mercoledì, Maggio 21, 2025
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Franco Basaglia: passato e presente di una rivoluzione

 

di Chiara Crivellari

Franco Basaglia. Passato e presente di una rivoluzione, scritto da Ludovica Jona ed Elisa Storace per Sperling & Kupfer, intreccia la vicenda umana e professionale di uno dei più importanti psichiatri del Novecento con il contesto storico, culturale e politico in cui è maturata una delle rivoluzioni più profonde e durature della medicina e della società italiana.  

Il libro restituisce, attraverso una narrazione appassionata e rigorosa, l’eredità viva e ancora attuale del pensiero basagliano, che ha messo al centro la dignità e i diritti delle persone con disturbo mentale, superando per sempre il paradigma della reclusione manicomiale.  

Franco Basaglia inizia il suo percorso all’interno dell’accademia, formandosi secondo i canoni della psichiatria tradizionale, ma presto si distingue per una profonda insoddisfazione verso un sistema volto più al controllo sociale che alla cura. Nei suoi primi incarichi di lavoro all’interno di manicomi italiani, Basaglia entra in contatto diretto con la realtà disumana degli ospedali psichiatrici: non luoghi di cura, ma di reclusione, dove i pazienti sono annullati nella loro soggettività, privati dei loro diritti fondamentali e costretti a vivere in condizioni degradanti. 

La riflessione teorica si traduce in azione concreta a Gorizia, dove Basaglia avvia il suo primo progetto di riforma. Negli anni ’60, sperimenta nella città friulana un modello radicalmente nuovo: la comunità terapeutica. In questo modello, pazienti e operatori non sono più separati da rigide gerarchie, ma interagiscono in un contesto paritario e partecipativo. L’obiettivo è superare non solo le barriere fisiche che ostacolano il processo di cura, ma anche quelle simboliche che si manifestano nelle pratiche di esclusione, di stigma, di silenziamento.  

È l’inizio di un movimento che mette in discussione non solo le tradizionali pratiche psichiatriche, ma l’intero modo in cui la società percepisce e tratta la malattia mentale. Dopo il primo esperimento di Gorizia, è a Trieste che la rivoluzione si concretizza pienamente nel corso degli anni ‘70. Qui Basaglia riesce a smantellare progressivamente l’ospedale psichiatrico e a sostituirlo con una rete di servizi territoriali, basati sull’assistenza diffusa, la riabilitazione e il sostegno all’autonomia di vita nella comunità. 

La psichiatria cessa di essere un apparato di esclusione e si trasforma in uno strumento di inclusione sociale. Questa esperienza diventa un modello di riferimento internazionale, capace di ispirare movimenti e riforme ben oltre i confini italiani. Il trattamento della sofferenza psichica non avviene più con la segregazione e la sua logica escludente, ma si realizza attraverso la relazione, l’ascolto e la restituzione di dignità e centralità alla persona. 

Il punto di svolta arriva nel 1978, con l’approvazione della Legge 180 conosciuta anche come “Legge Basaglia”, che sancisce ufficialmente la chiusura dei manicomi e riconosce il diritto alla salute mentale come diritto di cittadinanza. Si tratta di una rivoluzione giuridica e culturale: per la prima volta lo Stato abbandona il modello dell’istituzione totale come risposta al disagio psichico e si assume la responsabilità di offrire servizi alternativi, territoriali e di comunità.  

Tuttavia, come evidenziano Jona e Storace, pur rappresentando un traguardo fondamentale, la legge lascia irrisolte numerose questioni: in particolare, non definisce in modo dettagliato l’organizzazione dei servizi sostitutivi, lasciando ampio margine alle interpretazioni locali e dando origine a un panorama disomogeneo tra le diverse regioni italiane. 

Nella parte conclusiva del libro, le autrici si interrogano sul presente e sul futuro della psichiatria italiana. Cosa resta oggi della rivoluzione basagliana? Se la chiusura dei manicomi ha rappresentato una svolta storica, molte sfide rimangono ancora aperte: in molte aree del paese i servizi territoriali faticano a garantire un’assistenza efficace, a causa della carenza di risorse, personale e visione politica.  

Pratiche come il trattamento sanitario obbligatorio (TSO) o l’uso della contenzione fisica, sono ancora presenti, segno di un’incompiuta trasformazione culturale. In molti casi non si è investito adeguatamente in strumenti alternativi, per garantire l’incolumità fisica del paziente e, allo stesso tempo, rispettarne la dignità. Laddove ci sono équipe formate, risorse adeguate e cultura relazionale, la coercizione è quasi del tutto evitabile. 

Il TSO è una misura tuttora prevista dall’ordinamento italiano, che consente l’imposizione di cure psichiatriche a persone che, in seguito a un grave disturbo mentale, risultino incapaci di riconoscere la propria condizione e si ritiene possano rappresentare un rischio, per sé o per gli altri. Basaglia, pur comprendendo la necessità di interventi urgenti in situazioni limite, ne evidenziava tutti i pericoli: in particolare, denunciava il rischio che il TSO si trasformasse da strumento di tutela a nuovo veicolo di repressione, riproducendo i tradizionali meccanismi di esclusione e violenza istituzionale. 

Riguardo alla contenzione fisica, ossia all’uso di mezzi coercitivi come fasce, letti di contenzione o camicie di forza per immobilizzare i pazienti, Basaglia ha sempre espresso critiche radicali. In molte istituzioni psichiatriche dell’epoca, la contenzione era considerata una pratica normale, quasi inevitabile: Basaglia la interpretava come il segno più evidente della volontà di “neutralizzare” chi veniva ritenuto “diverso”, rinunciando a comprenderlo e ad aiutarlo a vivere comunque una vita degna. Una pratica mai realmente terapeutica che, anzi, aggravava la sofferenza psichica. 

Nella visione basagliana, la cura non poteva mai passare attraverso la negazione della libertà individuale, ma doveva costruirsi su un rapporto di fiducia, responsabilizzazione e riconoscimento della persona nella sua piena umanità. È su questa base che il suo lavoro ha contribuito a un cambiamento radicale nel modo di intendere la salute mentale e i diritti dei/delle pazienti.  

Resta, infine, aperta la questione forse più profonda sollevata da Basaglia: quella dello stigma sociale che, ieri come oggi, pesa sulle persone con disagio psichico. Recuperare la sua lezione significa, prima di tutto, cambiare il nostro sguardo: non vedere il/la paziente con malattia mentale come un “altro”, da allontanare ed escludere, ma come una persona, portatrice di bisogni, diritti, sogni e capacità. 

Chiara Crivellari, svolge il Servizio Civile Universale presso il Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace” dell’Università di Pisa.