domenica, Dicembre 22, 2024
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Non c’è proprio da cambiare niente del nostro sistema di vita?

Pubblichiamo una riflessione di don Roberto Filippini, vescovo di Pescia, in risposta a un editoriale di Pierluigi Battista, apparso il 3 aprile scorso sul Corriere della Sera. La questione centrale, intorno a cui si accende il confronto, riguarda le cause della pandemia in corso e le sue implicazioni più profonde, rispetto alla sostenibilità del nostro sistema di vita e alla necessità di ripensarlo, a partire dalle azioni di solidarietà sollecitate dalla crisi. Il contributo di don Roberto Filippini ha sollecitato anche Giorgio Gallo, membro fondatore del Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace”, a partecipare al dibattito. Nel suo articolo, Gallo richiama l’attenzione su alcune criticità di fondo del nostro sistema socio-economico – perdita di biodiversità, inquinamento atmosferico, disinvestimento dalla sanità pubblica, diseguaglianze sociali e “razziali”, allungamento della catena globale del valore – che la crisi ha messo in luce e che non possiamo continuare a ignorare.

di don Roberto Filippini

L’editoriale di Pierluigi Battista “Che errore dire: è colpa nostra”, pubblicato sul Corriere della Sera il 3 aprile scorso, ha indubbiamente il merito di esprimere, senza mezzi termini, la posizione di molti che considerano l’emergenza Coronavirus come un disastro più o meno naturale, frutto di fattori casuali, che come è venuto se ne andrà. Un fenomeno, dunque, su cui non merita riflettere più di tanto, alla ricerca di qualche responsabilità nel sistema globale di vita che abbiamo assunto. Chi ha questa posizione ritene di solito che il nostro modo di vivere vada sostanzialmente conservato così com’è. Al massimo, pensa a qualche miglioramento nel suo funzionamento che, però, non ne intacchi l’assetto fondamentale.

L’intervento di Battista contiene anche altre considerazioni, cui mi sento di rispondere con alcune brevi osservazioni.

Innanzitutto, posso senz’altro condividere l’idea che l’epidemia da covid-19 non sia un castigo divino. Da credente e da cristiano, non riesco a pensare a un Dio iroso e vendicativo, che manda schiere di virus incoronati a ristabilire la giustizia nel suo creato messo sottosopra dalle sconsiderate azioni umane.

Può essere (ma di questo sono meno convinto) che l’attuale crisi sanitaria e sociale mondiale non sia l’effetto diretto delle nostre scelte o delle nostre omissioni in rapporto al pianeta. Né dobbiamo pensarla come la nemesi di una natura in rivolta. Facciamo però attenzione ad evitare una tranquilla, quanto superficiale assoluzione generale, che ci permetta di uscire dall’arca di Noè dopo la quarantena, per tornare a fare tutto come prima, come se niente fosse accaduto. Come se migliaia di morti, milioni di contagiati e sofferenti, miliardi di persone esposte agli effetti economico-sociali (ancora difficilmente calcolabili) della pandemia, fossero le vittime di un fatale uragano primaverile, di cui scordarci presto. Per tornare a considerare la nostra moderna società occidentale – capitalista, neoliberista, tecno-scientifica – come la migliore delle civiltà che la storia umana ha conosciuto e potrà conoscere in futuro.

Certo, sono d’accordo: possiamo e dobbiamo essere orgogliosi degli importanti traguardi raggiunti in tanti settori della conoscenza, della società e della politica, così come di tante meravigliose conquiste della scienza e della tecnologia, frutto dell’ingegno dell’homo sapiens e della sua intraprendenza. Non vorrei affatto tornare indietro nel tempo, rinunciando a molti diritti, libertà e opportunità faticosamente conquistati.

Ma siamo sicuri che non ci sia niente da ripensare e rettificare, niente da cui prendere le distanze, niente da cui convertirci? E che non ci siano aspetti del vivere umano, spesso silenziati o marginalizzati, che vadano al contrario riscoperti e promossi, da qui in avanti, e proposti come altrettanti ideali e mete a cui tendere? Gesù, di fronte al cieco nato, risponde ai suoi discepoli che gli chiedono chi ha peccato: “né lui, né i suoi genitori ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio” (Gv 9,1). Non si tratta dunque di colpevolizzarci, ma di riflettere e scegliere modi di vivere più sostenibili, imparando dalla crisi in corso le lezioni giuste.

La situazione che l’umanità sta vivendo in questi mesi è stata più volte definita apocalittica. E in un certo senso lo è davvero, se si richiama il significato letterale del termine Apocalisse: siamo in una situazione rivelatrice. Tanti nostri mali, tante nostre contraddizioni vengono messe in piena luce dall’epidemia. Tante piaghe, a cui ci si era adattati, ora danno maggior dolore. Tante storture, in queste peggiorate condizioni, diventano più difficilmente sopportabili.

Penso al consumismo insensato, che ci ha reso incapaci di distinguere l’essenziale dal superfluo, dall’inutile, dal dannoso. Penso alle disuguaglianze sociali, che emergono ora più chiaramente nelle differenze tra chi ha un reddito garantito e chi ne è privo, tra chi può lavorare da casa e chi è costretto a guadagnarsi da vivere mettendo a rischio la propria salute, tra chi aspetta che finisca la quarantena per riprendere le proprie attività e chi vive nell’invisibilità di un lavoro irregolare o, come gli stranieri senza permesso di soggiorno, può sperare di essere “regolarizzato” solo a condizione che sia “utile” alla nostra agricoltura. Penso all’indifferenza verso l’inquinamento e verso i cambiamenti climatici, di cui adesso iniziamo a comprendere i nessi con la propagazione del virus. Penso, infine, all’assolutizzazione del sistema economico-finanziario fondato sul mercato, alle cui regole intere popolazioni devono sottostare, spesso rinunciando ai propri diritti fondamentali.

L’apocalisse-rivelazione del Coronavirus manifesta, però, anche elementi positivi insospettabili, spesso trascurati. Si è a volte sostenuto che il motore ultimo del sistema economico-politico e sociale sia l’egoismo, che l’avidità, la sete di potere, la competizione siano, alla fine, la principale motivazione dell’agire umano: homo homini lupus. In queste settimane, invece, è emersa una straordinaria energia sociale guidata dalla solidarietà, dalla coscienza di condividere una medesima vulnerabilità e dalla necessità di farvi fronte collettivamente.

In tanti luoghi è risorto, come un sole splendente, l’amore per l’altro, senza interesse e calcolo, senza ritorno e vantaggio. L’amore che si esprime nella logica sublime del dono, che ha contraddistinto il sacrificio di tante e tanti, fino al dono della stessa vita nella speranza di salvare la vita degli altri.

Si è sperimentato concretamente che la tecnologia può e deve avere un senso e un uso orientato a garantire la vita di tutte e tutti. E che la scienza può guidare la politica e gli stessi cittadini nel compiere le scelte giuste, avendo di mira il benessere collettivo.

Si è riacceso un dibattito sul rinnovamento della democrazia, delle istituzioni, delle relazioni tra gli stati e le nazioni, che spinge a superare la logica della competizione e dell’autosufficienza, per valorizzare la cooperazione e la condivisione.

Sono convinto che la crisi in corso sia l’occasione per riflettere, con analisi e strumenti scientifici adeguati, con un approccio etico-filosofico e una visione sociopolitica orientata alla giustizia, sul nostro sistema di vita. Serve un confronto ampio e interdisciplinare, se vogliamo intraprendere nuove vie per la vita umana sul nostro pianeta.