tropicali in Guatemala: le risposte delle comunità indigene

a cura di Peace Brigades International (PBI) – Progetto Guatemala

L’acqua ha sorpreso nel sonno le comunità delle zone rurali. Sono dovute fuggire lasciandosi dietro tutti i loro averi, vestiti, alimenti, animali. Intere comunità sono rimaste inondate e l’acqua non accenna a scendere. Ci sono comunità che continuano ad essere inaccessibili”. Con queste parole, la leader q’eqchi Lesbia Artola, coordinatrice del Comité Campesino del Altiplano CCDA-Las Verapaces, descrive la situazione nella zona rurale della regione di Alta Verapaz, nel nord del Guatemala, un mese dopo il passaggio dell’uragano Eta e della tormenta tropicale Iota. Questi fenomeni tropicali hanno pesantemente colpito il Centro America a inizio di novembre 2020, lasciandosi dietro 5 milioni di persone danneggiate, 2 milioni e mezzo delle quali in Guatemala. In questo paese si contano inoltre 60 persone morte e 100 disperse. Le zone più colpite sono state le regioni di Huehuetenango, Quiché, Alta Verapaz e Izabal, che sono anche le zone con una maggiore percentuale di popolazione maya. Solamente nella regione di Alta Verapaz, le organizzazioni CCDA-Las Verapaces e Unión Verapacense de Organizaciones Campesinas (UVOC) hanno registrato più di 280 comunità inondate e più di 34.000 famiglie che hanno subito danni.

Il modello “estrattivo” aggrava le conseguenze negative delle tormente tropicali

Erwin Garzona, sociologo specializzato in gestione dei rischi e studi sull’adattamento al cambio climatico, sostiene che il 76% della popolazione del Guatemala, corrispondente a 11 milioni di persone, è esposta a cicloni tropicali. La posizione geografica del Guatemala, situato in un istmo, e la sua topografia, rendono fortemente probabile che si verifichino fenomeni di eccesso o, al contrario, di mancanza di umidità, incrementati dal riscaldamento globale del pianeta provocato dalle attività umane. Per questo e per altri fattori, il Guatemala occupa il settimo posto nella classifica dei 194 paesi maggiormente esposti al rischio di disastri. Garzona è d’accordo con Gerardo Páiz, ingegnere ambientale e membro del collettivo ecologista guatemalteco Madreselva, quando afferma che la principale difesa del Guatemala dai rischi naturali consiste nel mantenere i suoi ecosistemi in buono stato. Ciononostante, secondo questi e altri esperti nella gestione dei rischi naturali, in Guatemala si assiste a una progressiva distruzione della natura causata da una politica economica centrata su industrie che provocano forti cambiamenti nell’uso del suolo e perdita della copertura forestale.

Garzona e Páiz segnalano che, anche se gli esperti si trovano sempre più d’accordo sul fatto che i boschi naturali costituiscono la principale difesa dall’eccesso o scarsezza di umidità, si calcola che nel 2020 solo il 34% del territorio guatemalteco fosse coperto da boschi. Paradossalmente, il significato originale della parola Guatemala è “luogo di molti alberi”: il riferimento è a com’era il paese prima della brutale deforestazione subita negli ultimi decenni, di cui oggi deve fronteggiare le conseguenze. Questa situazione è aggravata dall’esistenza di istituzioni deboli che non investono in prevenzione e mitigazione dei rischi, che non hanno sviluppato un’adeguata tipizzazione dei delitti ambientali per frenare gli abusi da parte degli attori privati e che non sembrano essere coscienti della necessità di ordinare il territorio in funzione della sua divisione naturale, che è la conca. A tutto questo si aggiunge la fortissima disuguaglianza sociale esistente, che obbliga la maggioranza della popolazione a vivere in luoghi ad alto rischio e a cambiare l’uso del suolo non agricolo per stabilire coltivazioni di sussistenza.

Non possiamo combattere contro la natura”, denuncia Lesbia Artola, “ma quelle che stiamo vivendo sono le conseguenze dell’espropriazione di terra che ha sofferto il nostro popolo, per le estensioni delle monocolture di palma africana, le deviazioni dei fiumi da parte delle idroelettriche, la distruzione di tutti i nostri beni naturali. In Alta Verapaz”, segnala la difensora dei diritti umani, “le ultime tormente sono state più disastrose dell’uragano Mitch, che si é lasciato dietro grandi disastri nel 1998”.

Dal Mitch sono passati più di 20 anni durante i quali sono aumentate le attività estrattive – in Alta Verapaz principalmente idroelettriche, monocolture di palma africana e deforestazione – che hanno provocato numerosi conflitti con le comunità Q’eqchí, Poqomchí e Achí che chiedono sia rispettato il loro diritto alla terra e a gestire, secondo la loro cosmovisione, i beni naturali dei territori dove vivono.

La difensora del territorio e leader q’eqchi María Josefina Caal Xol ha denunciato che, nel paese di Santa María Cahabón, le idroelettriche costruite sui fiumi Oxec e Cahabón hanno liberato l’eccesso di acqua durante le tormente allagando le comunità vicine. Per denunciare le conseguenze che il complesso idroelettrico OXEC ha sui diritti delle comunità Q’eqchí, suo fratello, Bernardo Caal Xol, leader della Resistenza Pacifica di Cahabón, è in carcere da più di mille giorni ed è stato dichiarato prigioniero politico da Amnesty International.

A poco più di 100 chilometri da Santa María Cahabón, Justino Ilom, leader della comunità La Primavera, nel paese di San Cristóbal Verapaz, ha perso la sua casa e il suo raccolto per le tormente. Grazie all’appoggio legale dell’UVOC, le famiglie Poqomchí della comunità La Primavera hanno ottenuto il titolo di proprietà della terra nel 2015, attraverso un accordo con la azienda di legname Filitz Díaz. Adesso, una parte di questa terra è rimasta sepolta sotto la frana che ha travolto per completo il vicino villaggio di Quejá, lasciando 50 morti e una comunità, dove prima vivevano 300 famiglie, dichiarata adesso cimitero. Da anni le famiglie della comunità La Primavera stanno denunciando il disboscamento illegale della zona. A causa di queste denunce, Justino Ilom è oggetto dal 2018 di un processo di criminalizzazione ed ha dovuto affrontare varie udienze nel tribunale di Cobán.

Ci sono due precedenti: due esempi di comunità che hanno subito le conseguenze delle recenti tormente tropicali e che dimostrano come in Guatemala, per difendere il territorio e protestare contro il modello economico che è alla base dei disastri chiamati naturali, si ricevano attacchi e persecuzioni. A causa degli attacchi, queste comunità ricevono da anni l’accompagnamento di Peace Brigades International. Anche l’organizzazione internazionale Global Witness, nel suo ultimo rapporto sulla situazione delle persone che difendono i diritti umani, colloca il Guatemala tra i 6 paesi più pericolosi al mondo per chi difende la terra e l’ambiente. E secondo i dati della Unidad de Defensores y Defensoras de Derechos Humanos de Guatemala (UDEFEGUA), 14 persone sono state assassinate tra gennaio e settembre 2020, la maggior parte di loro per difendere la natura.

Assenza dello stato e auto organizzazione delle comunità originarie contro i disastri

Davanti a questa situazione, la risposta dello stato guatemalteco si fa attendere. Le comunità denunciano che i fenomeni tropicali le hanno colte alla sprovvista perché, anche se l’Instituto Nacional de Sismología, Vulcanología, Meteorología e Hidrología (INSIVUMEH) aveva avvisato la Coordinadora Nacional para la Reducción de Desastres (CONRED), questa non ha allertato le comunità.

Oltretutto, le organizzazioni CCDA-Las Verapaces e UVOC denunciano che il governo non ha soccorso rapidamente le comunità, che continuano a essere senza alimenti. Sono le famiglie che non sono state colpite dai fenomeni tropicali, e le comunità delle altre regioni del paese, che stanno appoggiando le comunità attraverso la loro solidarietà. E sono le organizzazioni contadine e indigene che si sono mobilitate per assistere le persone colpite. Più di un mese dopo il passaggio di Eta e Iota continuano a mancare alimenti, vestiti, medicine, acqua potabile e attrezzi da lavoro agricolo per recuperare quel poco che è rimasto. “In Guatemala solo il popolo salva il popolo. Non è un caso che l’aiuto del governo non arrivi alle comunità: è un modo di castigarci per la nostra difesa della terra e dei beni naturali”, conclude Lesbia Artola. “Il governo è arrivato alle comunità solo per reprimere e criminalizzare”. Queste affermazioni sono ben fondate: UDEFEGUA ha registrato, solo nei primi 9 mesi del 2020, 287 casi di criminalizzazione contro persone che difendono i diritti umani in Guatemala.

Le organizzazioni stanno mettendo in guardia sulla crisi alimentaria che si avvicina. Le inondazioni dei terreni agricoli hanno causato la perdita del raccolto. Oltretutto, i contadini e le contadine stanno avvertendo della mancanza di cereali, perché ci vorranno anni per recuperare la fertilità della terra oggi coperta dal fango. La speculazione poi sta aumentando i prezzi dei prodotti alimentari, aggravando ancora di più le già di per se importanti perdite economiche che le famiglie hanno sofferto a causa delle misure decretate dal governo per frenare la diffusione del Covid-19. Molte famiglie, infatti, sono state costrette a indebitarsi per aver perso le entrate ottenute con la vendita dei loro prodotti agricoli nei mercati locali, chiusi durante i primi mesi del 2020. In una regione come Alta Verapaz, dove l’83% della popolazione vive in condizioni di povertà e il 56% di povertà estrema, questa situazione potrebbe produrre una crisi umanitaria particolarmente grave.

Le organizzazioni contadine e indigene si stanno organizzando per continuare a rispondere a questa situazione estremamente critica: “stiamo appoggiando le comunità nel loro sforzo di recuperare la produzione di alimenti attraverso gli orti familiari ecologici, recuperando semi locali e con coltivazioni associate e diversificate per rafforzare la sovranità alimentare”, spiega Sandra Calel, leader poqomchí parte dell’equipe di coordinazione dell’UVOC.

Siamo semi e continueremo a germogliare” è il messaggio delle comunità. Nonostante la situazione di dolore, il loro orizzonte continua ad essere la difesa del territorio nonostante uno stato che, da sempre, ha mostrato indifferenza se non ostilità alle popolazioni originarie. Da anni le comunità indigene e la società civile organizzata denunciano che i governi che hanno guidato il paese hanno mostrato una chiara mancanza di volontà politica di migliorare le loro condizioni di vita, cercando soluzioni condivise ai principali conflitti del paese. Esempi di questa mancanza di volontà, denunciata dalle organizzazioni sociali, sono le recenti chiusure della Comisión Presidencial de Derechos Humanos (COPREDEH), la Secretaría de la Paz (SEPAZ), la Secretaría Presidencial de la Mujer (SEPREM), il Programa Nacional de Resarcimiento (PNR) e la Secretaría de Asuntos Agrarios (SAA). Queste istituzioni erano state create dopo la firma degli Accordi di Pace per affrontare i problemi strutturali che hanno provocato il conflitto armato interno e sono state chiuse, anche se i problemi che ne hanno motivato la creazione continuano a essere irrisolti.

La lotta delle popolazioni originarie in difesa del territorio e dei beni naturali è la lotta per evitare che le conseguenze di fenomeni tropicali quali Eta e Iota siano disastrosi. È la lotta per contrastare gli effetti della crisi climatica. È, in definitiva, una lotta per la vita. Davanti alla situazione descritta, come segnala Sandra Calel, non resta altro che “continuare a tessere alleanze per difendere la natura, per difendere il pianeta, perché è la nave che abitiamo, e se continuiamo a distruggerla non soffriranno solamente il popolo Q’eqchí, il popolo Poqomchí o le popolazioni indigene del mondo, ma soffriremo tutti”.