domenica, Maggio 25, 2025
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Una nuova “zona cuscinetto” circonda Gaza: testimonianze dei soldati israeliani

 

di Elisa Veltre

Tra le voci che cercano di raccontare “dall’interno” la guerra di sterminio che, da più di un anno e mezzo, colpisce la Striscia di Gaza, c’è anche quella dei soldati israeliani che denunciano le azioni compiute in servizio. A raccogliere queste voci significative, ma assai poco note in Occidente, è Breaking the Silence: un’associazione fondata nel 2004 da veterani dell’Israeli Defence Force (IDF) con l’obiettivo di alimentare il dibattito critico sull’occupazione militare del Territorio palestinese, denunciandone le violazioni del diritto internazionale e le conseguenze umanitarie sulla popolazione civile.

Sostenuta da enti internazionali e donazioni private, l’organizzazione si occupa di diffondere le testimonianze di soldati che hanno servito in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, dando voce a coloro che decidono di rompere il silenzio e far comprendere le logiche che muovono la macchina da guerra israeliana. Tutte le testimonianze pubblicate da Breaking the Silence vengono raccolte nel corso di interviste anonime, successivamente verificate attraverso un rigoroso processo redazionale basato sull’incrocio delle fonti.

L’ultimo rapporto pubblicato dall’associazione si intitola The Perimeter e fa luce sulla nuova zona cuscinetto (buffer zone) che l’esercito israeliano sta costruendo tutto intorno alla Striscia di Gaza. La creazione di “zone cuscinetto” è un pilastro della strategia israeliana da decenni: il nuovo “perimetro” che circonda Gaza non fa che replicare e ampliare questa strategia che – si legge nel rapporto – “si è già dimostrata fallimentare proprio con gli attacchi del 7 ottobre”.

Prima delle operazioni militari in corso, la zona cuscinetto tra Israele e la Striscia di Gaza si estendeva per circa 300 metri all’interno del territorio palestinese. L’ampiezza del nuovo perimetro è decisamente maggiore: va dagli 800 ai 1500 metri. Per creare quest’area, l’IDF ha rimodellato in profondità circa il 16% del territorio di Gaza (corrispondente a circa 55-58 km²), distruggendo quasi del tutto una zona che in precedenza ospitava il 35% delle terre agricole della Striscia.

Dalle testimonianze dei soldati emerge che la missione affidata loro è stata quella di realizzare uno spazio vuoto e completamente pianeggiante, largo circa un chilometro, lungo il lato palestinese del precedente confine. Quest’area non doveva presentare né coltivazioni, né infrastrutture, né persone. A questo scopo quasi ogni edificio all’interno del perimetro è stato demolito e ai palestinesi è stato vietato del tutto l’accesso alla zona: un divieto fatto rispettare con l’uso di mitragliatrici e colpi di carro armato.

L’obiettivo militare dichiarato della nuova zona cuscinetto è quello di creare un’area che garantisca una visuale libera e, di conseguenza, una linea di fuoco chiara contro qualsiasi elemento che l’esercito identifichi come una “potenziale minaccia”. Come si legge nel rapporto, “si tratta di esercitare un controllo militare assoluto sul quel territorio”. Tuttavia, le intenzioni sembrano anche essere altre. Un ufficiale intervistato ha affermato: “Non si è trattato solo di sicurezza. Dovevamo lasciare il segno, mostrare che di quella zona non sarebbe rimasto nulla”.

Le testimonianze dei militari israeliani mostrano come la realizzazione di questa zona abbia comportato una sistematica distruzione di abitazioni, infrastrutture civili, terreni coltivati, scuole, moschee e persino cimiteri. Queste le parole di un sergente a riguardo: “Ogni giorno ci davano una lista di edifici da radere al suolo, cinque, dieci, anche cinquanta in una settimana. Era diventato un lavoro quotidiano”.

Il rapporto raccoglie decine di testimonianze di soldati e ufficiali che hanno partecipato a queste operazioni: personale militare che, pur eseguendo gli ordini ricevuti, ha maturato la consapevolezza di stare infrangendo norme giuridiche e regole morali.

Un sergente ha raccontato di aver ricevuto l’ordine di abbattere “tutto ciò che si trovava entro il chilometro dalla barriera”, senza distinguere tra obiettivi militari e civili. Un ufficiale della brigata corazzata ha spiegato che i soldati ricevevano precise indicazioni con “una mappa a colori con zone da spianare: verde significava che l’80% delle costruzioni doveva essere raso al suolo”. Un altro militare ha aggiunto: “Era come un lavoro a turni. Al mattino ti svegliavi, caricavi gli esplosivi e demolivi le case indicate”. Altri raccontano di aver dovuto abbattere case, serre, allevamenti, fabbriche, persino impianti di trattamento dell’acqua.

Uno dei testimoni paragona a Hiroshima lo scenario di queste zone dopo il passaggio dell’esercito, sottolineando l’estrema desolazione del territorio. In alcune aree è stata demolita la totalità degli edifici presenti, indipendentemente dalla loro funzione o dall’effettiva presenza di minacce. In altre, la demolizione è avvenuta anche giorni dopo l’occupazione, quando non vi erano più minacce concrete, se mai ve ne sono state.

L’esercito israeliano ha impiegato risorse enormi in questa operazione, tra cui bulldozer su larga scala, migliaia di mine ed esplosivi. Le testimonianze rivelano uso indiscriminato delle armi anche contro civili, basato su regole poco chiare o del tutto inesistenti: l’area del “perimetro” viene descritta come una “zona di morte” (death zone), in cui ogni presenza umana è considerata sospetta e potenzialmente a rischio letale.

In molti casi i soldati alludono a una giustificazione di queste azioni dettata dalla vendetta: nei loro racconti, interi quartieri sono stati rasi al suolo perché abitati da individui presentati come colpevoli degli attacchi del 7 ottobre. I quadri dirigenti dell’IDF hanno sfruttato il senso di rabbia e frustrazione seguito a quella tragica giornata: la distruzione diventa così una forma di risposta emotiva, non solo tattica, al lutto e all’umiliazione subita.

Breaking the Silence non si limita a raccogliere testimonianze: l’associazione pone domande urgenti sulle implicazioni etiche, giuridiche e politiche di operazioni come quella condotta nella nuova zona cuscinetto che circonda la Striscia di Gaza. La distruzione sistematica di aree civili solleva il dubbio concreto che si tratti, in realtà, di una punizione collettiva in violazione dell’articolo 33 della Quarta Convenzione di Ginevra, che vieta esplicitamente le rappresaglie contro la popolazione civile e le punizioni collettive.

“Anche se può sembrare assurdo – si legge ancora nel rapporto – parlare della distruzione di case di fronte all’immane perdita di vite umane in questa guerra, una casa non è solo un involucro di cemento: è parte integrante dell’esistenza di una persona, del suo passato e del suo futuro. Radere al suolo un’intera area, rendendola inabitabile, ha un costo umano tangibile e incalcolabile”.

La creazione della nuova zona cuscinetto compromette irreversibilmente la possibilità di una ricostruzione sostenibile della Striscia di Gaza e rappresenta un grave ostacolo a qualsiasi soluzione politica del conflitto. Il “perimetro” si somma ad altri tre corridoi militari con cui l’IDF ha frammentato la Striscia di Gaza: il corridoio Natzarim, che divide Gaza City dal resto della Striscia; il corridoio Philadelphi, che corre lungo il confine Sud con l’Egitto; il nuovo corridoio Morag, che divide Rafah da Khan Younis. Tutto in nome della “sicurezza” di Israele. Eppure la vera sicurezza, sottolinea Breaking the Silence, non può derivare dalla distruzione ma soltanto dalla fine dell’occupazione militare del Territorio Palestinese.

 

Elisa Veltre è laureata magistrale in “Storia e Civiltà” all’Università di Pisa e collabora attualmente, come volontaria del Servizio Civile Universale, con Scienza & Pace Magazine.