ReArm Europe: domande critiche per il futuro dell’Europa
di Simone D’Alessandro
Il rilancio della politica di difesa comune da parte della Commissione Europea, con il Libro Bianco 2025 e il piano ReArm Europe – Readiness 2030, segna un passaggio cruciale per l’integrazione europea. L’ambizione dichiarata è quella di rafforzare la capacità produttiva militare dell’Unione, investendo fino a 800 miliardi di euro per migliorare l’autonomia strategica e la prontezza operativa in risposta a una crescente instabilità internazionale.
Questa riflessione nasce da un seminario promosso dal Centro Interdisciplinare Scienze per la Pace dell’Università di Pisa, ed è volutamente incentrata su una parte del dibattito, quella economico-sociale. Rimangono sullo sfondo, ma non meno rilevanti, le questioni etiche, giuridiche e geopolitiche sollevate dal progetto ReArm, che meritano a loro volta uno spazio autonomo di approfondimento critico. In questo senso, ciò che segue è un contributo parziale, che tuttavia cerca di evidenziare alcuni nodi strutturali del piano europeo dal punto di vista dell’efficacia economica, della coerenza interna e degli effetti distributivi attesi.
Un primo elemento che desta perplessità riguarda la narrazione secondo cui l’Unione Europea sarebbe “sotto-armata”. I dati comparati disponibili, come quelli del Global Firepower Index, mostrano che nel suo insieme l’UE possiede una potenza militare aggregata equiparabile a quella delle maggiori potenze globali. Tuttavia, la mancanza di integrazione e coordinamento produce inefficienza e sprechi: secondo il Rapporto Draghi, tra il 2022 e il 2023 circa il 78% della spesa militare europea è stato destinato a fornitori extra-UE, in gran parte statunitensi. Più che una questione di quantità, si tratta dunque di un problema di governance e di dipendenza strategica.
Il piano ReArm propone anche una giustificazione economica. Alcuni think tank stimano che un aumento della spesa militare al 3.5% del PIL europeo potrebbe generare una crescita economica compresa tra lo 0.9% e l’1.5% annuo (si veda il Kiel Report). Tuttavia, la stessa Commissione Europea, in uno studio pubblicato nel 2024, riconosce l’assenza di una prova empirica chiara di relazione causale tra spesa militare e crescita. I risultati della letteratura economica internazionale sono fragili, spesso contraddittori, e solo raramente positivi. Inoltre, affinché si producano effetti espansivi, è necessario che la produzione sia interna: cosa che oggi, in Europa, accade solo parzialmente.
A questo si aggiunge il tema del moltiplicatore economico. Secondo uno studio recente basato su analisi input-output per Italia, Germania e Spagna, un miliardo speso in sanità genera quattro volte più occupazione di un miliardo speso in armamenti. La differenza non è solo quantitativa, ma qualitativa: investire in settori ad alta intensità di lavoro e ad alto contenuto sociale (salute, istruzione, ambiente) ha effetti più diffusi e inclusivi rispetto a comparti altamente tecnologici ma a bassa intensità occupazionale come quello militare.
Inoltre, in un contesto di vincoli di bilancio e rigidità delle regole fiscali, l’espansione della spesa per la difesa rischia di spiazzare altri investimenti pubblici fondamentali. È il fenomeno noto come crowding out: risorse indirizzate verso il comparto militare potrebbero sottrarre spazio fiscale alla transizione ecologica, alla coesione sociale e ai servizi pubblici. In questo senso, il piano ReArm rischia di replicare, su scala europea, una dinamica simile alla cosiddetta resource curse, ovvero la maledizione delle economie che concentrano gli investimenti su un settore strategico ma scarsamente redistributivo e cruciale per lo sviluppo sociale del continente, perdendo in resilienza e diversificazione.
Il problema non è solo economico, ma anche istituzionale. Senza una riforma della governance e un rafforzamento degli strumenti comuni di procurement, l’Europa continuerà a spendere di più senza ottenere maggiore sicurezza. In altre parole, aumentare la spesa senza aumentare l’integrazione rischia di rafforzare le debolezze anziché superarle. La difesa europea richiede una visione politica condivisa, oltre a una strategia industriale ben prima di pensare a un aumento della spesa militare.
A questo quadro va aggiunta una considerazione più ampia, che riguarda la natura stessa della sicurezza. Il Libro Bianco propone un approccio incentrato quasi esclusivamente sulla dimensione militare, trascurando le componenti sociali, sanitarie, ambientali e democratiche che compongono la sicurezza in senso moderno. Eppure, secondo gli ultimi dati Eurostat, la condizione sociale dei cittadini europei sta peggiorando: aumentano le disuguaglianze, il rischio di povertà, la deprivazione materiale. Ignorare questi fattori significa costruire una sicurezza formale, ma fragile.
Infine, c’è un patrimonio europeo che rischia di essere messo in secondo piano: il soft power. L’Unione Europea ha costruito la sua legittimità internazionale su cooperazione, diplomazia, multilateralismo, promozione dei diritti. Questo modello è oggi messo alla prova da un contesto globale più aggressivo, ma resta una delle poche alternative credibili alla logica dei blocchi. Rafforzare la difesa europea, se necessario, non può significare rinunciare alla propria vocazione originaria. Il Manifesto di Ventotene, spesso richiamata nel dibattito contemporaneo, indicava nell’“Europa libera e unita” non solo un orizzonte istituzionale, ma anche un progetto di pace e giustizia sociale. Oggi, di fronte a un’iniziativa come ReArm Europe, è legittimo chiedersi se si stia rafforzando la sicurezza dell’Unione, o se stiamo rischiando di smarrirne la visione politica originale.
Simone D’Alessandro è Professore ordinario in Economia Politica al Dipartimento di Economia e Management dell’Università di Pisa. Membro del CISP, è Coordinatore del Dottorato di ricerca in Economia delle Università toscane.