martedì, Dicembre 24, 2024
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Quando l’untore è Homo sapiens

L’origine del COVID-19 e la sua trasmissione agli esseri umani hanno finora monopolizzato l’attenzione degli studiosi. Ancora scarsa, invece, è l’attenzione rivolta ai meccanismi di trasmissione virale e ai suoi effetti sulla fauna selvatica. Su quest’ultimo aspetto cerca di far luce Laura Scillitani in questo articolo pubblicato su Scienza in rete. L’autrice approfondisce in particolare il tema dell’antropozoonosi o zoonosiinversa, termine tecnico con cui si indica la trasmissione di malattie dall’uomo agli altri animali. Per via del suo patrimonio filogenetico, l’uomo è accumunato alla categoria delle grandi scimmie (scimpanzé, bonobo, due specie di gorilla e tre di orango), con cui condivide un elevato numero di malattie. Già in passato, nel caso dell’ebola e del morbillo, si sono verificati passaggi di elementi patogeni dall’uomo agli scimpanzé. Ciò testimonia quanto importante sia approfondire le patologie emergenti, non solo per l’uomo, ma anche per le specie selvatiche già compromesse dal pericolo dell’estinzione e dalla modifica del loro habitat naturale.

 

di Laura Scillitani

 

SARS-CoV-2, il coronavirus responsabile dell’attuale pandemia, potrebbe rappresentare una grave minaccia per i nostri più prossimi “parenti”: le scimmie antropomorfe. A dichiararlo, in una lettera pubblicata su Nature, sono Thomas Gillespie, primatologo e professore presso il Global Health Institute dell’Emory College di Atlanta, e Fabian Leendertz, dell’istituto Robert Kock di Berlino, che si occupa di ecologia degli agenti patogeni e di zoonosi.

I due ricercatori fanno appello per una chiusura delle attività turistiche e una drastica riduzione della ricerca sul campo in tutte le aree in cui sono distribuite le grandi scimmie. Raccomandazione che è stata subito colta dal Virunga National Park, in Congo, che ha dichiarato la sospensione delle visite turistiche fino a data da destinarsi. A seguire anche l’Agenzia Nazionale dei Parchi del Gabon e dei parchi Nazionali in Ruanda e Uganda, hanno adottato le restrizioni. Una scelta non facile considerato che il “gorilla watching” rappresenta una importante risorsa economica, ma obbligata: se COVID-19 contagiasse i pochi gorilla rimasti, gli effetti potrebbero essere devastanti.

 

Parenti stretti

Le grandi scimmie antropomorfe (scimpanzè, bonobo, due specie di gorilla e tre di orango) appartengono alla famiglia di primati Hominidae, che include anche gli umani. La popolazione di Homo sapiens, si sa, è in crescita esponenziale, mentre tutte le altre specie sono minacciate. In particolare, secondo la lista rossa della IUCN, i gorilla e gli oranghi sono in pericolo critico, ovvero occupano il gradino immediatamente precedente all’estinzione in natura. In virtù della vicinanza filogenetica, tutte queste grandi scimmie condividono un elevato numero di malattie con l’uomo.

La diffusione dell’HIV a partire dal virus dell’immunodeficienza delle scimmie e le epidemie di ebola sono fenomeni tristemente noti. Meno noto è l’effetto devastante dell’ebola sui primati: ad esempio la mortalità dovuta al virus nelle popolazioni di gorilla è dell’80%. Ancora meno noto è che, proprio per lo stretto grado di parentela, Homo sapiens può contagiare questi animali.

 

Quando la scimmia nuda è il reservoir

Nel parco nazionale di Taï, in Costa d’Avorio, tra il 1999 e il 2005, si sono verificati cinque distinti focolai epidemici tra gli scimpanzè. In tutti i casi gli animali erano affetti da tosse, affanno, difficoltà respiratorie, astenia, isolamento. In tre di questi episodi epidemici, la mortalità osservata fu di circa il 20% e in molti casi fu necessario un trattamento medicinale per guarire le scimmie infette. Le successive analisi consentirono ai ricercatori di isolare gli agenti patogeni responsabili delle epidemie: si trattava di due virus che infettano l’uomo: il virus respiratorio sinciziale, HRSV, e il metapneumovirus, HPMV (in entrambi i casi la H del nome indica infatti Human). Si era verificato uno spillover, dall’uomo agli scimpanzè. All’infezione virale si sommarono, in alcuni casi, infezioni polmonari di origine batterica, con esito mortale.

Non si tratta però di casi isolati, né rari. Nel 1988, nel parco nazionale di Virunga, i gorilla di montagna contrassero il morbillo, malattia altamente contagiosa e diffusa nelle popolazioni umane. L’81% degli animali si ammalò, sei femmine morirono. Gli altri furono salvati grazie all’intervento dei veterinari che inocularono il vaccino e trattamenti. Nel 1990 fu il turno di una broncopolmonite: in un branco formato da 35 gorilla se ne ammalarono 26, la malattia fu fermata dall’iniezione a distanza di penicillina, ma per due gorilla non ci fu nulla da fare. Diversi altri studi documentano episodi di trasmissione dalle persone ai gorilla di enteropatogeni (il protozoo Giardia duodenalis o batteri del genere SalmonellaCampylobacter e Shigella), e dei batteri spirochete Treponema pertenue, agenti eziologici della Framboesia.

Tecnicamente la trasmissione di malattie dall’uomo agli altri animali sono definite antropozoonosi o zoonosi inverse. L’uomo funge da reservoir di agenti patogeni, che in molti casi non sono particolarmente pericolosi per le persone, come i Rhinovirus umani, o il Betacoronavirus umano (β-CoV), responsabili dei comuni raffreddori e influenze che per le scimmie sono molto contagiosi e danno luogo a complicanze.

Sia i gorilla che gli scimpanzè sono specie sociali e formano gruppi più o meno numerosi (ma in genere formati da una quarantina di animali al massimo), in cui gli individui interagiscono tra di loro costantemente. Le popolazioni di questi primati sono piccole e frammentate, a causa del disboscamento che sottrae gli habitat forestali da cui dipende la loro esistenza. Quando le popolazioni sono piccole e isolate, eventi stocastici, come il diffondersi di una malattia, possono causare la scomparsa di interi gruppi e portare all’estinzione la popolazione. Come abbiamo visto, in molti casi i ricercatori sono riusciti a intervenire con delle cure, ma non sempre è fattibile, e non sempre esiste una cura. Immaginiamo cosa potrebbe succedere se COVID-19 infettasse i gorilla e gli scimpanzè con la stessa virulenza e tasso di trasmissione che ha con l’uomo. Probabilmente non avremmo più popolazioni selvatiche da conservare.

 

L’altra faccia della medaglia

«Negli anni Sessanta e Settanta, Jane Goodall e Dian Fossey rivoluzionarono gli studi e le conoscenze sulle scimmie antropomorfe, inaugurando gli studi etologici di lungo termine sul campo. Le fotografie dell’epoca le mostrano spesso mentre sono molto vicine, toccano o addirittura abbracciano le scimmie. All’epoca non si sapeva assolutamente che ci potesse essere una trasmissione di patogeni. Furono proprio Goodall e Fossey a rendersene conto», spiega Noemi Spagnoletti, primatologa e socia dell’Associazione primatologi italiani.

Nel suo libro “L’ombra dell’uomo”, Goodall descrive infatti gli effetti letali di un’epidemia di poliomelite che contagiò gli scimpanzè nel 1967. Scoprì che l’epidemia si era diffusa a partire da un villaggio situato ai confini del parco di Gombe, in una valle che era visitata molto spesso dagli scimpanzè. «Di conseguenza furono stilati i primi regolamenti per fare ricerca sul campo senza mettere in pericolo gli animali», continua Spagnoletti. «Le misure precauzionali sono adottate in tutti i posti in cui si fa ricerca sui primati. Ad esempio, un operatore non può andare in foresta se ha anche un minimo sintomo di raffreddore. Ricordo quando, nel 2003, arrivai in Africa per la prima volta per studiare i gorilla di pianura, dovevamo rispettare la distanza minima di almeno 8 metri dagli animali. Chiaro che se sono loro che si avvicinano non sempre è facilissimo rispettarla nell’intrigo della foresta, però in ogni caso non è mai consentito toccare gli animali».

Tali misure sono attualmente riportate in linee guida stilate dalla IUCN, che valgono anche per le attività turistiche. Attività come il “gorilla watching” sono state implementate già a partire dagli anni Ottanta. Come spiega Spagnoletti, perché si possa fare questo tipo di turismo, è necessario un processo di graduale abituazione delle scimmie alla presenza delle persone. Lo scopo del gorilla watching è quello di promuovere la conservazione delle scimmie antropomorfe: generando un profitto basato su un’attività non consuntiva della popolazione e creando posti di lavoro, si promuove il supporto del pubblico e dei governi alle attività di conservazione, e si contrasta il bracconaggio. Per il mantenimento del business legato alle attività turistiche molte risorse vengono infatti impiegate nelle attività di sorveglianza.

Proteggere i gorilla diventa un interesse di molti. Un safari costa dai 400 dollari a persona in su, a seconda della durata e del sito. Anche i turisti vengono preparati dalle guide alle norme da rispettare. Eppure, diversi studi, tra cui uno appena pubblicato su Frontiers in Public Health, dimostrano che nel 98% dei casi i turisti non rispettano la distanza di 7 metri dai gorilla, e nel 40% dei casi sono proprio i turisti ad avvicinarsi, per scattare fotografie. Nel 96% dei casi la guida spiega che è necessario mantenere la distanza di sicurezza, anche se molto spesso omette la problematica sanitaria connessa al non rispetto delle regole. Eppure, il 16% dei turisti afferma di non essere consapevole della necessità di mantenere le distanze dai gorilla.

Diversi sondaggi rivelano che la maggior parte dei turisti non ha una copertura vaccinale adeguata, né viene loro richiesta al momento della prenotazione del safari. Un sondaggio somministrato ai visitatori del Sepilok Orangutan Rehabilitation Centre in Borneo indica che molti turisti sottovalutano i rischi sanitari, spesso sono convinti di avere una copertura vaccinale, ma in realtà non è così. La maggior parte non ha alcuna copertura per varicella, morbillo e influenza. Inoltre, malgrado il divieto di avvicinarsi alle scimmie, molti approfittano della visita per scattare selfie da pubblicare sui social network.

Ovviamente non sono solo i turisti che possono trasmettere i patogeni alle scimmie antropomorfe, ma tutti gli utenti della foresta, inclusi ad esempio operai forestali o cacciatori di frodo. Le grandi scimmie antropomorfe vivono in Paesi caratterizzati da instabilità politiche, che ovviamente hanno un effetto a catena anche sulla biodiversità. Ma è certo che, considerati gli indotti del turismo, la massima attenzione va tenuta per evitare che i risvolti negativi prevalgano su quelli positivi.

 

Non solo scimmie antropomorfe

Per l’ecologia, le malattie sono uno dei meccanismi di regolazione delle popolazioni, come ad esempio anche la predazione o la competizione. Dal punto di vista della dinamica di popolazione non conta solo la mortalità, ma gli effetti subletali giocano un ruolo importante, perché vanno a influire su quella che i biologi chiamano fitness, ovvero il contributo genetico che un individuo può dare alla generazione successiva. Un individuo può non morire di malattia, ma essere debilitato da essa e quindi non riuscire a riprodursi, o essere più facilmente predato o ancora essere più suscettibile a eventi climatici estremi.

Inoltre, anche in questo caso entra in gioco l’azione umana. Le trasformazioni antropiche degli habitat possono infatti alterare il tasso di trasmissione, la virulenza, il range distributivo di ospiti e patogeni, e la suscettibilità alla malattia. Come abbiamo già descritto su Scienza in rete, ad esempio, la conversione delle foreste tropicali in campi coltivati facilita il proliferare delle zanzare e la diffusione dei patogeni di cui questi insetti sono vettore.

Non solo gli esseri umani però risentono del contagio. «Nel 2009, mentre collaboravo con l’università di San Paolo, in Brasile, ci fu un’epidemia di febbre gialla che colpì lo stato Rio Grande do Sul. In quegli anni ci furono moltissimi morti dovuti alla febbre gialla. Ma dentro i boschi a ridosso delle città e villaggi, in contemporanea, morivano le Alouatta guariba, o scimmie urlatrici, a centinaia. Ricordo che una collega che le studiava mi disse che intere aree delle foreste erano diventate improvvisamente silenziose», ricorda Spagnoletti. «Le persone pensarono che fossero le scimmie le responsabili della trasmissione della malattia, e quindi c’era chi dava loro la caccia per ucciderle. Le ricerche rivelarono però che le Aluatta morivano perché erano le prime a essere contagiate. In realtà agivano come sentinelle: il ritrovamento di scimmie morte indicava cioè lo scoppio di un outbreak di febbre gialla, e poteva essere usato per prendere per tempo dei provvedimenti. Questo ci insegna che conoscere è molto importante, ci aiuta a capire i segnali che a volte la natura ci manda».

Non si deve inoltre dimenticare che gli effetti dell’uomo sulla salute dei selvatici può essere mediata dalla presenza di animali domestici: ad esempio, nel 1991, nel Serengeti si estinsero i licaoni, grossi canidi africani in costante declino numerico dagli anni Sessanta. La causa fu un’epidemia di cimurro portata dai cani. Molte sono le malattie che il bestiame trasmette ai selvatici, come la cheratocongiuntivite infettiva che può colpire i camosci e gli stambecchi, a partire dagli ovini domestici, reservoir di infezione. La lista può andare avanti ancora a lungo. Quello che è chiaro è che per capire a fondo le dinamiche delle malattie è necessario evitare la chiusura in compartimenti stagni delle discipline, ma è necessario integrare le informazioni su stato della biosfera e malattie umane.

COVID-19 e le altre zoonosi ci ricordano che alterare gli equilibri può avere effetti distruttivi sull’essere umano stesso. In questa visione, occorre un approccio multidisciplinare, e una sorveglianza delle patologie emergenti non solo per l’uomo ma anche per le specie selvatiche.

 

FonteScienza in rete, 2 aprile 2020.