mercoledì, Ottobre 8, 2025
AmbienteEconomia

L’industria petrolifera prosciuga le antiche zone umide dell’Iraq

Le paludi di Al-Hawizeh, un ecosistema un tempo vasto e rigoglioso nel Sud dell’Iraq, oggi è sull’orlo della distruzione. Attraverso la storia di Mustafa Hashim, un giovane pescatore costretto a confrontarsi con la progressiva scomparsa del suo ambiente, Azhar Al-Rubaie, Sara Manisera e Daniela Sala hanno ricostruito il conflitto tra l’industria petrolifera e le comunità locali a rischio di sopravvivenza. Il giacimento petrolifero di Halfaya, gestito da un consorzio guidato da PetroChina con la partecipazione di TotalEnergies, necessita di enormi quantità d’acqua estratte direttamente dai fiumi che alimentano le paludi di Al-Hawizeh. Questa pratica, combinata all’effetto delle dighe a monte in Turchia e Iran, sta prosciugando le riserve idriche della regione, mettendo a rischio la vita e i mezzi di sostentamento della popolazione. L’inchiesta, sostenuta da Journalismfund Europe e IJ4EU e pubblicata dal Guardian, mette in luce anche la militarizzazione dell’area e la repressione delle proteste locali. Nonostante le criticità e le irregolarità – le paludi sono anche protette dall’UNESCO e dalla Convenzione di Ramsar – l’estrazione di petrolio continua, sostenendo l’economia irachena e rispondendo alla crescente domanda europea.

 

di Azhar Al-Rubaie, Sara Manisera, Daniela Sala

All’alba un velo di nebbia avvolge i canali di Hawizeh, dove cielo e acqua sembrano fondersi in uno specchio. A poppa di una stretta barca di legno, il ventitréenne Mustafa Hashim scruta le acque basse delle paludi, spegnendo il motore e proseguendo con il tradizionale murdin [asta utilizzata dalle locali comunità irachene per manovrare le imbarcazioni su acque basse e paludose, ndt] per evitare di impigliarsi nella flora acquatica o nel fango denso.

Gli ci vuole circa mezz’ora per attraversare le paludi in via di prosciugamento e raggiungere Um al-Nea’aj, un tempo un lago affollato di pescatori e ricco di fauna locale. Ora l’acqua è profonda circa mezzo metro. “Due anni fa c’erano famiglie e pescatori ovunque”, dice Mustafa, sporgendosi dalla barca. “Si sentivano risate, gli schizzi dei pesci. Oggi non c’è più nulla”.

Mustafa Hashim, 23 anni, guida la sua barca verso il lago Um al-Nea’aj. Con i cambiamenti climatici, la siccità e l’estrazione dell’acqua, la navigazione sta diventando sempre più difficile. Fotografia: Daniela Sala.

Le zone umide dell’Iraq meridionale, note come paludi mesopotamiche, sono tra gli ecosistemi più a rischio del mondo. Alcuni ritengono che la loro distesa abbia ospitato il biblico Giardino dell’Eden. Riconosciute come patrimonio mondiale dell’Unesco nel 2016 e protette dal 2007 come zona umida di importanza internazionale ai sensi della Convenzione di Ramsar, le paludi si estendevano un tempo per quasi 200 km da Nasiriya a Bassora, formando un mondo acquatico vasto e rigoglioso.

Ma sotto la superficie si nasconde un altro tipo di ricchezza: il petrolio. Tre concessioni petrolifere strategiche insistono sull’area protetta e sfruttano i pozzi di Halfaya, Huwaiza e Majnoon. Quest’ultimo prende il nome dalla parola araba che significa “pazzo”: è incluso tra i giacimenti petroliferi supergiant del mondo, con riserve stimate fino a 38 miliardi di barili (5,2 miliardi di tonnellate).

Ma i processi di estrazione petrolifera richiedono un’enorme quantità d’acqua. In una terra già minacciata dalla siccità e dalla desertificazione, le zone umide vengono così prosciugate.

Il nonno di Mustafa, Kasid Wanis, 87 anni, una volta ha portato la sua barca da Hawizeh a Bassora, distante circa 70 miglia, utilizzando soltanto il murdin e la sua conoscenza del territorio. “Non sapevamo cosa fossero le automobili. Non ne avevamo bisogno. Eravamo un popolo dell’acqua”, racconta. Suo figlio Hashim, 41 anni, padre di Mustafa, è cresciuto pescando in queste acque. Ma quattro anni fa ha dovuto rinunciare al suo mestiere di pescatore. “Non c’è abbastanza acqua per vivere”, dice.

Hashim Kasid, Mustafa Hashim e Kasid Wanis: tre generazioni nella loro casa nel villaggio di Abu Khussaf. Fotografia: Daniela Sala.

Il petrolio grezzo è la base dell’economia irachena, rappresentando oltre il 95% delle esportazioni totali e il 69% del PIL. Il paese è il sesto produttore mondiale di petrolio grezzo e il destino delle paludi di Hawizeh è strettamente legato a quello dell’industria petrolifera. Dall’invasione russa dell’Ucraina, nel febbraio 2022, l’Europa ha cercato alternative al petrolio di Mosca e l’Iraq è diventato una risorsa strategica per rispondere alla domanda europea.

La connessione tra l’estrazione del petrolio e la scarsità d’acqua nell’Iraq meridionale è diretta e devastante. Il giacimento petrolifero di Halfaya, di cui anche la società energetica francese TotalEnergies detiene una quota, è gestito da un consorzio guidato da PetroChina. Esteso su un’area tre volte più grande di Parigi, comprende 300 pozzi, tre impianti di lavorazione del petrolio, un impianto di trattamento delle acque e un proprio aeroporto per gli spostamenti dei lavoratori stranieri da e per gli aeroporti internazionali. Si tratta del più grande progetto all’estero della società statale PetroChina.

Circa dieci anni fa, poco dopo l’inizio delle attività di PetroChina nella regione, sono state costruite sei stazioni di pompaggio dell’acqua lungo il fiume Tigri, l’arteria vitale che alimenta le paludi. Ogni giorno, le stazioni di pompaggio estraggono circa 60.000 metri cubi d’acqua, pari all’incirca al consumo giornaliero di una città di medie dimensioni. L’acqua viene convogliata verso i giacimenti petroliferi, dove viene iniettata nei pozzi per aumentare l’estrazione di petrolio grezzo, una pratica ormai diffusa in tutta la regione.

Le stazioni di pompaggio attingono a riserve idriche già ridotte. Le dighe costruite a monte, in Turchia e nel Kurdistan iracheno, hanno ridotto il flusso d’acqua nel sud dell’Iraq di oltre il 50% dagli anni ’70, mentre le dighe iraniane sul fiume Karkheh, che alimenta anch’esso le paludi di Hawizeh, hanno ridotto l’approvvigionamento idrico della regione.

La carcassa di un bufalo d’acqua giace dove un tempo si trovavano le paludi settentrionali di Bassora. Queste si sono prosciugate dopo la costruzione di una stazione di pompaggio dell’acqua per rifornire i giacimenti petroliferi dell’ENI. Fotografia: Daniele Sala.

Alimentare il complesso industriale petrolifero sta costando ai residenti non solo il loro habitat, ma anche il loro stile di vita. Di questi tempi, Hashim teme meno la scarsità di pesce rispetto ai posti di blocco militari. I canali, che un tempo conducevano nelle profondità delle zone paludose, sono stati interrotti e vengono oggi pattugliati. Guardie armate controllano l’accesso, richiedendo ai pescatori locali e agli allevatori di bufali di consegnare le loro carte d’identità per entrare.

Le paludi sono, dunque, diventate una zona militarizzata. Le autorità sostengono che l’aumento della presenza di forze di polizia e di militari ha lo scopo di prevenire il contrabbando e garantire la sicurezza del confine con l’Iran, situato a pochi chilometri di distanza. Ma, secondo i residenti, serve anche a reprimere le proteste locali.

“L’occupazione segue il petrolio”, afferma Mustafa. “Vogliono separarci dalla nostra terra per poterla sfruttare senza incontrare resistenza”. Con l’inaridimento delle paludi, Mustafa ha fatto ciò che molti altri sono stati costretti a fare: è entrato a far parte dell’industria che ritiene responsabile della distruzione della sua terra. Nel 2023, infatti, lui e suo padre hanno lavorato come subappaltatori per PetroChina.

“L’ho visto da vicino”, dice. “Lo chiamano sviluppo, ma è una distruzione mascherata da progresso”. Alla fine dell’estate ha lasciato il lavoro. Nello stesso anno la siccità ha raggiunto il picco e in tutta la regione sono scoppiate proteste: Mustafa vi ha preso parte, organizzando blocchi alle strade d’accesso dei giacimenti petroliferi.

“All’inizio ho detto a Mustafa di smetterla”, racconta il padre Hashim. “Ma poi mi ha fatto capire che si trattava di una questione politica e che non potevamo rimanere in silenzio”. L’estrazione di petrolio nella regione è stata collegata anche a un inquinamento devastante.

“Questa economia sta letteralmente uccidendo le persone”, dice Majid al-Saadi, direttore del Dipartimento dell’agricoltura della provincia di Maysan. Alla fine del 2024, Saadi e il suo team hanno realizzato un rapporto riservato del governo locale sugli effetti dell’estrazione di petrolio nella regione. Il rapporto, visionato dal Guardian, documenta concentrazioni allarmanti di idrocarburi e metalli pesanti, la presenza di sostanze chimiche nell’acqua potabile e il collasso dell’agricoltura locale.

“Non si tratta solo di inquinamento, ma di espropriazione”, afferma Saadi. All’inizio del 2025, ha consegnato il rapporto al Ministero dell’ambiente iracheno e sostiene che i funzionari hanno promesso di avviare colloqui con il Ministero del petrolio. Tuttavia, Saadi è scettico sul fatto che seguiranno azioni concrete.

Donne aspettano che i pescherecci tornino con il pescato da vendere lungo l’autostrada. 1 kg viene venduto a circa 1.500 dinari iracheni, ovvero 1 euro. La pesca continua nonostante il divieto durante la stagione riproduttiva. Fotografia: Daniela Sala.

Per ora, l’espansione dei giacimenti petroliferi nella zona continua. Fotografie e video trapelati, geolocalizzati dal Guardian, mostrano escavatori, oleodotti e operai che scavano direttamente nel cuore della zona protetta, dove è in fase di sviluppo il nuovo giacimento petrolifero di Huwaiza. L’esplorazione è stata confermata dall’analisi delle immagini satellitari effettuata per il Guardian da Placemarks, uno studio indipendente di geoanalisi che utilizza immagini e dati satellitari per mappare i cambiamenti ambientali a livello mondiale.

Un contratto firmato nel febbraio 2023 tra la compagnia petrolifera statale irachena Maysan Oil Company e la cinese Geo-Jade Petroleum ha aperto la strada allo sviluppo del nuovo giacimento. Gli scavi violerebbero direttamente la Convenzione di Ramsar. Tuttavia, questo accordo non è giuridicamente vincolante e dipende dalla volontà degli Stati di rispettarlo su base volontaria.

I Ministeri iracheni del petrolio e dell’ambiente hanno scelto di non rispondere alle domande che sono state loro poste in merito. A luglio, l’Agenzia federale per la sicurezza del Ministero dell’interno ha dichiarato in un post sui social media che la polizia ambientale aveva “condotto un’ispezione sul campo […] per monitorare potenziali violazioni ambientali derivanti dalle attività delle compagnie petrolifere nella zona di Hor al-Huwaiza”. Ha poi aggiunto: “La visita sul campo ha rivelato che lo stagno si era completamente prosciugato e che non erano in corso attività di trivellazione, estrazione o smaltimento di rifiuti petroliferi nel sito. Tuttavia, erano in corso scavi […] effettuati da società locali appaltate dalla società cinese Geo-Jade a fini di esplorazione per la futura installazione di piattaforme petrolifere”.

Jassem Falahi, funzionario del Ministero dell’ambiente, aveva precedentemente dichiarato all’Agenzia France-Presse che lo status di area protetta delle paludi non impediva lo svolgimento e lo sviluppo di progetti. Tuttavia, a maggio ha aggiunto: “Gli investimenti sono soggetti a condizioni e standard specifici che non devono disturbare l’area centrale […] né influire sul sito e sulla sua biodiversità”.

Un portavoce di TotalEnergies ha affermato che, pur detenendo una quota del 22,8% nel giacimento petrolifero di Halfaya, la società non è un operatore e che le domande relative al giacimento dovrebbero essere rivolte a PetroChina. PetroChina e GeoJade non hanno risposto alle richieste di commento.

Contattato dal Guardian, l’UNESCO ha espresso una “significativa preoccupazione per la persistente vulnerabilità degli elementi naturali del sito, a causa dello sviluppo di attività connesse all’estrazione di petrolio e di gas”.

Privati dei loro mezzi di sussistenza, gli abitanti di Hawizeh hanno poche alternative. Nel villaggio di Mustafa, centinaia di case sono state abbandonate. Tre mesi fa sono scoppiate nuove proteste nelle paludi. Centinaia di persone hanno marciato vicino al giacimento petrolifero di Halfaya, denunciando le nuove autorizzazioni di trivellazione. “Non si tratta solo dei diritti di trivellazione odierni”, ha affermato Mustafa. “Stiamo lottando affinché la prossima generazione possa conoscere le paludi che i nostri antenati hanno protetto per migliaia di anni”.

I disordini arrivano mentre l’Iraq sta aumentando la produzione di petrolio in un contesto di crisi idrica sempre più grave. In vista di un’altra estate torrida, il capo della Commissione per i diritti umani di Bassora ha chiesto di dichiarare lo stato di emergenza, mettendo in guardia da un imminente disastro umanitario causato dalla scarsità d’acqua, dall’inquinamento e dall’aumento della tossicità.

Ciò che rimane nelle paludi è una guerra silenziosa: per la terra, l’acqua e la memoria. “Il governo e le aziende ci hanno trasformato in una torta da spartire”, afferma Mustafa. “Trattano queste acque come un’opportunità di business. Per noi, sono la vita”.

 

Fonte: The Guardian (13 agosto 2025).