mercoledì, Marzo 26, 2025
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L’incerto 2025 delle organizzazioni internazionali e la seconda presidenza Trump

di Alessandro Polsi

L’insediamento di Donald Trump è l’avvenimento che segna inevitabilmente questo inizio di 2025 e promette di imprimere una profonda impronta sulla dinamica delle relazioni internazionali. Ci si chiede, non senza preoccupazione, se la nuova presidenza segnerà una spaccatura radicale, come lo furono le due presidenze di Ronald Reagan – l’altro grande presidente di “rottura” nella recente storia statunitense. O, in alternativa, la politica internazionale degli Stati Uniti, pur fra strappi e scossoni, manifesterà una sostanziale continuità con un trend – già iniziato con la presidenza Obama – che, in ogni caso, è di graduale disimpegno dal ruolo di “grande tutore” dell’ordine internazionale.

La crisi del peacekeeping

Un punto di osservazione utile per avanzare qualche previsione può essere un’analisi di lungo periodo sull’azione delle grandi organizzazioni internazionali – ONU e agenzie collegate – di cui gli USA sono stati, e sono ancora oggi, i maggiori finanziatori, in grado di influenzarne le politiche e le priorità. Basti pensare che nel 1946 gli USA fornivano più del 50% del budget ordinario delle Nazioni Unite. Nel 2024 il loro peso si è attestato sul 33% del bilancio ordinario. A questo vanno aggiunte le donazioni per programmi specifici, e i contributi privati di cittadini statunitensi, a volte molto elevati, come nel caso della famiglia Rockfeller nei primi anni di vita del sistema o della fondazione di Bill Gates oggi.

Da anni è ormai evidente la difficoltà delle Nazioni Unite di promuovere o gestire operazioni politiche complesse, siano accordi politici in caso di conflitti, siano vere e proprie operazioni di peacekeeping sul campo. Sono lontani gli anni ’90, il decennio in cui sembrava che, sciolti i vincoli della guerra fredda, fosse possibile implementare un nuovo sistema di governo internazionale dei conflitti.

Per non cadere in un discorso troppo impressionistico, propungo di enumerare decennio per decennio il numero di operazioni di peacekeeping autorizzate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, operazioni che prevedono il dispiegamento di personale militare sul campo, anche in qualità di semplice osservatore e garante di accordi di tregua. Il numero complessivo, quindi, non indica in assoluto le dimensioni quantitative dell’impegno delle Nazioni Unite nel peacekeeping, ma è un buon indicatore della capacità politica dell’organizzazione, cioè della possibilità di gestire in una sfera internazionale – definita da specifiche regole di ingaggio – metodologie di pacificazione, un sistema integrato di aiuti, la risoluzione di conflitti armati fra stati o all’interno di stati.

Tabella 1. Missioni di peacekeaping delle Nazioni Unite dal 1948 al 2024

(Elaborazione dell’autore a partire dai dati delle Nazioni Unite. La missione ad Haiti, decisa nel 2024, non è stata conteggiata in quanto ancora in sospeso) 

Il dato è impressionante: l’ultima missione autorizzata risale al 2015. Ciò non toglie che il personale occupato nelle missioni di peacekeeping sia cresciuto in maniera imponente negli ultimi trent’anni, arrivando a sfiorare le 100.000 unità impegnate contemporaneamente. Attualmente circa 80.000 persone, tra militari e civili, operano in 11 missioni, alcune delle quali, come quella degli osservatori dispiegati nel Kashmir, sono attive dal 1949. Le missioni più robuste sono quelle nella Repubblica democratica del Congo (14.000 persone), nella Repubblica Centrafricana (18.500), in Sud Sudan (18.000) e in Libano (10.400).

Ma questa tabella ci offre anche un’altra indicazione: alla fine degli anni ’90 si poteva credere che il protagonismo delle Nazioni Unite fosse un dato acquisito, frutto della fine della guerra fredda e dell’apparente espansione della democrazia liberale come forma di governo destinata ad affermarsi a livello planetario, sensazione che ha dato vita in Italia, in concomitanza con la riforma degli ordinamenti universitari, a vari corsi di laurea in Scienze per la pace e cooperazione internazionale. Oggi dobbiamo chiederci se quel momento sia stato solo una parentesi rispetto a una tendenza di lungo periodo che, nonostante i proclami e le speranze nate nel 1945 con la fine della Seconda Guerra Mondiale, continua a relegare le organizzazioni internazionali a un ruolo marginale.

La scena globale, infatti, sembra ancora dominata da poche grandi potenze (due, forse tre oggi) e da un numero limitato di attori regionali. Ognuno alla ricerca di una propria sfera di influenza politica. Oggi è l’accordo o il confronto fra i grandi attori a definire le regole e a mantenere una situazione di “equilibrio di forze” che più o meno garantisce la pace, servendosi delle organizzazioni internazionali per intervenire in situazioni ritenute marginali, o in cui vi è una convenienza a mantenere e a non mutare i rapporti di forza esistenti.

Non dobbiamo però cedere a un pessimismo totale: proprio il vasto sforzo delle Nazioni Unite, delle Corti internazionali, delle ONG attive su scala globale, che si è dispiegato nel decennio finale della guerra fredda e durante gli anni ’90, ha portato a rilevanti risultati se osservato in una prospettiva storica. Pur restando estremamente elevato il numero di guerre e conflitti in corso (l’ultimo rapporto della Caritas ne enumera 54, tra guerre, conflitti civili e latenti), negli ultimi decenni si è registrato un drastico calo delle morti violente dovute a scontri tra stati e all’interno dei loro confini.

Un grafico, prodotto dal Dipartimento di Peace and Conflict Research dell’Università di Uppsala nel quadro dell’Uppsala Conflict Data Program riporta, in valori assoluti, il numero di morti in guerre, guerre civili e per mano della criminalità organizzata in bande armate dalla fine della guerra fredda.

Con la drammatica eccezione del triennio 1993-95 (guerra in Bosnia, genocidio in Ruanda), il trend è stato in decisa discesa rispetto al periodo della guerra fredda, fino al 2005, per poi iniziare a risalire, con maggiore decisione, dal 2011 (guerra civile in Siria, operazioni contro il cosiddetto Stato islamico, conflitti interni in Ucraina), aumentando nel corso 2020, in correlazione con almeno due fattori globali: la crisi economica scoppiata nel 2008, l’emergere evidente, sempre dal 2008, dell’attitudine contrappositiva della Russia guidata da Vladimir Putin e l’ascesa alle massime cariche del potere in Cina di Xi Jingping dalla fine del 2012.

La cooperazione internazionale

Un altro indicatore della situazione delle Nazioni Unite è la capacità operativa delle sue principali agenzie specializzate nella cooperazione e nell’intervento umanitario. Nella tabella che segue propongo un confronto sul peso specifico delle principali agenzie internazionali, calcolato in base alle loro capacità di spesa, desunte confrontando i bilanci  del 1979 e quelli del 2022.

Tabella 2. Distribuzione percentuale dei fondi a disposizione delle principali agenzie dell’ONU nel 1979 e nel 2022

(elaborazione dell’autore a partire dai dati delle Nazioni Unite)

In termini reali, la massa di risorse gestita dalle sei principali agenzie è cresciuta di quasi 7 volte in dollari dal 1979, ma non dimentichiamo che la popolazione mondiale è quasi raddoppiata nel medesimo lasso di tempo, concentrandosi nei paesi a basso reddito. Il merito di questa crescita va attribuito non solo all’incremento dei finanziamenti ordinari degli stati, ma soprattutto al crescente impegno dei privati (fondazioni come quella di Bill Gates, ad esempio) e alle donazioni degli stati più ricchi, in particolare a partire dal 1995, quando una conferenza internazionale promossa dalle Nazioni Unite a Copenaghen ha raggiunto un accordo per aumentare le risorse contro la povertà estrema.

Ma la conclusione a cui mi preme arrivare è un’altra: nell’arco di cinquant’anni le agenzie più “attive” e “politiche”, che maggiormente interagivano con gli stati per promuovere la crescita umana e sociale, sono state ridimensionate a favore delle due grandi agenzie di assistenza, UNICEF e WFP. Probabilmente questa è una tendenza destinata ad accentuarsi, frutto di un consenso generale che va in direzione di un ampliamento degli interventi umanitari, rispetto a interventi giudicati più controversi e politici delle altre agenzie. In sintonia con la limitata efficacia dell’ONU nell’ultimo decennio, la politica internazionale appare orientata verso un ritorno alla tradizionale strategia dell’equilibrio tra grandi potenze, supportata da un robusto apparato di intervento umanitario volto a mitigare le conseguenze più devastanti delle crisi militari e climatiche.

 

La seconda presidenza Trump e l’impegno internazionale degli USA

Storicamente, a partire dalla Prima guerra mondiale, il partito repubblicano ha espresso la tendenza a frenare e limitare gli impegni militari all’estero degli USA e ha cercato, a volte con molta spregiudicatezza, di trovare accordi con gli avversari per concludere conflitti ritenuti troppo costosi in termini di spesa e perdite umane. Pensiamo, ad esempio, al rigetto nel 1920 della Società delle Nazioni perché ritenuta uno strumento pericoloso, capace di impegnare gli USA in conflitti armati al di fuori dei limiti continentali definiti dalla dottrina Monroe, all’uscita dalla guerra del Vietnam nei primi anni ’70, o all’accordo per l’uscita dall’Afghanistan sottoscritto dal presidente Trump nel suo primo mandato (implementata dal presidente Biden ad agosto 2021).

Al contrario, le amministrazioni democratiche hanno spesso espresso posizioni in nome di principi universali (difesa delle libertà e dei diritti umani), oltre ovviamente a una visione geopolitica in cui l’interesse statunitense coincideva con l’estensione del sistema di valori democratici come garanzia di sicurezza globale. Con il paradosso di dare sostanza all’ossimoro di fare la guerra per portare la pace (pensiamo all’intervento unilaterale della NATO in Kosovo nel 1999). Ci sono stati ovviamente anche momenti di sintesi delle due tendenze, come con Franklin D. Roosevelt negli ani ’40, o con Bill Clinton negli anni ’90. E altrettanto pericolose derive, come durante la presidenza imperiale del repubblicano Theodore Roosevelt a inizio ‘900, o nella lotta globale al terrorismo e agli “stati canaglia” condotta da George Bush Jr.

La seconda presidenza Trump, sulla base dell’esperienza passata e del contesto attuale, rischia di accentuare la tendenza dell’amministrazione USA a disimpegnare il paese da una visione universale e universalistica della propria missione a favore di una Realpolitik di equilibrio delle maggiori potenze dal sapore ottocentesco, in cui le politiche vengono definite di volta in volta in base agli interessi ritenuti prioritari per il paese. Di questa tendenza vengono a soffrire le agenzie internazionali: Reagan negli anni ’80 ha inaugurato la prassi di de-finanziare le organizzazioni internazionali, in quanto ritenute amministrazioni burocratiche governate da astratte ideologie internazionaliste e talvolta controllate da paesi considerati ostili.

La minaccia di far uscire gli USA dall’Organizzazione mondiale della sanità, già messa in atto nel primo giorno di presidenza, non può che preoccupare profondamente sia per la delegittimazione di una organizzazione fondamentale per il miglioramento della salute nei paesi a basso reddito – e non solo – sia perché un’eventuale uscita degli USA priverebbe la WHO di un apporto finanziario fondamentale per svolgere la propria missione, pari a circa il 30%. Non dimentichiamo, inoltre, che nel 2022 era stato raggiunto un accordo, favorevoli anche gli USA, per aumentare gli stanziamenti a favore della WHO proprio per potenzia l’agenzia alla luce delle carenze evidenziate dall’epidemia del Covid-19.

Uno sguardo al futuro

Quali prospettive, dunque? Se può apparire complessa la sorte delle agenzie internazionali, alle prese con il loro principale finanziatore a dir poco “lunatico”, dopo tutto ritengo che la loro indispensabile azione negli scenari di crisi umanitarie determinate dai conflitti armati e dalle crescenti sfide globali sia necessaria, in quanto, grazie all’esperienza accumulata, sono attrici indispensabili e insostituibili, pur tenendo in considerazione i trend sopra descritti.

Più problematico appare il futuro per il “centro politico” delle Nazioni Unite. Da più di trent’anni si sta cercando invano di giungere a una riforma del Consiglio di Sicurezza, che si infrange su due scogli insormontabili: il mantenimento del diritto di veto in capo ai cinque paesi vincitori della Seconda guerra mondiale, e la necessità di una rappresentanza permanente nel Consiglio di Sicurezza di quelli che oggi sono i paesi o le aree geografiche più popolose ed economicamente in crescita del pianeta (Africa ed America Latina non hanno rappresentanti permanenti nel Consiglio). Negli ultimi anni, l’urgenza di riformare il diritto di veto mi sembra sostanzialmente tramontata, mentre la vera priorità ineludibile per ridare credibilità e peso politico all’organo e all’organizzazione tutta delle Nazioni Unite è quella di riuscire ad attivare una reale rappresentanza delle grandi aree politiche, economiche e demografiche del pianeta.

 

Alessandro Polsi è membro del Centro Interdisciplinare Scienze per la Pace dell’Università di Pisa e docente di Storia delle istituzioni politiche presso il Dipartimento di Civiltà e forme del sapere.