venerdì, Dicembre 26, 2025
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Il Global Gender Gap Index 2025: progressi, criticità e sfide

di Elisa Bontempo

Il Global Gender Gap Index 2025, giunto alla sua diciannovesima edizione, resta un punto di riferimento nello studio e nella promozione della parità di genere, con una misurazione comparata che coinvolge 148 paesi del mondo.

L’indice viene calcolato in termini percentuali rispetto alla piena parità, sulla base di quattro sottoindici:

  • Partecipazione e opportunità economiche: analizza la presenza femminile nel mercato del lavoro, i livelli di reddito e l’accesso a posizioni di responsabilità.

  • Livello d’istruzione: misura i tassi di alfabetizzazione e la partecipazione ai diversi cicli scolastici.

  • Salute e sopravvivenza: valuta il rapporto tra i sessi alla nascita e l’aspettativa media di vita.

  • Empowerment politico: considera la presenza delle donne nei parlamenti, nei governi e nelle massime cariche dello Stato.

Il punteggio globale del 2025 indica che poco più di due terzi del divario esistente sono stati fin qui colmati. Questa cifra, apparentemente incoraggiante, assume un significato decisamente più problematico se tradotta in una prospettiva temporale: al ritmo attuale, saranno necessari 123 anni per raggiungere la parità completa. Inoltre, dietro questa media si celano profonde differenze: alcune economie hanno superato l’80% del divario colmato, mentre altre hanno raggiunto appena la metà.

Nel 2025 la salute e sopravvivenza raggiunge una quasi piena parità di genere, con un tasso del 96,2%: questo significa che uomini e donne godono, nella maggior parte dei contesti, di condizioni di vita comparabili in termini di aspettativa di vita e accesso ai servizi sanitari, anche se persistono squilibri legati al rapporto tra i sessi alla nascita in alcuni Paesi asiatici.

L’istruzione, arrivando a un tasso di parità del 95,1%, si conferma un altro campo di successo: le donne non solo hanno colmato il divario, ma in molti contesti superano gli uomini nei livelli terziari di formazione. Tuttavia, dal rapporto emerge la conferma di un noto paradosso: la piena parità educativa non si traduce automaticamente in parità occupazionale, segnalando l’esistenza di barriere strutturali.

La partecipazione economica, ferma al 61%, indica che le donne continuano a essere sottorappresentate in ruoli dirigenziali e nei settori a maggiore remunerazione. Ciò si traduce in una perdita complessiva di produttività e innovazione, poiché una parte significativa del talento disponibile rimane sottoutilizzata.

L’empowerment politico, fermo al 22,9%, costituisce il nodo più critico: la quasi totalità delle decisioni politicamente significative a livello mondiale è presa ancora da uomini, con un impatto diretto sulla distribuzione delle risorse e sulla definizione delle priorità collettive.

Il tasso di parità dell’Islanda (92,6%), leader da sedici anni consecutivi nella classifica dell’Indice mondiale, dimostra che livelli molto elevati sono raggiungibili. Tuttavia, il fatto che nessun paese abbia raggiunto il 100% rivela che anche i contesti più avanzati non sono immuni da asimmetrie, specialmente in ambiti come il lavoro e la politica. Inoltre, tra le prime dieci posizioni si collocano quasi esclusivamente economie europee, cui si affiancano Nuova Zelanda e Namibia.

Oltre a considerare le performance dei singoli paesi, il rapporto analizza i dati anche in base al livello di reddito e all’area geografica, offrendo così una prospettiva più ampia e articolata. Spostando lo sguardo alle fasce di reddito, emerge che:

  • i paesi ad alto reddito hanno colmato il 74,3% del divario, mostrando come lo sviluppo economico favorisca l’uguaglianza ma non la garantisca;

  • i paesi a reddito medio-alto e medio-basso (rispettivamente con un tasso di parità del 69,6% e del 66%) registrano punteggi più bassi, ma in alcuni casi sperimentano progressi più rapidi;

  • i paesi a basso reddito, pur avendo una media del 66,4%, comprendono casi di successo capaci di superare molte economie ad alto reddito.

Ciò dimostra chiaramente che non è la ricchezza in sé a determinare la parità, bensì la volontà politica, l’efficacia delle istituzioni e l’adozione di strategie mirate.

Anche i risultati regionali vanno compresi tenendo conto delle loro dinamiche interne.

Il Nord America, con un tasso di parità del 75,8%, appare in testa ma il progresso economico nella regione è quasi stagnante dal 2006 (+0,6 punti), dimostrando che i livelli raggiunti possono consolidarsi senza però produrre un vero slancio innovativo.

L’Europa (75,1%) mostra ottime performance in istruzione e politica, ma la disomogeneità interna tra economie nordiche all’avanguardia e paesi meridionali più lenti rivela che la parità non è un processo uniforme neanche in aree integrate.

L’America Latina e i Caraibi (74,5%) mostrano un ritmo di avanzamento più rapido.

L’Asia Centrale (69,8%) combina buoni risultati in istruzione e salute con un bassissimo livello politico (11,6%), rivelando come i progressi settoriali non sempre si riflettano su altri ambiti.

L’Asia Orientale e Pacifico (69,4%) mostra criticità in salute e istruzione primaria, in particolare per la persistente preferenza per i figli maschi in alcune società.

L’Africa Sub-Sahariana (68,0%) mostra la più ampia varianza interna: da casi eccellenti come la Namibia (81,1%) a situazioni di forte arretratezza come il Ciad (57,1%).

L’Asia Meridionale (64,6%) rimane indietro soprattutto per la partecipazione economica (40,6%).

L’Asia Sud-Occidentale e il Nord Africa (61,7%) continuano a occupare l’ultima posizione, frenati soprattutto dalla scarsa rappresentanza politica delle donne, nonostante progressi nell’istruzione.

A fronte di questi dati, il rapporto individua delle sfide trasversali che vanno oltre la semplice dimensione numerica. La persistenza della segregazione settoriale, che vede le donne concentrate soprattutto in sanità e istruzione, rivela come la loro partecipazione al mercato del lavoro avvenga ancora in comparti meno valorizzati e meno remunerati.

Il divario tra istruzione e occupazione evidenzia che il problema non riguarda più l’accesso alla formazione, ormai quasi paritario, ma la capacità dei sistemi economici di tradurre le competenze femminili in reali opportunità professionali. A questo si aggiunge il tema delle carriere discontinue: le interruzioni per motivi di cura, legate alla distribuzione ancora squilibrata del lavoro domestico e familiare, continuano a rappresentare un ostacolo all’emancipazione economica.

Anche la rappresentanza politica rimane un punto critico: la sua scarsità non solo limita il potere decisionale delle donne, ma riduce la ricchezza delle prospettive collettive. Inoltre, l’implementation gap, ossia la distanza tra leggi formali e loro applicazione concreta, spiega perché anche nei Paesi con quadri normativi avanzati le disuguaglianze persistono.

Parallelamente all’analisi dei divari, il report mette in evidenza anche iniziative concrete sviluppate a livello internazionale per accelerare il percorso verso la parità di genere.

Alcuni esempi sono programmi come “Gender Parity Accelerators” che sostiene gli sforzi nazionali per ampliare la rappresentanza femminile nella forza lavoro o “Lighthouse Programme” che raccoglie buone pratiche dalle organizzazioni che hanno ottenuto impatti significativi e misurabili. Viene citato anche il “Global Gender Parity Sprint”: un’iniziativa del World Economic Forum (WEF) che riunisce i governi, le imprese e le organizzazioni internazionali in un percorso quinquennale di collaborazione per promuovere l’innovazione e la crescita attraverso la parità di genere.

Per concludere, il Global Gender Gap Index 2025 conferma che la parità di genere è ancora un obiettivo lontano, ma i progressi fatti dimostrano che può realizzarsi dove esistono politiche coerenti e strumenti di attuazione efficaci.

I numeri riportati nel rapporto non sono semplici statistiche ma raccontano storie di opportunità mancate, di talenti non valorizzati e di sistemi politici squilibrati e parziali nelle loro rappresentanze. Colmare questi divari è una condizione necessaria per costruire società più innovative, coese e resilienti.

 

Elisa Bontempo è laureata in Scienze per la Pace all’Università di Pisa. Attualmente collabora col Centro Interdisciplinare Scienze per la Pace e con “Scienza&Pace Magazine”.