Foto storie
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Fin dall’inizio dell’assedio totale di Gaza da parte dell’esercito israeliano, la milizia collegata al partito sciita libanese Hezbollah ha iniziato a colpire il Nord di Israele. Da quel momento, è iniziato di fatto un conflitto armato tra le due parti, che si è progressivamente intensificato negli ultimi due mesi, dopo l’attacco della milizia a Majdal Shams sulle Alture del Golan, occupate da Israele dal 1967 e annesse nel 1981, l’uccisione di Fuad Shukr, alto comandante militare di Hezbollah, l’esplosione di migliaia di walkie-talkie utilizzati da alcuni membri di Hezbollah e l’uccisione del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah.
Oltre a prendere di mira aree densamente abitate alla periferia di Beirut e vari territori nel Sud del Libano e nella Valle della Bekaa, il primo ottobre l’esercito israeliano ha avviato un’invasione di terra del paese. Più del 25% del territorio libanese risulta al momento essere stato evacuato. Le autorità hanno dichiarato che circa 1,2 milioni di persone hanno abbandonato le proprie abitazioni, installando tende in varie zone di Beirut o trasferendosi nel nord del paese. Tra gli sfollati, si stimano 400.000 bambini e bambine.
Più di mille centri nel paese, tra cui scuole, università e altre istituzioni pubbliche, stanno ospitando centinaia di migliaia di persone. Centinaia di volontari e volontarie predispongono pasti per gli sfollati. Il vicedirettore esecutivo dell’Unicef, Ted Chaiban, ha affermato che “a oggi, 1,2 milioni di bambini sono stati privati dell’educazione: le loro scuole pubbliche sono state rese inaccessibili, sono state danneggiate o vengono usate come rifugi”. Da più parti, si chiede il cessate il fuoco e il rispetto del diritto internazionale umanitario, garantendo vie di fuga sicure per i civili e proteggendo scuole, ospedali e sistemi idrici.
Il Ministero della salute libanese ha contato, al 15 ottobre, almeno 2350 morti e più di 10.000 feriti nel corso dell’ultimo anno.
Fonti: AP, Carnegie Endowement, The Medialine, The New York Times, Barron’s.
Lo scorso 25 settembre [2024] alcune centinaia di persone, con varie associazioni e organizzazioni sindacali e studentesche, hanno manifestato nel centro di Roma contro il cosiddetto “DDL Sicurezza”. Sui cartelloni esposti si poteva leggere “Più diritti, meno divieti”, “Repressione non è protezione”, “Sicurezza? No, minaccia al diritto di protesta pacifica”, oltre a numerosi richiami all’articolo 21 della Costituzione: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”.
Il disegno di legge governativo, approvato alla Camera il 18 settembre scorso e passato adesso al Senato, introduce una una trentina di modifiche al Codice Penale, tra nuovi comportamenti puniti, aggravanti di reati già previsti e aumento delle sanzioni.
Ad esempio: i blocchi stradali, se effettuati con il proprio corpo, diventerebbero reato con pene fino a due anni di reclusione; il nuovo reato di rivolta all’interno di un istituto penitenziario includerebbe anche atti di resistenza passiva agli ordini impartiti, con pene da uno a cinque anni di reclusione; il nuovo reato di rivolta in un centro di accoglienza per migranti o in un centro per i rimpatri, includerebbe anche atti di resistenza passiva, con pene da uno a sei anni di reclusione; i capitani di navi italiane e straniere che disobbediscano all’intimidazione del fermo della Guardia di finanza potrebbero essere puniti con il carcere fino a due anni; l’esistente reato di resistenza a pubblico ufficiale verrebbe aggravato nel contesto di azioni contro un’opera pubblica o un’infrastruttura strategica.
Il giurista Patrizio Gonnella, Presidente dell’associazione Antigone, ha definito il disegno di legge Sicurezza “il più grande e pericoloso attacco alla libertà di protesta nella storia repubblicana”.
Fonti: Internazionale, Il Manifesto, Lo Speciale.
Venerdì 13 settembre, a tre settimane dalle elezioni presidenziali, la Rete tunisina per i diritti e le libertà ha promosso nella capitale una marcia nazionale per la democrazia e la libertà.
“La manifestazione cade in un momento critico, segnato da forti restrizioni alle libertà politiche e civili: diverse figure pubbliche, tra cui politici, giornalisti, attivisti della società civile e blogger, sono perseguiti per le loro attività”, si legge nel comunicato stampa della rete, composta da più di venti organizzazioni della società civile tunisina.
Eletto democraticamente nel 2019, l’attuale Presidente Kaïs Saïed ha sciolto il Parlamento nel 2021 e fatto adottare una nuova Costituzione nel 2022, alterando l’equilibrio dei poteri: il Capo dello Stato può sciogliere l’Assemblea, governare per decreti e assumere pieni poteri senza limiti di tempo. Il Parlamento in carica è stato eletto nel 2023, con un’affluenza di poco superiore all’11% per il boicottaggio del voto da parte delle opposizioni.
Alla marcia hanno partecipato più di tremila persone. Tra i vari cartelli esposti – “Abbasso la dittatura”, “Cittadino, sei oppresso” – alcuni hanno accusato il presidente Saïed di promuovere il razzismo contro i migranti subsahariani e di stipulare accordi con l’Unione Europea e l’Italia, in materia di immigrazione, che ledono i diritti umani.
Fonti: Business News Tunisia, RFI.
Dall’inizio di luglio il Bangladesh è scosso da forti proteste, promosse da studenti e studentesse universitarie che chiedono di superare il sistema di quote per l’accesso al pubblico impiego.
Una legge del 1971, primo anno dell’indipendenza dal Pakistan, riserva il 56% dei posti nella pubblica amministrazione a varie categorie, tra cui i veterani della guerra d’indipendenza e i loro familiari, cui spetta il 30% degli impieghi. Nel 2018 il governo aveva sospeso il sistema delle quote in seguito ad altre proteste, ma lo scorso giugno l’Alta Corte ha annullato la sospensione in seguito ai ricorsi dei familiari dei veterani.
Il Bangladesh conta almeno 173 milioni di abitanti. I giovani in cerca di lavoro sono almeno 18 milioni, cui si sommano annualmente circa 400.000 neolaureati. “Se i nostri figli meritano di accedere al posto, devono poterlo fare. Ma oggi i figli dei combattenti per l’indipendenza, anche non avendo meriti, ottengono il lavoro facilmente”, ha dichiarato uno dei manifestanti.
Le proteste hanno dato luogo a scontri sempre più violenti con la polizia. La scorsa settimana il governo ha ordinato la chiusura di scuole e università, ha schierato l’esercito, ha imposto il coprifuoco e il blocco di internet. Il bilancio dei morti è controverso, ma potrebbe raggiungere le 160 persone. Manifestazioni di solidarietà agli studenti si sono svolte in varie città del mondo, da New Dehli a New York, su iniziativa delle comunità bengalesi locali.
Domenica scorsa è intervenuta nella crisi la Corte Suprema del Bangladesh, che ha cassato la decisione dell’Alta Corte sulle quote, riducendo i posti pubblici riservati dal 56% al 7% del totale: il 5% destinato ai figli dei “combattenti per la libertà”, l’1% ad alcune minoranze etniche e l’1% alle persone con disabilità o che si riconoscono nel terzo sesso.
La sentenza non ha soddisfatto i leader della protesta, che hanno annunciato la prosecuzione delle mobilitazioni contro il governo della prima ministra Sheikh Hasina, riconfermata lo scorso gennaio per un quarto mandato a seguito di elezioni boicottate dalle opposizioni. [Aggiormanento: dopo le dimissioni e l’abbandono del paese da parte della prima ministra, l’incarico di guidare un nuovo governo ad interim è stato affidato, su pressione dei movimenti di protesta, al Premio Nobel Muhammad Yunus].
Fonti: The Free Press Journal, Peoples Dispatch, il Post, South China Morning Post.
Sabato 22 giugno alcune migliaia di persone hanno manifestato a Latina, nella giornata di sciopero indetto dalla CGIL per la morte di Satnam Singh. Il bracciante indiano di 31 anni, ferito gravemente da un macchinario mentre lavorava e abbandonato dal datore di lavoro davanti la sua abitazione, è deceduto in ospedale dopo due giorni l’incidente. Una seconda manifestazione, promossa da CISL e UIL con la partecipazione dell’USB, si è svolta sempre a Latina il 25 giugno.
La morte di Satnam Singh ha riportato al centro del dibattito lo sfruttamento lavorativo e il caporalato diffusi in numerose campagne italiane, a partire dall’Agro Pontino, dove vive e lavora una numerosa comunità indiana Sikh. I manifestanti hanno denunciato il carattere sistemico del problema, chiedendo anche la modifica delle norme in materia di immigrazione: rendendo molto difficile entrare e risiedere in Italia in modo legale, tali norme alimentano l’irregolarità e rendono le persone senza permesso di soggiorno estremamente vulnerabili allo sfruttamento.
Nella provincia di Latina sono registrate circa 10.000 aziende agricole, con 10.800 lavoratori a tempo determinato e poco meno di mille lavoratori a tempo indeterminato regolarmente assunti. Secondo le stime dei sindacati, il numero effettivo di braccianti è molto più alto – tra i 25.000 e i 30.000 – perché in migliaia lavorano senza contratto, molti senza permesso di soggiorno.
Alle manifestazioni hanno partecipato numerosi braccianti costretti a lavorare in condizioni estreme, con turni fino a 14 ore al giorno e una paga tra i 3 e i 4,5 euro l’ora. In piazza con la comunità indiana, per chiedere giustizia per le morti sul lavoro e politiche attive contro lo sfruttamento, anche la Rete degli Studenti.
Fonti: Adnkronos, Sole 24 ore, La Stampa, il Post.
L’8 giugno scorso alcune migliaia di persone si sono radunate a Puylaurens, nella regione francese sud-occidentale dell’Occitania, per manifestare ancora una volta contro la costruzione della A69: un’autostrada a pedaggio di 53 chilometri, che dovrebbe collegare Tolosa a Castres, in sostituzione dell’esistente Strada Statale 126. Gli attivisti hanno ignorato il divieto di manifestare emesso dal Prefetto, cercando di raggiungere un cantiere dell’autostrada, ma sono stati respinti dalle forze di polizia e, dopo aver cercato di proseguire su strade di campagna, sono stati allontanati coi gas lacrimogeni.
L’idea della nuova autostrada risale ai primi anni 2000, ma solo nel 2018 il governo ha dichiarato il progetto di “pubblica utilità”, dando avvio a procedure accelerate di autorizzazione. Le proteste si sono intensificate nel corso del 2023, quando sono iniziati i lavori, denunciando l’inutilità dell’opera e il suo pesante impatto ambientale, a partire dall’abbattimento di migliaia di alberi e la perdita di 343 ettari di terreni agricoli e di interesse naturalistico. Per gli attivisti il progetto contraddice gli impegni della Francia nella lotta al cambiamento climatico: in alternativa hanno proposto il potenziamento della statale esistente e del trasporto pubblico. Critiche sono state espresse dal Consiglio nazionale per la protezione della natura, che ha definito il progetto “anacronistico”, segnalando anche rischi per la salute legati all’inquinamento. Ma i ricorsi per fermare l’opera sono stati finora respinti.
Prima dell’8 giugno si erano svolte numerose manifestazioni contro l’A69. In un’occasione alcuni attivisti si erano arrampicati sui depositi di “fraisat”, materiale ricavato dal riciclaggio delle strade e destinato a costituire il manto della A69, reggendo cartelli coi nomi delle sostanze tossiche in esso contenute. Per impedire l’abbattimento di alberi, altri manifestanti si erano istallati tra i rami o avevano intrapreso uno sciopero della fame.
Fonti: Le Journal Toulousain, France Bleu, RTL FR, Politis.
Migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana, partiti dalla Tunisia verso l’Europa, vengono intercettati in mare e riportati a terra, per essere reclusi e poi abbandonati nel deserto al confine con l’Algeria. Un’inchiesta condotta da varie testate, tra cui IrpiMedia e Le Monde, ha documentato ciò che le organizzazioni per i diritti umani denunciano da tempo: gli “accordi di cooperazione” stretti dall’Unione Europea e da alcuni Stati membri, come l’Italia, con i paesi della sponda meridionale del Mediterraneo, come la Tunisia, comportano respingimenti collettivi illegali nel deserto, esponendo i migranti al rischio di violenze e di morte per fame e sete.
Desert dumps: rifiuti da scaricare nel deserto. Così vengono chiamati in gergo le vittime di queste politiche. Si tratta di una pratica diffusa in altri paesi oltre la Tunisia, come il Marocco e la Mauritania. Una volta intercettate o arrestate, spesso in base al colore della pelle, le persone vengono caricate su jeep e pullman, fatte accampare in zone poco abitate e poi espulse senza assistenza, acqua o cibo. In alcuni casi, le persone vengono cedute a trafficanti di esseri umani che chiedono un riscatto alle famiglie d’origine.
Le informazioni alla base del reportage provengono da più di 50 interviste ai sopravvissuti, che hanno fornito immagini e video sulla loro esperienza. Ma anche dalle testimonianze di attuali ed ex dipendenti dell’Unione Europea, nonché da fonti interne alle forze di polizia nazionali: le istituzioni europee sono consapevoli di tali violazioni dei diritti umani e, di fatto, le finanziano.
Fonti: Councill of Foreign Relations, EuNews, The current.
La lotta per il potere tra le forze armate sudanesi (SAF) e le forze di supporto rapido (RSF), organizzazione paramilitare che ha lottato in passato per conto del governo sudanese nella guerra in Darfur, dal 15 aprile 2023 è degenerata in un conflitto armato aperto.
Sia le agenzie delle Nazioni Unite, come l’UNHCR e l’UNICEF, che le principali organizzazioni umanitarie presenti, come Medici Senza Frontiere e International Rescue Committee (IRC), oltre a vari gruppi locali, denunciano una situazione drammatica: da aprile 2023 almeno 14.700 persone sono state uccise e altre 30.000 ferite. A causa degli estesi combattimenti, secondo l’UNHCR più di 8,8 milioni di persone sono sfollate, di cui 6,7 all’interno del paese. Nel Darfur in particolare le uccisioni e gli sfollamenti fanno temere una pulizia etnica.
La violenza indiscriminata è in aumento, compresi i casi di violenza sessuale. Decine di villaggi sono stati colpiti, numerosi sono stati rasi al suolo. I blocchi delle vie di comunicazione più importanti impediscono alle persone di fuggire in zone più sicure, costringendole a cercare rifugio in centri di accoglienza gravemente sovraffollati o in insediamenti informali privi di servizi.
25 milioni di persone in Sudan hanno bisogno di assistenza umanitaria. Il 70% degli ospedali non sono più funzionanti. Nel corso del 2024 circa 4 milioni di bambini sotto i 5 anni soffriranno di grave malnutrizione, mentre più del 90% dei 19 milioni di bambini di età scolare non avranno accesso all’istruzione formale.
Le Nazioni Unite continuano a chiedere la sicurezza dei civili, l’accesso sicuro per le agenzie umanitarie e la cessazione delle ostilità, ma la comunità internazionale non sembra interessata a intervenire per pacificare la situazione o, almeno, proteggere la popolazione.
Fonti: UNHCR, The National, The Guardian.
Sono sempre più numerose le università degli Stati Uniti in cui studenti, studentesse e personale docente spingono gli atenei a prendere posizione per il cessate il fuoco e la fine del genocidio a Gaza. I manifestanti chiedono di interrompere ogni collaborazione con aziende ed enti universitari israeliani coinvolti nell’occupazione e nell’attuale campagna militare, e denunciano gli ingenti stanziamenti del governo statunitense per l’invio di armi in Israele.
I primi a mobilitarsi sono stati gli studenti della Columbia University di New York che, il 17 aprile, hanno montato un accampamento di tende nel cortile del campus. Analoghe iniziative sono state prese, nelle settimane successive, in numerose altre università del paese, tra cui la Brown, Princeton, Harvard, la Northwestern, il MIT, Emerson, la University of North Carolina, la University of California e Berkeley.
Diversi senatori repubblicani hanno fatto pressioni su Biden affinché inviasse agenti federali per reprimere le manifestazioni. Alla Columbia la polizia locale è intervenuta per sgomberare gli accampamenti su richiesta della governance universitaria. Sono centinaia gli studenti e le studentesse arrestate con l’accusa di occupare spazi privati e svolgere propaganda antisemita. Numerosi docenti, tra cui quelli della NYU, hanno respinto il movente antisemita delle manifestazioni: tra l’altro, a queste come ad altre iniziative per il cessate il fuoco, hanno preso parte attivisti dei movimenti ebraici per la pace.
La repressione delle manifestazioni ha sollevato un acceso dibattito negli Stati Uniti sulla libertà di espressione nei campus e sul diritto di protesta pacifica. La popolazione di Gaza, invece, ha ringraziato gli studenti e le studentesse per la loro solidarietà.
Fonti: The Guardian, The Guardian, CBC, Al Jazeera, CNN.
L’inazione dei governi contro la crisi climatica viola i diritti fondamentali. Lo ha stabilito la Corte Europea per i Diritti Umani di Strasburgo, martedì 9 aprile, in una sentenza già definita storica.
Non adottando misure efficaci per contrastare il cambiamento climatico, i governi vengono meno a impegni da loro stessi sottoscritti e generano un rischio per la salute delle persone, protetta dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sul rispetto della vita privata e familiare. I giudici hanno contestato anche la violazione dell’articolo 6 paragrafo 1 della stessa Convenzione, che tutela il diritto di accesso alla giustizia.
Il caso è stato intentato contro la Svizzera dall’associazione Klima Seniorinnen (Donne anziane per il clima), supportata da Greenpeace. A presentare formalmente il ricorso quattro donne dell’associazione, composta da circa 2400 over 65. La scelta di rappresentare questa fascia d’età è supportata da diversi studi scientifici sui pericoli che le ondate di calore comportano per la salute delle persone anziane.
La sentenza non avrà conseguenze pratiche immediate (a parte l’ordine al governo federale svizzero di pagare ottantamila euro per le spese legali): i paesi aderenti alla Convenzione sono obbligati ad applicare le decisioni della Corte, ma godono di un ampio margine di scelta sulle misure specifiche da adottare.
La decisione è stata accolta con entusiasmo dai sostenitori presenti, tra cui Greta Thunberg. Si tratta di un precedente importante, che potrebbe influenzare le tante cause climatiche avviate, in Europa e in altri continenti, nonché ulteriori azioni legali contro l’inazione dei governi.
Fonti: Euronews, Reuters, la Regione.
È iniziato in tutto il mondo il Ramadan, il nono mese lunare del calendario islamico in cui i musulmani celebrano la rivelazione del Corano a Maometto. I credenti si astengono durante il giorno dal mangiare e dal bere, dedicandosi alla lettura del Libro, alla meditazione e ad atti di solidarietà. Il Ramadan è tradizionalmente anche un periodo di condivisione e di festa: si decorano le case con le lanterne (fanous), simbolo della luce della rivelazione, e le famiglie si riuniscono prima dell’alba per consumare il pasto mattutino (suhoor) e dopo il tramonto per rompere il digiuno (iftar).
Quest’anno sulle celebrazioni pesano le crescenti sofferenze vissute dalla popolazione palestinese nella Striscia di Gaza, dove più di due milioni di persone sono sotto un assedio totale da parte di Israele dopo gli attacchi del 7 ottobre: mentre i massicci bombardamenti hanno ucciso finora più di 30.000 persone e distrutto più dell’80% degli edifici, il blocco degli aiuti alimentari sta affamando la popolazione.
Nonostante la difficilissima situazione, Gaza celebra il Ramadan con dignità, alternando paura e speranza. In molte parti del mondo, le comunità musulmane stanno dedicando i digiuni e le preghiere di quest’anno al popolo palestinese, chiedendo il cessate il fuoco immediato e permanente, e l’ingresso di adeguati aiuti umanitari nella Striscia.
Fonti: New York Times; US News; Reuters.
La libertà d’informazione è uno dei principi fondamentali della democrazia, ma è sempre più a rischio anche nei paesi occidentali, come mostra la vicenda di Julian Assange.
Giornalista australiano, Assange è cofondatore di WikiLeaks, organizzazione nata nel 2006 e oggi attiva su X/Twitter, che divulga sul proprio sito documenti di interesse pubblico coperti da segreto di Stato, militare o bancario.
Dal 2010 al 2014, grazie alle rivelazioni di Chelsea Manning, WikiLeaks ha reso pubblici oltre 250.000 cablogrammi diplomatici statunitensi (Cablegate) che rivelavano le pressioni esercitate su altri paesi, oltre 400.000 documenti relativi alla guerra in Iraq e in Afghanistan (War Logs) con resoconti di torture e uccisioni illegali, e un rapporto sulle tecniche di tortura utilizzate dalla CIA durante l’amministrazione Bush (Torture Report).
Accusato di aver violato l’Espionage Act, una legge federale del 1917 che punisce la divulgazione di notizie classificate, dall’aprile 2019 Assange è detenuto a Londra in attesa che la Royal Court of Justice britannica si pronunci in via definitiva sulla richiesta di estradizione da parte degli Stati Uniti. Nel caso in cui venisse estradato, Assange rischia una condanna a 175 anni di prigione per aver messo a rischio, con le sue pubblicazioni, la sicurezza nazionale.
A difesa di Assange e della libertà d’informazione, in attesa che la Corte di Londra si pronunci, si sono svolte numerose intorno al 21 febbraio 2024 manifestazioni in tutto il mondo. La condanna del fondatore di WikiLeaks, sostengono i manifestanti, avrebbe pesanti ripercussioni sul giornalismo a livello globale: quanti editori saranno indotti ad auto-censurarsi e a censurare i propri collaboratori per evitare denunce e condanne così pesanti?
Fonti: Associated Press, Al Jazeera.
Rafah, città a Sud della Striscia di Gaza al confine con l’Egitto, è l’attuale obiettivo delle operazioni militari israeliane di aria e di terra. Negli ultimi tre giorni almeno 100 persone sono state uccise dai bombardamenti e più di 200 risultano ferite, mentre il sistema sanitario è incapace di far fronte alle continue richieste di soccorso.
Prima dell’escalation Rafah aveva una popolazione di 250.000 persone. Da quando l’esercito israeliano ha iniziato ad attaccare la Striscia, ordinando ai civili di evacuare sempre più verso Sud, la popolazione è cresciuta fino a 1,5 milioni, con migliaia di persone che vivono in tende e alloggi improvvisati.
Rafah è l’ultima di una serie di aree dichiarate “zone sicure” per i civili, successivamente attaccate. Ma è anche il punto della Striscia da cui entrano quei pochissimi aiuti umanitari ammessi, che alleviano una situazione ormai estrema di fame e carenza di medicinali. Secondo Tommaso Della Longa, portavoce della Federazione Internazionale di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa, “già non ci sono le condizioni per distribuire gli aiuti in sicurezza. Un attacco di terra a Rafah sarebbe una catastrofe”.
Per sfuggire ai bombardamenti e all’annunciato attacco di terra, migliaia di persone si stanno nuovamente spostando da Rafah verso l’area centrale di Gaza, ma molte altre non sanno dove andare, né intendono più spostarsi. Dal 7 ottobre a oggi, circa il 90% della popolazione della Striscia ha dovuto abbandonare le proprie abitazioni, più del 60% di tutte le infrastrutture civili sono state distrutte, più di 28.300 persone sono state uccise e 68.000 ferite.
Fonti: Los Angeles Times, CNN, The Intercept, Financial Times, BBC.
Lo scorso 3 febbraio, a quasi due anni dalla partenza dei primi soldati russi per il fronte ucraino, si è svolto a Mosca un presidio promosso dalla rete “Put’ Domoi” (La strada verso casa): un movimento di vedove e mogli di soldati che, dallo scorso novembre, si danno periodicamente appuntamento ai Giardini d’Alessandro per deporre garofani rossi sulla Tomba del Milite Ignoto, presso le Mura del Cremlino.
Sul canale Telegram del movimento, che conta quasi 40.000 membri, è stato pubblicato un manifesto contro la “mobilitazione indefinita” denunciata come una forma di “schiavitù”. “Non siamo interessate a destabilizzare la situazione politica russa. Siamo determinate a far tornare a casa i nostri uomini, a ogni costo”, ha dichiarato il mese scorso un’attivista della rete in un video-appello indirizzato al Presidente Vladimir Putin.
“Put’ Domoi” si ispira al movimento argentino delle Madri di Plaza de Mayo, che per anni ha manifestato contro le sparizioni politiche avvenute sotto la dittatura militare. Il velo bianco delle madri argentine – ripreso adesso dalle donne russe contro la guerra – è diventato un simbolo della lotta per avere “verità e giustizia” per i propri familiari.
Finora le manifestazioni si erano svolte senza l’intervento della polizia. Il 3 febbraio, invece, le forze di sicurezza si sono avvicinate alla manifestazione, più partecipata del solito, interrompendola. 27 persone sono state arrestate e poi rilasciate: tutti uomini, soprattutto giornalisti che stavano documentando l’evento. Natalia Prilutskaya, ricercatrice di Amnesty International, ha denunciato queste azioni come una violazione della libertà di stampa e del diritto di riunione pacifica.
Fonti: Reuters, The Moscow Times.
Mercoledì 24 gennaio più di un milione di lavoratrici e lavoratori, coordinati dalla Confederazione Generale del Lavoro (CGT) e supportati da vari movimenti sociali e politici di opposizione, hanno scioperato per 12 ore in tutta l’Argentina, manifestando nel cuore di Buenos Aires e in varie città del paese. Lo sciopero generale è il primo dal 2019.
La protesta si è indirizzata contro le prime misure promosse dal neo-eletto presidente Javier Milei, tra cui il disegno di legge “omnibus” e un “mega-decreto” volto a “deregolamentare” l’economia, con l’obiettivo di ridurre le tutele del mondo del lavoro, di svalutare la moneta e di privatizzare le ultime aziende pubbliche. Milei porta avanti una visione radicale di liberismo: sostiene che tali misure siano necessarie per ridurre il debito pubblico, che include un problematico accordo da 44 miliardi di dollari con il Fondo Monetario Internazionale, e per abbassare l’inflazione, che a dicembre scorso ha raggiunto il 211% su base annua.
Pablo Moyano, leader del potente sindacato dei camionisti, ha espresso una netta opposizione a questo programma durante la manifestazione di Buenos Aires: “Il primo taglio che questo governo sta facendo è ai lavoratori”. Nonostante gli scioperi abbiano colpito molti settori a partire dai trasporti (la compagnia di bandiera Aerolíneas Argentinas ha dichiarato di aver cancellato tutti i voli programmati), il governo di Milei ha annunciato di voler proseguire col suo piano di “riforme”.
Fonti: Associated Press, Publico.
La notte del 14 gennaio Bernardo Arévalo, sociologo, ex diplomatico e attivista anti-corruzione, ha giurato come nuovo presidente del Guatemala: un esito non scontato, visto che da quando il leader del “Movimiento Semilla” ha vinto a sorpresa al secondo turno, lo scorso agosto, ha dovuto affrontare l’ostruzionismo dell’establishment, che ha posto ripetuti ostacoli al suo insediamento. I risultati elettorali erano stati impugnati, ma poi confermati; il movimento del presidente era stato sospeso per irregolarità statutarie, poi non confermate; il Parlamento aveva cercato di privare Arévalo dell’immunità.
In questi mesi di timori per un “golpe legale”, è nato dalle comunità indigene del paese un movimento di resistenza a difesa del risultato elettorale e dei principi democratici. Per più di 100 giorni migliaia di persone hanno occupato strade e piazze nella capitale e in altre città del paese per chiedere il rispetto della volontà popolare. I promotori del movimento hanno ribadito il loro carattere apartitico e il loro fermo impegno nella difesa dei diritti.
Durante la cerimonia di insediamento Bernardo Arévalo ha espresso la sua gratitudine alle comunità indigene che hanno difeso la democrazia. Il nuovo governo è il primo della storia del Guatemala con uguale numero di uomini e donne, anche se il nuovo presidente è stato criticato per aver incluso soltanto una persona indigena tra i ministri. Tra le sue priorità, oltre alla lotta alla corruzione, figurano la sanità e l’istruzione pubblica.
Fonti: El País English, Truthout, New York Times, El Faro, Peoplesdispatch.
Sabato sera 6 gennaio migliaia di manifestanti si sono radunati a Tel Aviv, riempiendo Habima Square con slogan, striscioni e cartelli, per chiedere le dimissioni del primo ministro Benjamin Netanyahu e l’indizione di nuove elezioni.
Dopo quasi tre mesi dall’attacco a sorpresa di Hamas e l’inizio della guerra su Gaza, in assenza di progressi concreti per la liberazione degli oltre 130 ostaggi ancora prigionieri, il malcontento verso il governo sta crescendo. Le proteste sono collegate anche alla recente decisione della Corte Suprema Israeliana che, il 1° gennaio, ha bocciato uno dei punti più controversi della riforma della giustizia fortemente voluta dal capo del governo. Ma sono alimentate anche dal conflitto in corso tra il governo e l’esercito, che ha formato una commissione interna di ex ufficiali per indagare sugli errori che hanno portato al 7 ottobre.
Mentre la manifestazione principale si svolgeva a Tel Aviv, altre più piccole avevano luogo ad Haifa, a Cesarea davanti alla residenza privata di Netanyahu, a Gerusalemme davanti la residenza privata del Presidente della Repubblica Isaac Herzog. Gli organizzatori affermano che alle proteste hanno aderito circa complessivamente 20.000 persone. Oltre alle immagini degli ostaggi, mostrate dai familiari e dai loro sostenitori, i manifestanti hanno mostrato cartelli con slogan come “Democrazia in pericolo” e “Insieme contro il fascismo e l’apartheid”, ma anche “Cessate il fuoco adesso”. La giornalista Sara Khairat (Al Jazeera) ha descritto queste proteste come “un fatto senza precedenti”: dopo lo shock del 7 ottobre, tutti erano d’accordo col governo, comprese le opposizioni, sulla necessità di “essere uniti in un momento di conflitto”.
Fonti: Times of Israel, Al Jazeera, Middle East Monitor.
Attivisti/e climatici di tutto il mondo hanno organizzato numerosi eventi di rivendicazione in occasione della Cop28, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, svoltasi a Dubaidal 30 novembre. Azioni pubbliche di questo tipo sono inusuali negli Emirati Arabi Uniti, essendo le attività di partiti politici e sindacati di fatto vietate nel paese, e la libertà di stampa limitata.
I/le manifestanti hanno portato l’attenzione sulla necessità di interventi strutturali per contenere l’aumento delle temperature e mitigare gli effetti della crisi climatica. In particolare, hanno chiesto di vietare i sussidi pubblici all’industria del fossile, di ridurre la produzione e l’uso di armi (sottolineando il nesso tra militarismo e cambiamento climatico), di finanziare in modo adeguato il fondo istituito per risarcire i paesi più vulnerabili, di proteggere le popolazioni indigene minacciate di ecocidio.
In relazione alla guerra in corso su Gaza, alcuni/e manifestanti hanno anche dispiegato uno striscione chiedendo il cessate il fuoco immediato e duraturo.
Fonte: The Guardian
La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, a pochi giorni dal femminicidio di Giulia Cecchettin, ha chiamato più di 500.000 persone nelle strade di Roma e di altre città. Promotrice del 25 novembre è stata, anche quest’anno, “Non una di meno”: il percorso transfemminista avviato nel 2016, ispirato dalla campagna “Ni una di menos” nata in Argentina l’anno prima.
Partito dal Circo Massimo verso Piazza San Giovanni, il corteo romano ha visto una “marea” di donne di tutte le età, identità e provenienze, con la presenza di uomini solidali, consapevoli della necessità di promuovere una mascolinità alternativa a quella patriarcale: nei casi più gravi, questa mascolinità “tossica” conduce al femminicidio (107 in Italia nell’anno in corso) ma, nella “normalità” quotidiana, alimenta stereotipi, discriminazioni e abusi troppo spesso sottovalutati.
Da molti interventi è emersa la consapevolezza che la violenza contro le donne non è una disgrazia, ma rispecchia la struttura della società: non ha solo natura fisica, ma anche economica, politica, culturale e psicologica. In questo senso, la guerra è stata denunciata come “l’espressione più alta del patriarcato”. Le misure adottate dal governo sono state criticate per la loro natura repressiva o ideologica, come tali inefficaci rispetto alle cause del problema e distanti dai bisogni delle donne: un reddito di autodeterminazione, garanzie per il diritto all’abitare, una vera educazione alle differenze nelle scuole, un accesso libero all’aborto.
La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne è stata istituita nel 1999 dalle Nazioni Unite per ricordare le sorelle Mirabal – Patria, Minerva e Maria Teresa : tre attiviste politiche dominicane uccise il 25 novembre 1960 per ordine del dittatore Rafael Leónidas Trujillo.
Fonti: Agenzia Dire, Open, il manifesto.
“Marcia per gli ostaggi”: così è stata chiamata la manifestazione delle famiglie delle persone scomparse o rapite da Hamas il 7 ottobre. Iniziata martedì 14 novembre a Tel Aviv e conclusasi il sabato successivo a Gerusalemme, la marcia a piedi ha visto la partecipazione di almeno 30.000 persone. Tramite i loro portavoce e i cartelloni esposti, i/le partecipanti hanno ribadito la loro richiesta al governo di avviare una trattativa per la liberazione dei propri cari.
Nel corteo non sono mancate critiche al governo, accusato di non fare abbastanza e di mettere a repentaglio la trattativa con la prosecuzione dei bombardamenti indiscriminati su Gaza. “Non ci vengono date abbastanza informazioni. Siamo sprofondati nell’oscurità. Vogliamo risposte” ha detto il nipote di una delle donne rapite. “Affinché le cose cambino è necessaria una pressione esterna, perché la maggior parte degli israeliani non sono consapevoli di quel che avviene a Gaza”, ha affermato un altro partecipante alla marcia. Alla partenza e all’arrivo i parenti degli ostaggi hanno esposto le foto dei loro cari, cantando “We won’t give up!” e “We demand the hostages’ release!”.
Al loro ingresso a Gerusalemme i manifestanti sono stati accolti con palloncini gialli con sopra scritto #Bringthemhomenow, lo slogan del Forum delle famiglie degli ostaggi e dei dispersi. La marcia si è conclusa sotto l’ufficio di Benjamin Netanyahu, chiedendo un incontro col capo del governo. Secondo le informazioni disponibili, gli ostaggi a Gaza sarebbero tra 200 e 240, ma alcuni sarebbero morti nei bombardamenti.
Negli ultimi giorni si era diffusa la notizia di un accordo quasi raggiunto tra le parti, con la mediazione di Qatar, Stati Uniti ed Egitto, per liberare 50 ostaggi tra donne e minori in cambio di un cessate il fuoco di 5 giorni su Gaza e il rilascio di donne e minori palestinesi arrestati in Israele e Cisgiordania. I negoziati erano stati sospesi da Hamas a causa dell’assedio israeliano all’ospedale Al Shifa, ma sono poi ripresi: il 22 novembre è stato annunciato il raggiungimento di un accordo.
Fonti: Times of Israel, Reuters, Northwest Arkansas Democrat Gazette.
A partire dagli anni ‘70 milioni di afgani si sono rifugiati in Pakistan per sfuggire ai ripetuti conflitti e alle crisi politiche nel paese. Col ritorno dei Talebani al potere, nell’agosto 2021, questi movimenti sono ripresi in modo significativo, raggiungendo la cifra di almeno 600.000 persone.
La condizione dei profughi afgani in Pakistan è sempre stata precaria, anche dal punto di vista giuridico, ed è stata segnata da discriminazioni e abusi. Tuttavia, il 17 settembre 2023 il governo ha ingiunto a tutti i “cittadini stranieri non registrati” (stimati in almeno 1,7 milioni) di lasciare il Pakistan entro il 1. novembre, pena la detenzione in appositi centri di espulsione. Nelle ultime settimane decine di migliaia di afgani, alcuni dei quali residenti da lungo tempo in Pakistan, hanno lasciato le loro case per rientrare in Afghanistan: secondo i dati ufficiali, dal 17 settembre più di 170.000 afgani hanno lasciato il paese.
Le autorità pakistane hanno giustificato il provvedimento come una risposta alla crisi economica e ai problemi di sicurezza del paese, messa a repentaglio da milizie che utilizzano l’Afghanistan per compiere attacchi in Pakistan. Livia Saccardi, vicedirettrice delle campagne di Amnesty International in Asia meridionale, ha criticato questa scelta: “Migliaia di profughi afgani sono usati come pedine politiche e rimandati nell’Afghanistan dei talebani, dove la loro vita e la loro incolumità fisica potrebbero essere in pericolo per via della crescente repressione dei diritti umani e della catastrofe umanitaria in corso. Nessuna persona dovrebbe essere sottoposta a espulsioni di massa e il Pakistan farebbe bene a tener presenti i suoi obblighi di diritto internazionale, compreso il principio di non-respingimento”.
Fonti: Hasht-E Subh, Washington Post.
Il 27 ottobre migliaia di persone, mobilitate dal movimento pacifista ebraico come Jewish Voice for Peace, hanno occupato pacificamente l’atrio della Grand Central Station a New York per chiedere il cessate il fuoco immediato e la fine dei bombardamenti israeliani su Gaza. Gli attivisti e le attiviste indossavano magliette nere con le scritte “Jews say ceasefire now” e “Not in our name”, come già avvenuto nell’occupazione pacifica del Campidoglio, a Washington, la settimana scorsa. L’atrio è stato coperto con striscioni come “Never again for everyone” e “Palestinians should be free”. All’interno e all’esterno della Grand Central i manifestanti hanno scandito a lungo slogan come “Let Gaza live”, mentre #CeasefireNOW diventava il più grande trending topic su X/Twitter. In un primo momento la polizia ha cercato di evitare l’occupazione fermando tutti coloro che erano sprovvisti di biglietto. Successivamente è intervenuta arrestando circa 400 persone. Il sit-in è stato il più grande atto di disobbedienza civile che New York abbia visto negli ultimi vent’anni e ha reso omaggio all’iconica occupazione della Grand Central Station da parte di ACT UP nel 1991 contro la Guerra del Golfo e l’inazione del governo statunitense per salvare le vite delle persone che morivano di AIDS.
Fonti: Associated Press, Al-Jazeera, New York Post.
Il 7 ottobre un terremoto di magnitudo 6,2 ha devastato il Nord-ovest dell’Afghanistan. Secondo l’ONU, il bilancio è di 1.300 morti e 500 dispersi: molte delle vittime sono donne. Nel distretto rurale di Zenda Jan, 11 villaggi sono stati totalmente distrutti. Dopo il disastro, 693 donne e 350 bambini sono stati trasferiti in rifugi temporanei a Herat. La situazione è stata esacerbata da un altro terremoto di magnitudo 6.3, seguìto al primo. E la coincidenza con lo scontro armato in corso tra Hamas e Israele ha poi oscurato quasi del tutto la notizia.
L’Unione Europea ha stanziato aiuti per 3,5 milioni di euro e le Nazioni Unite hanno destinato 5 milioni di dollari dal loro Fondo Umanitario per l’Afghanistan. Diverse fonti indicano che le operazioni di soccorso sono state rallentate da carenze di risorse, mezzi e adeguata organizzazione.
Il terremoto ha colpito una regione dell’Afghanistan già provata da anni di conflitti armati. Con il ritorno al potere dei Talebani, nell’agosto 2021, e con l’isolamento internazionale del paese, la popolazione affronta una grave crisi umanitaria, cui si sommano forti limitazioni ai diritti delle donne. Le politiche discriminatorie dei Talebani hanno influenzato anche la cooperazione internazionale: l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari ha tagliato il suo piano di aiuti da 4,6 a 3,2 miliardi, e di questa somma, solo il 34% è stato finora effettivamente distribuito.
Fonti: Il post; BBC; ANSA; Il Post. Internazionale
Nella Giornata globale di azione per l’aborto legale, sicuro e accessibile, il 28 settembre si sono svolte mobilitazioni in numerose capitali dell’America centrale e meridionale. La Giornata è stata istituita a novembre 1990 durante il V Incontro Femminista Latinoamericano e dei Caraibi. La data ricorda il 28 settembre 1888 quando, in Brasile, è stato garantito lo stato libero a tutti i nati da donne in condizione di schiavitù.
Nonostante alcuni recenti progressi, i diritti sessuali e riproduttivi, incluso l’aborto, sono esposti a ostacoli, attacchi e battute di arresto in tutta l’America Latina. Nei vari paesi le manifestazioni del 28 settembre hanno assunto specifiche rivendicazioni, espressione del diverso stato di avanzamento dei diritti delle donne in materia di autodeterminazione.
In Messico, ad esempio, la gioia per le recenti sentenze della Corte Suprema che hanno depenalizzato l’aborto a livello federale coesiste con le difficoltà di accesso effettivo all’interruzione di gravidanza in tutti gli Stati. In Argentina si teme la regressione delle libertà riproduttive delle donne in caso di vittoria delle destre alle prossime elezioni, mentre in Cile le donne difendono la legge in vigore sull’aborto dagli attacchi delle forze conservatrici. In Salvador si chiede l’abrogazione dell’attuale normativa che criminalizza ogni tipo di aborto, mentre in Brasile si lotta per la depenalizzazione dell’aborto fino alla dodicesima settimana. In Ecuador si contesta l’introduzione di una estensiva obiezione di coscienza, che limita l’accesso all’aborto consentito dal 2021 in casi specifici. In Venezuela si chiede la piena legalizzazione dell’aborto, attualmente consentito solo in caso di stupro o di pericolo per la salute della madre.
Fonti: AP News, AP News, El orden mundial
A Brasilia e in altre parti del paese i movimenti indigeni hanno celebrato la storica sentenza della Corte Suprema Federale che, lo scorso 21 settembre, ha dichiarato incostituzionale il principio del “marco temporal” : in base a questo principio, fortemente voluto dal settore dell’agrobusiness, i popoli indigeni impossibilitati a dimostrare di abitare nelle loro terre alla data del 5 ottobre 1988 (giorno della promulgazione dell’attuale Costituzione brasiliana), avrebbero perso il diritto a vedere quelle terre “demarcate”, ossia protette ufficialmente dall’occupazione di terzi.
Per la presidente della Fondazione nazionale dei popoli indigeni (FNPI), Joenia Wapichana, i diritti dei popoli indigeni sono stati finalmente riconosciuti. “È una vittoria storica”, ha dichiarato Sonia Guajajara, coordinatrice esecutiva dell’Articolazione dei Popoli Indigeni del Brasile (APIB). “La Corte Suprema ha riconosciuto che i popoli indigeni hanno diritto alle loro terre ancestrali, indipendentemente da quando sono stati sfollati”.
Il caso è arrivato alla Corte Suprema grazie alla lotta del popolo Xokleng per riconquistare parte del Territorio indigeno Ibirama La Klãnõ, su cui aveva avanzato pretese l’Istituto Ambientale Santa Catarina (Ima). Secondo la Fondazione Nazionale dell’Indio (FUNAI), l’organo del governo brasiliano preposto e elaborare e implementare politiche riguardanti i popoli indigeni, sono almeno 736 le aree abitate da comunità originarie, corrispondenti a circa il 13,75% del territorio nazionale.
La sentenza ha rappresentato un’importante vittoria per le popolazioni indigene brasiliane, ma la battaglia è ancora lunga: il caso ora si sposta al Congresso di Brasilia, dove è in corso una discussione sullo stesso argomento e dove i parlamentari (in maggioranza conservatori) possono ancora approvare una legge che, in teoria, potrebbe porsi in contrasto con la decisione dei giudici supremi.
Fonti: Al Jazeera, Fuser News, France24, Guia do estudante, Greenpeace.
A una settimana dall’alluvione che ha devastato la città libica di Derna, dopo che l’uragano Daniel ha fatto crollare due dighe a monte, la situazione resta molto grave.
Non c’è accordo sul numero delle vittime. Mentre le fonti ufficiali hanno annunciato 3.252 morti, le Nazioni Unite hanno parlato di circa 11.300 morti e almeno 10.100 dispersi. Le ricerche delle persone scomparse proseguono, anche in mare. Una volta recuperati, i corpi vengono ormai sepolti in fosse comuni.
Più di 30.000 persone sono senza casa. Dei 1.500 edifici danneggiati sui 6.100 totali, 891 sono completamente distrutti, 211 parzialmente distrutti e 398 sono sommersi dal fango. In tutta la città manca l’acqua potabile e almeno 55 bambini sono rimasti intossicati dopo aver bevuto acqua inquinata. Si teme l’esplosione di focolai di colera. Numerose organizzazioni umanitarie, da InterSOS a Medici Senza Frontiere, sono già mobilitate per portare sollievo alla popolazione. L’Unione Europea ha stanziato 5,2 milioni di euro in aiuti.
L’alto numero di vittime ha molte cause. Le autorità locali hanno sottovalutato i rischi connessi all’uragano (a sua volta collegato al cambiamento climatico) e non hanno predisposto un’evacuazione generale. Le dighe che hanno ceduto non erano oggetto di manutenzione da quasi due decenni: la guerra civile e la divisione di fatto della Libia, seguite all’intervento della NATO che nel 2011 ha messo fine al regime di Gheddafi, hanno ridotto gli investimenti pubblici nelle infrastrutture e nei sistemi di emergenza.
L’alluvione ha colpito una città già duramente segnata dalla violenza armata negli anni precedenti. Tradizionalmente ritenuta la capitale culturale della Cirenaica, tra il 2014 e il 2015 Derna è stata occupata dai miliziani di Daesh, per essere poi assediata fino al 2019 dalle truppe del generale Khalifa Haftar, di cui non voleva riconoscere l’autorità.
Fonti: Reuters, The Independent, Associated Press.
Da mesi le ambasciate eritree nel mondo organizzano un festival per i trent’anni dell’indipendenza del paese. L’evento organizzato il 2 settembre a Tel Aviv ha provocato forti proteste da parte di alcune migliaia di richiedenti asilo eritrei, che vi hanno visto una celebrazione del dittatore Isaias Afewerki. Proteste analoghe si sono verificate anche in altri paesi, dal Canada alla Svezia.
Nel rione dell’ambasciata eritrea di Tel Aviv sono scoppiati violenti scontri tra i dissidenti e i sostenitori del governo. La polizia è intervenuta con granate stordenti, lacrimogeni, cariche e proiettili di gomma. Tra gli oltre 160 feriti, 15 sono in gravi condizioni e 3 sono stati colpiti da armi da fuoco. Il Primo Ministro Netanyahu ha condannato gli incidenti, annunciando l’espulsione di tutti gli eritrei coinvolti.
La tensione è da tempo alta tra gli eritrei in Israele, molti dei quali vivono nelle aree degradate della capitale. Le domande d’asilo vengono spesso respinte e le discriminazioni sono quotidiane. Inoltre gli oppositori del regime denunciano di essere spiati dall’ambasciata e da alcuni “infiltrati”.
La vice Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, Nada Al-Nashif, ha affermato a marzo scorso che la situazione in Eritrea rimane molto grave, caratterizzata da torture, detenzioni arbitrarie e sparizioni di dissidenti politici, e da restrizioni alle libertà di espressione, di associazione, di culto e di riunione. Molti giovani lasciano il paese per sfuggire a un servizio militare obbligatorio prolungato, associato a forme di lavoro forzato.
Fonti: The Jerusalen Post, The Guardian, AP News, The Times of Israel.
Negli ultimi dieci giorni d’agosto hanno avuto luogo ripetute manifestazioni anti-governative nel Sud della Siria, a partire dalla città di Suweida abitata in maggioranza da Drusi, seguaci di una dottrina monoteista che unisce elementi dell’islam, dell’ebraismo e del cristianesimo: le piazze si sono riempite di bandiere druse, ma anche di cartelli contro Assad (che in passato aveva goduto del sostegno di questa minoranza religiosa).
Le proteste hanno un’immediata ragione economica: una profonda crisi colpisce l’intero paese, per gli effetti della devastante guerra civile e delle sanzioni occidentali: si stima che quasi il 90% della popolazione siriana viva oggi sotto la soglia di povertà. Ad alimentare le ultime manifestazioni è stata la decisione del governo di tagliare i sussidi per il carburante, considerati vitali dalla popolazione alle prese con una forte inflazione.
Le proteste sono successivamente diventate più politiche. Tra le richieste delle piazze anche quella di ottenere la scarcerazione dei prigionieri politici e conoscere la verità sulla sorte delle persone scomparse nell’ultimo decennio, vittime della repressione governativa.
A distanza di qualche giorno, proteste analoghe si sono svolte anche in altre città del Nord del paese, come Aleppo e Idlib, dove i manifestanti hanno intonato i canti dei movimenti rivoluzionari del 2011 e sventolato il tricolore verde, bianco e nero con tre stelle rosse al centro, emblema dell’indipendenza siriana dal colonialismo, che però il regime considera simbolo dei “ribelli” attivi nella Siria settentrionale.
Fonti: Now Lebanon, Associated Press, Internazionale.
La frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti continua a essere al centro dell’attenzione da parte di entrambi i governi: nonostante la diminuzione del numero totale degli attraversamenti non autorizzati da parte di singoli e famiglie provenienti da molti paesi dell’America centrale e meridionale, non si fermano le politiche di militarizzazione del confine.
L’Operazione “Lone Star”, avviata dal governatore del Texas Greg Abbott, prevede anche l’installazione di una barriera di boe e filo spinato lungo il Rio Bravo, noto anche come Rio Grande, che segna oltre 3.000 km di confine tra il Messico e gli Stati Uniti. L’operazione è costata finora almeno 4,4 miliardi di dollari. Chi riesce a superare il confine viene trasferito forzatamente verso le cosiddette “città santuario”, in cui varie organizzazioni per i diritti offrono rifugio agli immigrati senza permesso di soggiorno.
Il governo messicano ha contestato l’operazione dal punto di vista legale: le barriere sul Rio Grande potrebbero violare il Trattato sulle acque internazionali del 1944 in base al quale qualsiasi intervento sul fiume deve essere approvato dalla Commissione Internazionale apposita. Secondo le organizzazioni per i diritti e molti esperti, anche questa ennesima militarizzazione del confine non rallenterà in modo significativo le migrazioni non autorizzare, ma finirà per rendere i viaggi più insicuri e rinforzare le organizzazioni criminali dedite al traffico di esseri umani.
Fonti: Telemundo.com, Los Angeles Press, Talcualdigital.com, Aristegui noticias, Períodico La Voz.
Lunedì 3 luglio il governo israeliano ha lanciato l’operazione “Casa e giardino”. L’attacco militare su larga scala ha come obiettivo ufficiale la neutralizzazione di “cellule terroristiche” presenti nel campo profughi di Jenin, nel Nord dei Territori Occupati della Cisgiordania. L’operazione, iniziata con bombardamenti da parte di aerei e droni e proseguita con il dispiegamento di 1.000 uomini di varie forze speciali, ha causato la morte di 12 palestinesi – di cui 3 adolescenti – e più di 100 feriti – di cui 17 molto gravi. Più di 3.000 abitanti del campo, distrutto e incendiato in più punti, sono stati costretti a una precipitosa fuga. Il campo di Jenin ospita oggi quasi ventimila persone. È stato fondato nel 1953 dal governo della Giordania per ospitare i palestinesi espulsi durante la Nakba, la “catastrofe”, com’è conosciuta e ricordata tra i Palestinesi la guerra arabo-israeliana del 1948 che ha causato, secondo le Nazioni Unite, l’emigrazione forzata di 711 mila persone: metà della popolazione araba della Palestina dell’epoca. Non è la prima volta che il campo profughi di Jenin è attaccato duramente dalle forze israeliane, che vi individuano una delle principali basi logistiche della resistenza armata palestinese. Già il 20 giugno scorso 7 palestinesi erano stati uccisi durante un raid. E qui, l’11 maggio dello scorso anno, la corrispondente di Al Jazeera Shireen Abu Akleh è stata uccisa da un colpo sparato da un soldato israeliano.
Fonti: …., …., ….
Giugno è il mese dell’orgoglio LGBTQIA+: si ricordano “i moti di Stonewall” con cui, la notte del 28 giugno 1969, la comunità ha reagito all’ennesima retata della polizia di New York, rivendicando il diritto di avere diritti. In numerosi paesi del mondo si sono svolte o si stanno svolgendo manifestazioni: domenica 26 giugno centinaia di attivisti e attiviste hanno partecipato al Pride di Istanbul, sfidando governo e prefetto. La polizia ha transennato gran parte del centro per dissuadere i partecipanti, che hanno aggirato gli ostacoli sfilando per altre strade della città. Non ci sono stati scontri, come in precedenti edizioni del Pride, ma oltre 40 attivisti (89 secondo gli organizzatori) sono stati arrestati. Nils Muižnieks, direttore di Amnesty International Europa, ha dichiarato: “L’aumento della retorica anti-LGBT da parte del governo ha contribuito ad alimentare pregiudizi e ha rinforzato i gruppi anti-LGBT. Col pretesto di proteggere i valori della famiglia – ha aggiunto – le autorità stanno negando alle persone LGBT il diritto di vivere liberamente”. In Turchia l’omosessualità è legale dall’epoca ottomana (1858), ma non ci sono norme contro la discriminazione né per il riconoscimento delle unioni omosessuali o delle famiglie omogenitoriali.
Fonti: Deutsche Welle, Reuters,The Guardian.
Il Canada sta vivendo una stagione di incendi boschivi senza precedenti che, nell’ultima settimana, hanno scatenato un’allarmante crisi ambientale e sanitaria. Alimentate dal clima secco e caldo, le fiamme continuano a infuriare in diverse parti del paese, dallo Stato di Alberta alla Nuova Scozia, senza mostrare segni di rallentamento. Finora, circa 3,3 milioni di ettari sono andati in fumo: 13 volte la media degli ultimi dieci anni. Il nesso tra gli incendi e il cambiamento climatico appare sempre più evidente: i ricercatori del Natural Resources Canada, il dipartimento governativo che si occupa di ambiente, sostengono che negli ultimi 20 anni non si è mai vista bruciare un’area così vasta, così precocemente nel corso dell’anno. Gli incendi hanno costretto migliaia di canadesi a lasciare le proprie abitazioni, ma la crisi non è circoscritta al solo Canada: il fumo e le particelle provenienti dagli incendi si sono diffusi lungo la Costa orientale degli Stati Uniti, influenzando negativamente la qualità dell’aria per milioni di persone. La situazione resta molto critica e richiede una risposta immediata e coordinata: nella lotta contro gli incendi il Canada è stato affiancato da altri stati come gli Stati Uniti, l’Australia, la Nuova Zelanda, il Sud Africa e il Costa Rica.
Fonti: Reuters, AP News, Sky TG24, Washington Post.
Dopo il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan nell’agosto 2021 e il ritorno al potere dei Talebani, migliaia di persone hanno deciso di lasciare il paese, costrette a scegliere rotte migratorie sempre più pericolose. Una di queste rotte attraversa l’America Latina: grazie a politiche migratorie meno rigide, i profughi afghani riescono a raggiungere in aereo il Brasile o l’Ecuador, proseguendo poi in direzione degli Stati Uniti con autobus, barche e tratte a piedi. Il viaggio passa necessariamente per la Giungla del Darien, dove una fitta vegetazione ricopre l’area montuosa tra Colombia e Panama: un territorio impervio, privo di strade ed estremamente pericoloso. Mentre tra il 2010 e il 2019 appena 100 afghani circa avevano seguito questa rotta, dal 2022 a oggi sono stati più di 3600. L’aumento di questi passaggi è anche il risultato dei molti video diffusi su TikTok, Facebook e WhatsApp da “trafficanti” che incoraggiano a intraprendere il viaggio verso gli Stati Uniti attraverso l’America Latina, passando sotto silenzio tutti i pericoli e le difficoltà del viaggio.
Fonte: New York Times
A Belgrado più di diecimila persone hanno manifestato in silenzio, lunedì 8 maggio, dietro uno striscione con la scritta “Serbia contro la violenza”. Analoghe marce si sono svolte in altre città, dopo che 17 persone sono state uccise in meno di 48 ore in due sparatorie di massa: il 3 maggio un ragazzo è entrato con due pistole nella sua scuola elementare di Belgrado, uccidendo otto studenti e una guardia di sicurezza, e ferendo altri sei compagni e un insegnante; il giorno successivo, in una zona rurale a sud della capitale, un giovane di 21 anni ha ucciso otto persone e ferito altre quattordici brandendo un fucile d’assalto e una pistola.
I manifestanti hanno chiesto la chiusura delle stazioni televisive e dei tabloid accusati di promuovere contenuti violenti, nonché una sessione parlamentare di emergenza per discutere lo stato della sicurezza nel paese e assumere provvedimenti contro la proliferazione di armi nel paese. La Serbia registra il più alto livello di possesso di armi in Europa, con 39 armi da fuoco civili ogni 100 persone, secondo il centro di ricerca Small Arms Survey. Sempre lunedì la polizia serba ha dato alla cittadinanza un mese di tempo per consegnare armi detenute illegalmente: il primo giorno ne sono state consegnate oltre 1.500.
I manifestanti hanno anche chiesto le dimissioni del Ministro dell’Interno Bratislav Gasic e del Direttore dell’Agenzia per la sicurezza statale Aleksandar Vulin. Domenica scorsa si era già dimesso il Ministro dell’Istruzione.
Fonti: AP News; USA Today; Osservatorio Balcani e Caucaso; The Guardian.
Nelle scorse settimane centinaia di agricoltori in Romania e Bulgaria hanno protestato contro le massicce importazioni di grano ucraino, che hanno abbassato bruscamente i prezzi e le vendite dei produttori locali: trattori, camion e altri macchinari agricoli sono stati impiegati per bloccare strade e valichi di frontiera.
Dallo scorso anno l’Unione Europea ha rimosso i dazi doganali e le quote di importazione sui prodotti agricoli ucraini per facilitarne l’accesso ai mercati esteri e sostenere il paese in guerra. Tuttavia, gli agricoltori dell’Europa centrale e orientale sono stati colpiti in modo sproporzionato da questa misura.
Liliana Piron, direttrice della League of Romanian Agriculture Producers’ Associations, ha dichiarato che gli agricoltori rumeni hanno raggiunto un punto di non ritorno, in cui sentono di non poter più reggere i costi della “concorrenza sleale“. Anche gli agricoltori polacchi hanno organizzato proteste nelle ultime settimane provocando le dimissioni del ministro dell’agricoltura, Henryk Kowalczyk.
Il mese scorso Bruxelles si era impegnata ad aiutare i coltivatori di grano e cereali in Romania, Bulgaria e Polonia con un pacchetto di compensazione del valore di 56,3 milioni di euro: una cifra ritenuta insufficiente dagli agricoltori e dai governi nazionali.
Fonti: AP News; ABC News; Reuters
Sono più di 42.000 le vittime del terremoto che ha colpito il sud-est della Turchia e il nord-ovest della Siria. Entrambi i paesi sono alle prese col soccorso ai sopravvissuti rimasti a decine di migliaia senza alloggio, ma la “diplomazia internazionale degli aiuti” sta operando in modo discriminatorio. Mentre la Turchia ha ricevuto il sostegno di gran parte del mondo, compresa l’Unione Europea e la NATO, solo pochi paesi hanno deciso di inviare aiuti in Siria: l’Italia, unico paese occidentale, Cuba, Venezuela, Iran, Russia e Algeria tra i principali.
Anche l’arrivo degli aiuti risente dei conflitti in corso nell’area. Diverse organizzazioni per i diritti umani hanno denunciato come il governo turco abbia bloccato l’ingresso dei convogli nei distretti curdi sotto il proprio controllo, come Afrin. Anche il governo siriano ha ostacolato per giorni l’arrivo degli aiuti nei territori controllati dai “ribelli” e nelle aree a maggioranza curda.
Il rappresentante permanente della Siria presso le Nazioni Unite Bassam Sabbagh ha affermato che le sanzioni degli Stati Uniti e dell’Unione Europea ostacolano l’assistenza umanitaria. Le Nazioni Unite hanno ribadito la necessità di evitare la “politicizzazione” degli aiuti alle vittime in Siria e hanno esortato Washington e Bruxelles a garantire che non vi siano “impedimenti”.
Tra gli enti che raccolgono donazioni a sostegno delle popolazioni colpite, sia organizzazioni internazionali come l’UNHCR e le stesse Nazioni Unite, sia organizzazioni non governative, come Un Ponte Per, Mezzaluna Rossa Kurdistan Italia, Save the Children.
Fonti: Reuters; European Council on Foreign Relations; Sir; Avvenire; Redattore Sociale.
In tutta l’India centinaia di sostenitori delle opposizioni sono scesi in piazza per sollecitare l’apertura di un’indagine sull’Adani Group, accusato di frode fiscale e manipolazione del prezzo delle azioni. Il gruppo, che rappresenta la seconda azienda del paese, ha perso 110 miliardi di dollari da quando le sue pratiche sono state denunciate, il mese scorso, in un rapporto dell’Hindenberg Research, una società statunitense di monitoraggio degli investimenti. Il fondatore, Gautam Adani, ha respinto le accuse.
I partiti di opposizione, tra cui l’Indian National Congress, hanno chiesto una commissione parlamentare sulle attività del gruppo e hanno criticato la vicinanza a Gautam Adani del Primo ministro Narendra Modi, accusato di averne favorito le attività.
I manifestanti hanno contestato gli investimenti effettuati nell’Adani Group da parte di due enti sostenuti da risorse pubbliche, la Life Insurance Corporation (LIC) e la State Bank of India (SBI). Alle proteste si sono uniti anche alcuni movimenti per il diritto alla terra che, già negli anni scorsi, avevano criticato l’impatto sociale e ambientale delle attività estrattive del gruppo.
Fonti: Deccan Herald, The Hans India, ABC.
Migliaia di donne sono scese in piazza negli Stati Uniti per difendere il diritto all’aborto, partecipando a oltre 200 manifestazioni indette dalla Women’s March in 46 stati della federazione. Dal 1973 le attiviste marciano ogni 22 gennaio per ricordare la storica decisione nel caso Roe v. Wade, con cui la Corte Suprema aveva garantito a livello federale la possibilità di interrompere la gravidanza fino al momento in cui il feto fosse in grado di sopravvivere al di fuori dell’utero materno, anche con l’ausilio di un supporto artificiale.
Quest’anno le manifestazioni sono state molto partecipate, in quanto la sentenza Roe è stata rovesciata lo scorso giugno da una nuova sentenza che priva le donne di una tutela costituzionale federale per il diritto all’aborto: ogni Stato potrà adesso regolare autonomamente la questione, fino a impedire di fatto l’interruzione di gravidanza nella maggior parte dei casi.
La marcia principale si è tenuta quest’anno a Madison, nel Wisconsin. “La lotta ora è al livello dei singoli Stati, quindi è lì che stiamo andando”, ha detto Rachel O’Leary Carmona, direttrice esecutiva di Women’s March. La vicepresidente degli Stati Uniti, Kamala Harris, ha tenuto un discorso in occasione del 50° anniversario della sentenza Roe, in cui ha denunciato come il diritto all’aborto sia sotto attacco: “L’America è la terra dei liberi e la casa dei coraggiosi. Ma chiediamoci: possiamo essere veramente liberi se una donna non può prendere decisioni sul proprio corpo?”
Fonti: New York Times, The National.
Tra il 10 e il 14 gennaio la polizia tedesca ha sgomberato centinaia di attivisti per il clima radunati a Lützerath, un piccolo villaggio abbandonato della Renania Settentrionale-Vestfalia, per impedire lo sfruttamento di una miniera di carbone presente nell’area e la distruzione del borgo.
Negli ultimi due anni e mezzo le case vuote di Lützerath, destinate alla demolizione per i lavori di estrazione, erano state recuperate e abitate dagli attivisti. Il numero dei manifestanti è cresciuto nelle ultime settimane, con centinaia di persone provenienti dalla Germania e da tutto il mondo, tra cui Greta Thunberg, decise a impedire l’inizio dei lavori da parte della società energetica RWE.
Il ritorno al carbone rientra nella strategia energetica del governo alle prese con le difficoltà di approvvigionamento di gas. Un rapporto della società di consulenza Aurora Energy Research indica che, considerando la sola produzione di carbone per la generazione elettrica, è possibile uno scenario senza la demolizione di Lützerath. Un altro rapporto di Europe Beyond Coal dell’agosto 2022, predisposto dall’Istituto tedesco per la ricerca economica, afferma che, anche con un maggiore utilizzo del carbone dovuto alla carenza di gas, sono disponibili riserve sufficienti senza aprire il sito di Lützerath.
Fonti: The Guardian, Deutsche Welle, Il Fatto Quotidiano, QualEnergia.it
L’8 gennaio migliaia di sostenitori dell’ex presidente Jair Bolsonaro hanno preso d’assalto e danneggiato a Brasilia i palazzi delle principali istituzioni del paese: il Congresso Nazionale, la Corte Suprema, l’Ufficio del Presidente della Repubblica.
I manifestanti si sono poi scontrati con la polizia federale, che li ha gradualmente dispersi ricorrendo a proiettili di gomma e lacrimogeni: si contano sei feriti gravi e quattrocento arresti. In un primo momento l’esercito ha impedito alla polizia l’accesso agli “accampamenti” dei seguaci di Bolsonaro, ma la Corte Suprema ha ordinato ai militari di smantellare i “campi bolsonaristi” su tutto il territorio nazionale entro 24 ore.
Il presidente in carica, Luiz Inácio “Lula” da Silva, ha definito l’attacco “vandalico e fascista”, promettendo che i responsabili saranno individuati, giudicati e puniti in maniera esemplare. Da tutti i governi del mondo sono arrivate parole di condanna per quello che si configura come il più grave episodio sovversivo vissuto dal Brasile dalla fine della dittatura nel 1985.
Sotto accusa anche i social media, per veicolare disinformazione e alimentare la rabbia dei seguaci di Bolsonaro (che, attualmente in Florida, respinge le accuse di aver fomentato l’insurrezione). Il giudice della Corte Suprema Alexandre de Moraes ha ordinato a Facebook, Twitter e TikTok di bloccare la “propaganda golpista” nel paese.
Fonti: BBC, il Fatto Quotidiano.
Pedro Castillo, eletto Presidente del Perù il 6 giugno 2021 con un programma fortemente progressista, il 7 dicembre 2022 è stato deposto dal Parlamento e arrestato per “sedizione” dopo aver tentato di sciogliere l’assemblea parlamentare intenzionata a chiedere il suo impeachment, per la terza volta nel giro di un anno e mezzo.
Fin dalle elezioni, Castillo ha avuto rapporti molto tesi con il Parlamento, a lui in maggioranza ostile. Per rispondere alle pressioni delle oligarchie economiche del paese e cercare di ammorbidire i parlamentari, l’ex Presidente ha modificato ripetutamente la composizione del governo, ma è anche entrato in conflitto col suo stesso partito, Perù Libre: la sua destituzione, arrivata dopo mesi di accuse di corruzione, riflette questo scollamento dalla sua base politica ed elettorale.
La presidenza del Perù è passata alla vice di Castillo, Dina Boluarte, che nel suo discorso di insediamento ha annunciato l’intenzione di creare un governo di unità nazionale che porti a una tregua nel paese, abbandonando la linea politica del predecessore.
I sostenitori di Castillo sono scesi in piazza a Lima e altre città del paese, chiedendo il rilascio dell’ex presidente e l’indizione di nuove elezioni, per il parlamento e per una assemblea costituente. Molti indossano magliette con la scritta: “Sciogli il Congresso corrotto! Pedro Castillo, libertà!”. I loro tentativi di “assedio” della Camera sono stati impediti dalla polizia con i lacrimogeni. Dall’inizio delle proteste si contano 22 morti e decine di feriti.
Nella notte del 20 novembre la Turchia ha colpito con raid aerei e droni vari territori curdi della Siria nord-orientale e nel Kurdistan iracheno, causando la morte di almeno trenta persone.
Il Presidente turco giustifica l’aggressione come rappresaglia per l’attentato del 13 novembre al centro di Istanbul, che ha provocato 6 morti e 81 feriti, attribuendone la responsabilità al Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) e all’Unità di protezione del popolo curde (YPG), accusa che entrambi hanno respinto.
I bombardamenti in Siria avvengono in uno spazio aereo controllato da Russia e Stati Uniti, che hanno chiesto al governo turco di fermare gli attacchi. Il comandante delle Forze democratiche siriane a guida curda ha chiesto al Presidente Biden di prevenire un’incombente offensiva di terra turca per non compromettere la lotta contro l’ISIS.
Questi attacchi hanno riportato all’attenzione la “questione curda”, aperta da più di un secolo per la mancata nascita di uno stato curdo indipendente dopo la fine dell’Impero ottomano. Oggi la popolazione curda è divisa tra Turchia, Siria, Iraq e Iran, ma è unificata dalla lingua e da tradizioni comuni, diverse da quelle dei paesi in cui vive, e lotta per la propria autodeterminazione.
Fonti: Ahram Online, Medyanews, MicroMega, Internazionale
Nella tarda serata di domenica 6 novembre sono state fatte sbarcare al porto di Catania 357 delle 572 persone migranti a bordo della Geo Barents, nave di salvataggio di Medici senza frontiere. Il governo italiano, che per giorni aveva negato l’accesso al porto, ha consentito solo a donne, minori e migranti con fragilità di lasciare la nave, su cui restano al momento 215 uomini.
Dopo giorni di attesa in mare, resta attraccata a Catania anche la Humanity 1, nave della ong tedesca SOS Humanity. 144 delle 179 persone a bordo sono state fatte scendere, ma 35 uomini sono ancora a bordo. Il capitano, Joachim Ebeling, ha deciso di rispettare il diritto del mare – secondo cui un’operazione di soccorso si conclude con lo sbarco delle persone salvate in un luogo sicuro – disattendendo l’ordine delle autorità italiane di salpare dal porto “con il carico residuale”.
Contro i provvedimenti governativi la SOS Humanity ha annunciato ricorso al TAR del Lazio. Negare lo sbarco ad alcuni migranti, sulla base del genere, costituisce una forma di respingimento collettivo e configura un asilo selettivo in contrasto sia la Convenzione europea dei diritti dell’uomo che il principio di non respingimento della Convenzione di Ginevra sui rifugiati.
Da giorni altre due navi, la Ocean Viking di SOS Méditerranée e Rise Above della ONG tedesca Mission Lifeline, incrociano tra Siracusa e Catania: nessuna delle due ha ricevuto né risposta alla richiesta di porto sicuro, né l’autorizzazione ad entrare in porto. La situazione su Rise Above è particolarmente critica, con 93 persone su un’imbarcazione di 25 metri.
Tibù, in Colombia, è il municipio con più ettari di coca nel paese. Si sono contati nel territorio più di 13.000 migranti provenienti dal Venezuela impiegati nella raccolta e nella lavorazione. Ricevono 22 centesimi di dollaro per ogni chilo di foglie di coca. I più veloci riescono a guadagnare circa 22 dollari al giorno.
Ogni mattina i lavoratori e le lavoratrici portano le foglie raccolte affinché vengano pesate. Queste vengono poi mescolate e processate successivamente con calce, benzina e acido solforico per ottenere la pasta di coca, da cui per ulteriore cristallizzazione si ottiene la cocaina.
I “raschiatori”, come vengono chiamati gli addetti alla produzione, subiscono vari danni alla loro salute. Le loro mani tendono a essere rovinate e piene di calli, anche se le coprono con guanti o pezzi di stoffa. Sono esposti a malattie trasmissibili da zanzare e altri insetti che vivono nella regione.
Fonte: El País.
Nel distretto di Dhanbad nello stato di Jharkhand, in India, ardono circa 70 incendi sotterranei che continuano a bruciare decine di milioni di tonnellate di carbone. Qui ogni mattino almeno un centinaio di persone, bambini compresi, lavorano illegalmente trascorrendo intere giornate estraendo carbone. Le miniere sono estremamente rischiose a causa degli incendi sotterranei. I gas tossici riempiono i tunnel rendendoli inadatti alla respirazione. I bambini trasportano sulla testa grossi pezzi di carbone contenuti in ceste di vimini o altri contenitori. Le morti accidentali sono all’ordine del giorno. Una vita quotidiana dominata da grandi fatiche, trascorsa in mezzo al fuoco dell’autocombustione e al fumo che appesantisce l’aria, con notevoli rischi per la salute; il tutto per meno di 3$ al giorno. La miniera, che dovrebbe stimolare l’economia indiana, permette a malapena di tenere in vita gli abitanti dei villaggi locali.
Fonte: The Guardian.
La morte di Mahsa Amini, avvenuta lo scorso 16 settembre in seguito ai maltrattamenti subiti dalla polizia iraniana con l’accusa di non indossare correttamente il velo, ha dato vita a mobilitazioni di protesta e solidarietà in Iran e nel resto del mondo.
Bersaglio delle manifestazioni è il regime iraniano, criticato per il trattamento iniquo riservato alle donne e per la dura repressione delle proteste nate dopo la morte della ventiduenne curdo-iraniana. Nonostante le restrizioni su internet e cellulari, per impedire la diffusione di immagini e video, le proteste in Iran vanno avanti: si contano almeno 76 morti e 1200 arresti.
Tra le persone arrestate risulta esserci anche Faezeh Hashemi, figlia dell’ex presidente Rafsanjani, accusata di aver istigato disordini. Negli ultimi anni Hashemi siede nel parlamento iraniano ed è diventata una delle attiviste di spicco per i diritti delle donne.
Sabato 17 settembre 2022 centinaia di persone hanno manifestato per le strade e le piazze centrali di Londra per chiedere la sospensione dell’agente di polizia responsabile dell’uccisione del 24enne afro-britannico Chris Kaba, avvenuta lunedì notte. Molti dei cartelli esposti nel corteo si richiamavano a Black Lives Matter, il movimento nato negli Stati Uniti contro le violenze della polizia ai danni delle persone nere. L’agente responsabile è attualmente sospeso.
Kaba era disarmato quando è stato ucciso. L’Ufficio indipendente per la condotta della polizia ha dichiarato che la vittima si trovava a bordo di un’automobile, la cui targa era stata rilevata da una telecamera e ricollegata a un incidente con armi da fuoco dei giorni precedenti.
Le statistiche mostrano che, come negli Stati Uniti, anche nel Regno Unito i giovani neri sono criminalizzati in modo sproporzionato – hanno 19 volte più probabilità di essere fermati rispetto alle persone bianche – e hanno più del doppio delle probabilità di morire durante o dopo il contatto con la polizia.
Fonti: Channel 4, The Telegraph, The Guardian.
Il Pakistan e in particolare la provincia di Belucistan e la provincia meridionale del Sindhda, dallo scorso giugno con l’inizio della stagione dei monsoni, è stato colpito da gravissime inondazioni.
Secondo il ministro per i cambiamenti climatici, Sherry Rehmanun si tratta di “un disastro umanitario causato dal clima con piogge e inondazioni senza precedenti. Finora il Pakistan ha ricevuto una media di 166 millimetri di pioggia ad agosto, valore che è del 241 per cento sopra la media, ha detto il ministro, ma con un livello che nelle aree meridionali del Paese è del 784 per cento superiore“.
L’ultimo bilancio del National Disaster Management Authority (NDMA) registra più di 1000 morti, milioni di persone rimaste senza una casa a causa delle distruzione parziale o totale delle abitazioni causate dalle forti inondazioni.
Ali Tauqeer Sheikh, un esperto indipendente di cambiamenti climatici con sede a Islamabad, ha affermato che le prime inondazioni del 2010 colpirono le aree intorno al fiume Indo. Ma adesso le inondazioni hanno colpito anche le aree urbane, in quanto il cambiamento climatico è un moltiplicatore di minacce perché vi è stato un enorme aumento nella frequenza delle piogge nel Paese.
I leader pakistani hanno chiesto aiuto alla comunità internazionale e hanno in programma di lanciare un fondo di appello internazionale. Il ministero degli Affari esteri ha affermato che la Turchia ha inviato una squadra per aiutare con i soccorsi.
Fonte: Al Jazeera
Venerdì 5 agosto l’esercito israeliano ha colpito la Striscia di Gaza con ripetuti raid aerei: obiettivo dell’operazione “Breaking Down” era colpire con un attacco preventivo le Brigate al-Quds, ala militare della Jihad islamica a Gaza, accusate di “movimenti minacciosi” vicino al confine israeliano.
Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei territori palestinesi occupati, ha affermato che non vi è alcuna giustificazione per i bombardamenti di Gaza in quanto “il diritto internazionale consente l’uso della forza solo per autodifesa“.
L’organizzazione militare palestinese, vicina all’Iran, ha risposto lanciando razzi su Israele, intercettati al 97% dalla difesa missilistica “Iron Dome”. Nessun israeliano era stato ucciso o ferito gravemente, mentre il Ministero della salute palestinese ha riportato almeno 44 morti, tra cui 15 minori, e oltre 350 civili feriti. Le già critiche condizioni di vita nella Striscia ne risultano ulteriormente peggiorate.
Secondo alcuni analisti, l’attacco preventivo israeliano è stato deciso dal primo ministro ad interim Yair Lapid in vista delle imminenti elezioni politiche. Secondo altri analisti, l’Iran sta usando la Jihad islamica per fare di Gaza un’arena di scontro con Israele.
Domenica 7 agosto è stato siglato un cessate il fuoco mediato dall’Egitto, accettato da parte palestinese a condizione che Israele ponga fine al blocco di Gaza e rilasci due leader della Jihad islamica detenuti nelle proprie carceri.
Fonti: The Conversation, Peoples Dispatch, Terra Santa, Le Monde.
Lunedì 25 luglio sono scoppiati a Goma, nella Repubblica Democratica del Congo, violenti tumulti contro la sede locale dell’operazione di peacekeeping delle Nazioni Unite MONUSCO, presente nel paese dal 2010 per stabilizzare la situazione dopo una lunga guerra civile. La missione internazionale è accusata di non proteggere i civili dalla violenza del Movimento 23 marzo (M23), uno dei numerosi gruppi armati anti-governativi presenti nella regione.
La protesta, incoraggiata da alcune dichiarazioni governative favorevoli alla fine della missione di peacekeeping, è divenuta sempre più violenta dopo l’esplosione di lacrimogeni contro i manifestanti da parte delle forze dell’ordine e delle stesse unità delle Nazioni Unite. Durante gli scontri sono morte 5 persone, tra cui 3 membri delle forze internazionali, e almeno 50 sono rimaste ferite.
Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha condannato con fermezza le violenze. “Qualsiasi attacco diretto contro le forze di pace delle Nazioni Unite può costituire un crimine di guerra. Invitiamo le autorità congolesi a indagare su questi incidenti e ad assicurare rapidamente i responsabili alla giustizia”, ha affermato il suo vice portavoce, Farhan Haq.
Fonti: The Guardian, Reuters, Al-Jazeera.
Centinaia di attivisti/e per il clima, provenienti da diverse organizzazioni e 12 paesi europei, sono arrivati a Strasburgo il 5 luglio 2022 per spingere i parlamentari europei a mettere il veto sull’inclusione di gas e nucleare nella tassonomia europea degli investimenti sostenibili. Beatrice Trentin, di Fridays For Future Italia, ha dichiarato: “Vogliamo che i parlamentari europei dimostrino che possono essere indipendenti dalle lobby del gas, che nel 2021 hanno investito 100 milioni di euro per fare pressione sull’Unione Europea e hanno incontrato funzionari e parlamentari ogni due giorni. Questa è l’estate peggiore che abbiamo vissuto fino ad adesso e non potrà fare altro che peggiore nei prossimi anni: non possiamo permetterci di continuare a fare un passo avanti e due indietro verso la transizione ecologica“.
Nonostante le pressioni dei movimenti, il 6 luglio il Parlamento Europeo ha bocciato la risoluzione contraria alla tassonomia adottata a metà giugno dai membri delle commissioni Ambiente ed Economia: hanno votato contro la risoluzione 328 eurodeputati, 278 i favorevoli e 33 gli astenuti. Ora l’atto passa alla discussione e al voto del Consiglio Europeo. Se dovesse essere approvato, tra gli investimenti privati considerati utili ai fini della transizione figureranno, a determinate condizioni, anche quelli su gas e attività nucleari.
Fonte: Fridays For Future; Lifegate.
Dal 13 giugno 2022 la Confederazione delle Nazionalità indigene dell’Ecuador (CONIE) protesta a Quito e in altre città del paese contro il governo del Presidente Guillermo Lasso. Il movimento ha proclamato uno sciopero generale contro l’aumento dei costi del carburante e dei beni di prima necessità, chiedendo al governo misure per contrastare la crisi economica in corso da mesi, la corruzione e l’inefficienza del sistema sanitario. La protesta è causata anche dalle recenti concessioni minerarie nei territori indigeni, dalla mancanza di controlli sui prezzi dei prodotti agricoli e dalla rinegoziazione al rialzo dei debiti dei contadini con le banche.
Allo sciopero delle comunità indigene, proclamato sulla base di dieci punti programmatici, hanno aderito anche studenti, studentesse, lavoratori e lavoratrici di vari settori produttivi. Dopo aver bloccato per giorni le strade di molte città, il 24 giugno un gruppo di manifestanti ha cercato di entrare nel palazzo del Parlamento. Il governo, che pure ha annunciato misure sociali ed economiche per rispondere alle richieste popolari, ha represso le proteste proclamando il 18 giugno lo stato di emergenza: secondo alcune organizzazioni per i diritti umani, dall’inizio delle proteste ci sarebbero 4 vittime tra i manifestanti, 90 feriti e 87 arresti.
Lunedì 30 maggio 2022 sono partiti dalla città di Tapachula, nel Messico meridionale, più di 6.000 migranti in una carovana diretta verso gli Stati Uniti. Il loro obiettivo è riportare all’attenzione il tema delle migrazioni interamericane durante il Summit delle Americhe, convocato negli stessi giorni a Los Angeles. Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha rinnovato la promessa di intervenire su alcune delle politiche migratorie più restrittive introdotte dall’amministrazione Trump.
Luis Rey García Villagrán, organizzatore della carovana e membro del Centro per i diritti e per la dignità umana di Tapachula, ha dichiarato che questa marcia è un atto politico con cui le decine di migliaia di migranti latinoamericani (molti dei quali provenienti dal Venezuela) bloccati nella città chiedono alla Commissione messicana per l’aiuto ai rifugiati (Comar) di verificare la loro documentazione e lasciarli passare verso gli Stati Uniti.
Con lo slogan “I migranti non sono criminali, sono lavoratori internazionali”, la carovana è partita all’alba sotto una pioggia persistente che ha costretto i partecipanti, fra cui molte donne e bambini, a proteggersi con teli di plastica e materiali di fortuna. Sono mesi che le persone in viaggio denunciano la strategia del governo messicano di confinarle nelle zone più meridionali del paese, in pessime condizioni di vita: molti hanno dovuto indebitarsi per fronteggiare i costi della migrazione e le opportunità di lavoro sono scarse nel sud del Messico.
Fonti: ANSA, Al Jazeera
In Medio Oriente le tempeste di sabbia sono tipiche del periodo di passaggio dalla primavera all’estate, causate dai venti che soffiano in questo periodo dell’anno. Nel 2022 però sono state straordinariamente frequenti e in Iraq ce n’è stata una quasi ogni settimana nell’ultimo mese e mezzo, causando numerosi problemi: più di mille persone sono state ricoverate in ospedale per problemi respiratori e molti voli sono stati cancellati.
L’aumento della frequenza e dell’intensità delle tempeste di sabbia mediorientali è stato associato all’aumento delle temperature, ma anche alla scarsità d’acqua, legata all’eccessivo sfruttamento delle risorse idriche, all’uso di dighe e alla deforestazione.
L’Iraq è particolarmente vulnerabile al problema sia per la sua conformazione fisica pianeggiante sia per la cattiva gestione delle risorse idriche, la forte urbanizzazione e la perdita di due terzi della sua vegetazione storica.
Secondo il ministero dell’ambiente iracheno, nei prossimi vent’anni il paese potrebbe trovarsi ad affrontare una media di 272 giorni all’anno con tempeste di sabbia, e oltre 300 entro il 2050, essendo uno dei cinque paesi più esposti ai problemi causati dal cambiamento climatico e dalla desertificazione.
Fonte: Il Post
Oltre 4 milioni di persone, in 5 distretti nel nord-est del Bangladesh, sono state colpite da forti piogge seguite da devastanti inondazioni, che hanno sommerso terreni agricoli, distrutto case e danneggiato infrastrutture fondamentali, dalle centrali elettriche alle scuole.
Almeno 60 persone risultano scomparse. E sono stati segnalati numerosi casi di diarrea, infezioni respiratorie e malattie alla pelle. Secondo l’Unicef sono oltre 1,5 milioni i bambini esposti a un maggiore rischio di malattie legate all’acqua, annegamento e malnutrizione.
Le inondazioni sono un fenomeno ricorrente nel Bangladesh, ma numerosi esperti hanno dichiarato che episodi critici come questo sono la conseguenza della crisi climatica, valutazione confermata anche dal raggiungimento di temperature eccezionali, che sfiorano i 50 gradi.
Fonte: Al Jazeera; GreenReport.
Tra il 4 e il 14 aprile si è svolto, dopo due anni di stop forzato a causa della pandemia, il 18° Acampamento Terra Livre (ATL) che ha visto la partecipazione di circa 8.000 indigeni provenienti da tutto il Brasile. Le popolazioni indigene hanno protestato pacificamente tra le strade della capitale riempiendole di musica, colori e danze.
La manifestazione ha assunto un carattere fortemente rivendicativo, allo scopo di contrastare le politiche anti-indigene dell’amministrazione del presidente Jair Bolsonaro, soprattutto in vista delle elezioni generali previste il prossimo ottobre. Lo scopo della protesta è di chiedere la salvaguardia dei diritti di tutela ambientale e culturale.
Joênia Wapichana, la prima deputata indigena del paese, ha dichiarato: “L’ATL è un’opportunità per unire i leader indigeni e brasiliani di tutto il paese per difendere i loro diritti costituzionali“. Al centro della protesta quella che gli attivisti hanno definito una “combo mortale” di progetti di legge relativi all’ambiente, attualmente in esame al Congresso: il primo mira ad aprire le terre indigene all’estrazione mineraria e ad altri sfruttamenti commerciali; il secondo cambierebbe le regole sulla demarcazione del territorio indigeno.
Fonte: The Guardian; Al Jazeera.
Venerdì 15 aprile la polizia israeliana ha fatto irruzione in tenuta anti-sommossa nell’area della moschea di Al-Aqsa, a Gerusalemme Est, durante la prima preghiera del giorno. La Spianata, che accoglie la storica moschea, è stata illegalmente annessa dallo Stato israeliano dopo la Guerra dei Sei giorni del 1967.
L’intervento della polizia è avvenuto a seguito delle provocazioni di numerosi coloni israeliani nell’area della moschea, tra le 7 e le 10 del mattino, e delle proteste dei musulmani: secondo vari testimoni, i coloni hanno compiuto rituali talmudici nei cortili della moschea, sotto la protezione della polizia israeliana, che è poi intervenuta contro i fedeli musulmani sparando proiettili di gomma e lacrimogeni.
La moschea di Al-Aqsa è gestita da una fondazione islamica giordano-palestinese, il Jerusalem Islamic Waqf. Fino al 2005 le visite dei non musulmani al sito erano gestite tramite prenotazioni. Da allora, coloni israeliani e attivisti di estrema destra “visitano” spesso il cortile della moschea, con l’obiettivo ricostruire l’antico tempio di Gerusalemme, fatto erigere da Salomone, al posto di Al-Aqsa.
Dopo l’incursione di venerdì 15 aprile, i medici hanno riferito di almeno 158 palestinesi feriti e più di 300 arrestati, mentre le forze israeliane sono state accusate di aver ostacolato l’arrivo di ambulanze e paramedici alla moschea. Nei giorni successivi si sono verificati altri momenti di tensione, sempre con l’intervento della polizia.
Fonti: Internazionale, Middle East Eye.
Il territorio del KwaZulu-Natal, nel Sudafrica orientale, è stato colpito nella seconda settimana di aprile 2022 da violente piogge degenerate in inondazioni. Almeno 45 persone sono rimaste uccise. Decine di costruzioni sono state distrutte. I principali nodi di comunicazione sono crollati. L’acqua e il fango hanno ostacolato i soccorsi. Nelle immagini, una donna in accappatoio a fianco della sua abitazione: davanti a lei una voragine e una vita da ricostruire. Un uomo a piedi nudi fermo a pensare: dietro di lui ciò che resta del cortile di una casa.
Non si tratta di un episodio isolato: lo scorso gennaio, un nubifragio sulla città costiera di East London ha ucciso almeno 10 persone e lasciato centinaia di altre senza casa. Gli scienziati ritengono che questi eventi estremi siano causati dal cambiamento climatico. Il servizio meteorologico nazionale afferma che eventi simili potrebbero diventare comuni, ma non li collega alla crisi climatica. Nel 2019 il Dipartimento dell’ambiente ha elaborato un Piano per potenziare l’adattamento ai cambiamenti climatici, mirando a sviluppare una rapida capacità di intervento in caso di eventi meteorologici estremi. L’ultima inondazione ha mostrato quanto l’attuazione di tale Piano sia ancora carente.
Fonte: Reuters.
Dimenticata dai media e dal pubblico occidentali, la guerra in Yemen è entrata in questi giorni in una tregua per il Ramadan.
Le origini del conflitto risalgono al 2011, quando le proteste popolari hanno costretto il presidente Ali Abdullah Saleh a cedere il posto al suo vice, Abdrabbuh Mansur Hadi. È iniziata da quel momento una fase di crescente instabilità, sfociata nel 2014 nell’occupazione della capitale Sana’a da parte del movimento sciita Huthi, che non riconosce il governo in carica ed è sostenuto dall’Iran. Nel 2015 l’intensificarsi degli scontri ha indotto l’Arabia Saudita e altri stati dell’area, prevalentemente sunniti, a intervenire militarmente per ripristinare il governo di Hadi. In questa nuova fase, interrotta da numerose tregue inconcludenti, sono stati bombardati molti centri abitati causando una grave crisi umanitaria: più di 4,3 milioni di persone, di cui la metà minori, sono state costrette a fuggire dalle proprie case.
Le Nazioni Unite stimano che, alla fine del 2021, i morti civili sono almeno 377.000, la maggior parte dovuti alla mancanza di beni essenziali quali cibo, acqua pulita e assistenza sanitaria. La pandemia ha aggravato ulteriormente la situazione: per l’assenza di copertura vaccinale e di cure adeguate, quasi un quinto dei casi di Covid-19 si è concluso con un decesso.
Fonti: Campaign against arms trade; Al Jazeera.
Lo scorso 15 marzo la capitale dello Sri Lanka, Colombo, è stata attraversata da forti proteste contro la crisi economica e la sua cattiva gestione da parte del governo. La crisi, che si trascina da tempo, è stata aggravata di recente dagli aumenti dei prezzi dei carburanti a seguito della guerra in Ucraina. Il 22 marzo il governo ha deciso di schierare personale militare in centinaia di distributori di benzina per evitare l’accaparramento, in un momento di grave carenza di carburante: la decisione è arrivata dopo che quattro persone erano rimaste uccise durante le lunghe code ai distributori.
Il caro vita, causato da un’inflazione stimata intorno al 14%, si accompagna alla carenza di beni di prima necessità: davanti ai negozi di generi alimentari si formano da settimane lunghe code. A causa della penuria di carta da stampa, sono stati rimandati gli esami scolastici per milioni di studenti, che per protesta hanno scioperato e riempito le strade di molte città del paese. Il governo si appresta a chiedere l’intervento del Fondo monetario internazionale per ristrutturare il proprio debito, che ammonta attualmente a 7 miliardi di dollari, di cui 1 miliardo di dollari in scadenza il prossimo luglio: tra le prime cause di indebitamento del paese, le spese militari per la guerra civile che, dal 1983 al 2008, ha soffocato l’economia del paese.
Fonti: Peoples dispatch; The Guardian; New York Times.
Dall’inizio dell’anno numerose ragazze indiane di religione musulmana manifestano nelle strade di Bengaluru e di altre città dell’India contro la decisione di alcuni dirigenti scolastici di proibire l’uso del hijab a scuola. Le studentesse rivendicano di poter indossare il velo come loro diritto alla libertà religiosa, garantito dalla Costituzione indiana. Muskan Khan, una delle voci principali della protesta, ha dichiarato: “Chiediamo al governo di intervenire sui dirigenti scolastici che ci impediscono di frequentare le scuole usando il hijab come pretesto, e di garantire che tali violazioni dei nostri diritti non si ripetano”. Il movimento ha presentato una petizione presso la corte distrettuale per chiedere che il divieto del hijab venga revocato, provocando però le proteste degli studenti indù più tradizionalisti. La mobilitazione delle studentesse di Bengaluru su inserisce nel quadro delle crescenti tensioni religiose tra musulmani e indù nello Stato del Karnataka, dove solo il 13% della popolazione segue l’Islam. Lo stato, governato dal Partito del Popolo Indiano (BJP), ha vietato la vendita e l’uccisione di vacche, animale sacro per gli indù ma parte importante della dieta musulmana, e vuole rendere più difficili i matrimoni inter-religiosi e la conversione a fedi diverse da quella induista.
Nei primi dieci giorni del 2022 le regioni di Minas Gerais, Para e Maranhão, nel sud-est del Brasile, hanno visto forti precipitazioni (quasi 400mm in 10 giorni) che hanno sovraccaricato i bacini fluviali. Queste inondazioni non sono del tutto naturali, nonostante le aree interessate si trovino nella Zona di Convergenza dell’Atlantico Meridionale e sia adesso la stagione delle piogge: esse hanno anche cause umane. Le aree colpite si trovano lungo le sponde del fiume Tocantis, che ha visto la creazione di cinque dighe, accompagnata dalla distruzione di habitat naturali, comprese le foreste ripariali, e dalla costruzione di infrastrutture e agglomerati urbani. Uno studio pubblicato nel 2021 aveva già messo in evidenza i rischi idrogeologici legati alle dighe lungo il Tocantis, cui si sommano la dislocazione di popolazioni indigene locali e gli effetti sul clima: a causa della materia organica che si accumula nei suoi fondali, le dighe sono anche una fonte di metano, il cui impatto sull’aumento delle temperature medie è stimato essere 80 volte maggiore rispetto all’anidride carbonica. Non è la prima volta che queste regioni del Brasile sono colpite da inondazioni, anche a causa dell’innalzamento delle temperature: senza una risposta preventiva di tipo strutturale, e senza un adattamento ai cambiamenti già avviati, simili eventi catastrofici sono destinati a ripetersi e a produrre danni notevoli al territorio, alla popolazione e alle infrastrutture umane, tra cui anche ospedali.
Fonti: The Atlantic, Reuters.
Continuano le proteste in Sudan, soprattutto nella capitale Khartoum: ancora repressioni e morti, sia tra i manifestanti che tra le forze dell’ordine. Le proteste si sono nuovamente inasprite quando all’inizio di gennaio 2021 sono stati lanciati gas lacrimogeni contro le migliaia di manifestanti diretti verso il palazzo presidenziale.
Oggetto delle ultime proteste era l’accordo che il primo ministro Abdallah Hamdok aveva stretto con i militari, protagonisti di un colpo di Stato lo scorso 25 ottobre. Dopo le dimissioni del primo ministro, il potere resta tutto in mano ai militari.
Gli attivisti di opposizione continuano a chiedere il ritorno alla democrazia ma anche giustizia per i più di 50 manifestanti uccisi dall’inizio del golpe e per gli oltre 250 civili uccisi nei tumulti che, nel 2019, hanno posto fine ai 30 anni di governo di Omar al-Bashir . Il 2022, secondo un loro appello lanciato sui social, dovrà essere “l’anno della continuazione della resistenza“.
Dall’inizio di novembre 2021 il Burkina Faso attraversa una fase di crescente violenza interna. Lo scorso 27 novembre la capitale Ouagadougou ha visto le proteste organizzate dal gruppo “27 November Coalition”, che chiede le dimissioni del presidente Roch Marc Chirstian Kaboré. La popolazione denuncia l’inabilita del governo di contrastare le influenze di gruppi terroristici presenti nella regione africana del Sahel, oltre alla massiccia presenza di truppe francesi, stanziate per contrastare i gruppi terroristici: le proteste di fine novembre sono nate in risposta a un attacco terroristico eseguito da un gruppo associato ad al-Qaida, che ha ucciso oltre 50 persone nel nord del paese. In risposta alle manifestazioni, il governo ha schierato squadre di intervento anti-sommossa che hanno sparato gas lacrimogeno contro la folla, ferendo vari manifestanti e giornalisti.
Il fotografo turco Mehmet Aslan ha vinto il prestigioso Siena International Photo Awards del 2021 con questa foto intitolata “Hardship of life”.
L’abbraccio tra un padre e un figlio diventa una potente metafora delle ferite che la guerra – in questo caso, la guerra in Siria – incide sui corpi delle persone, ma anche il simbolo della resistenza che proviene dai legami d’affetto.
L’uomo, di nome Munzir, ha perso la gamba destra durante un bombardamento del mercato a Idlib. Il figlio Mustafa, di cinque anni, è nato senza gli arti superiori e inferiori a causa di una malformazione congenita rara, la tetramelia, causata dai farmaci necessari alla sopravvivenza della madre, Zeynep, colpita durante la guerra dal gas nervino.
Lo scatto è stato selezionato tra le migliaia di immagini inviate dai fotografi e dalle fotografe di 163 paesi. Le altre immagini premiate sono esposte dal 23 ottobre al 5 dicembre 2021 al Festival Siena Awards ospitato nella città toscana.
Fonte: The Guardian.
I Mapuche, abitanti indigeni del Cile centro-meridionale e dell’Argentina sud-occidentale, sono scesi per le strade di Santiago, lo scorso 12 ottobre, per la Marcia della resistenza Mapuche e dell’autonomia popolare. Il popolo Mapuche ha contestato l’eredità colonialista del “Columbus Day”, noto in vari paesi dell’America Latina come “Day of the Race“.
La polizia cilena ha attaccato i manifestanti con gas lacrimogeni e cannoni ad acqua, arrestando almeno 10 persone e ferendone altre 18. L’avvocata per i diritti umani e studentessa universitaria Denisse Cortés Saavedra è stata ferita durante la protesta ed è morta in seguito in ospedale. I Mapuce hanno combattuto per secoli i colonizzatori. I loro obiettivi attuali includono l’opposizione al governo conservatore di Sebastián Piñera e alle sue politiche a favore delle imprese, contro i diritti dei popoli indigeni.
Fonte: redfish
Gli attivisti brasiliani del “Movimento dei lavoratori senza tetto” (MTST) hanno occupato lo scorso 23 settembre la borsa di San Paolo “B3”, la seconda più grande delle Americhe e la tredicesima più grande del mondo. La protesta è stata motivata dall’aumento dei prezzi del cibo e dalla crescita delle disuguaglianze nel paese, per effetto delle politiche economiche del governo Bolsonaro. Gli attivisti hanno dichiarato di aver occupato il luogo “dove si diventa miliardari, mentre noi cadiamo in povertà”. Il Brasile è una potenza agricola globale che ha prodotto cibo per circa il 10% della popolazione mondiale lo scorso anno. Eppure, 19 milioni di brasiliani oggi soffrono la fame e 116 milioni vivono in una condizione di insicurezza alimentare.
Fonte: redfish
In pochi giorni, dopo il ritiro delle truppe statunitensi e con l’assenso di fatto degli Stati Uniti, i Talebani hanno conquistato Kabul e controllano ormai gran parte dell’Afghanistan. Il fallimento della lotta al terrorismo e della politica di “esportazione della democrazia” con l’uso della forza militare non può essere più clamoroso. In queste ore concitate, in cui in migliaia cercano di scappare dal paese, il pensiero va alle donne, alle ragazze e alle bambine afghane che, con grande fatica, avevano riguadagnato alcune libertà e alcuni diritti, e che adesso sono minacciate dal ritorno di un regime duramente patriarcale, fonte in passato di violenze e abusi. Lo stesso rischio corrono le minoranze etniche, come gli Hazara. Non è il momento di lasciare sole le forze democratiche della società civile afghana, ma di sostenere la loro lotta per un paese finalmente più sicuro e giusto per tutte e tutti. E di garantire il diritto di asilo a quanti lasceranno il paese per paura di persecuzioni o violenze.
Fonti: Shamsia Assami (immagini); Upday.
Il conflitto che, nei mesi passati, ha visto contrapposti l’esercito etiope e quello dei Tigrai, sembra essere arrivato a una svolta. Dopo una improvvisa disfatta, migliaia di soldati etiopi sono stati fatti prigionieri e spinti a marciare attraverso la capitale del Tigrai, Mekelle. Fino a questo momento, il conflitto ha prodotto quasi due milioni di sfollati ed è stato accompagnato da numerose violenze sui civili. Adesso si teme per le condizioni di vita dei prigionieri di guerra etiopi: in base alle Convenzioni di Ginevra i prigionieri hanno diritto a cibo, acqua, vestiario, protezione da violenza e da trattamenti degradanti.
Fonte: New York Times.
Il G7 delle grandi potenze mondiali, svoltosi nella prima settimana di giugno in Cornovaglia, è stato accompagnato da numerose azioni organizzate da movimenti contro il cambiamento climatico. Tra le iniziative più visibili e creative, quelle del gruppo Extinction Rebellion i cui attivisti sono letteralmente emersi dalle acque e dalla terra, per denunciare l’inerzia e la lentezza dei grandi della Terra rispetto alle sfide del cambiamento climatico, a partire dalla drastica riduzione dell’uso dei combustibili fossili.
Fonte: Global citizen.
Dall’inizio di maggio 2021 la Colombia è attraversata da grandi proteste contro la riforma fiscale promossa dal governo per contrastare la crisi economica, scoppiata e peggiorata anche in coincidenza della pandemia. La riforma proposta avrebbe abbassato la soglia di tassazione degli stipendi, colpendo chiunque avesse un reddito mensile di 2,6 milioni di pesos (684 dollari). Avrebbe inoltre eliminato molte delle attuali esenzioni di cui godono i privati e avrebbe anche aumentato in forma poco progressiva le tasse sulle imprese. Ai primi comizi, organizzati dai più grandi sindacati del paese, si sono uniti cittadini e cittadine dei ceti medio-bassi, i più esposti ai cambiamenti introdotti dalla riforma e tra i più colpiti dalla crisi. Dalla capitale Bogotà le manifestazioni di protesta si sono estese a gran parte del paese: a un mese dall’inizio delle mobilitazioni, i dati ufficiali registrano 59 morti e più di 2.300 feriti tra civili e forze dell’ordine, che hanno in genere represso duramente le proteste.
Fonte: BBC.
L’India ha superato la soglia dei 17 milioni di casi accertati di Covid-19. Dall’inizio della pandemia, si contano più di 200.000 morti. I decessi al giorno ricollegabili al Covid hanno raggiunto più volte le 3.000 persone. Gli ospedali sono in una situazione di gravissimo sovraffollamento e non riescono a garantire i ricoveri e le cure necessarie. Le immagini dei roghi a perdita d’occhio destinati alla cremazione dei cadaveri dà l’idea di una situazione estremamente critica, che richiede un grande sforzo di solidarietà internazionale e un ripensamento profondo delle politiche sanitarie, a livello nazionale e internazionale. Anche perché la crisi sanitaria indiana avrà ricadute su tutto il mondo.
Fonte: Internazionale.it
A Roma, sui muri del Ministero della Salute, è comparso nei giorni di Pasqua un graffito dello street artist Harry Greb. Rappresenta una colomba che porta dei vaccini: sul corpo ha un portellone d’aereo aperto, con due flaconi di vaccino anti-Covid che scendono con un paracadute. Un chiaro messaggio di come la costruzione della pace passi anche attraverso un accesso equo e universale ai farmaci, a partire dal vaccino contro il Covid-19.
Fonte: Harry Greb.
Un’immersione con pinne e boccaglio per mostrare da sotto l’Oceano Indiano il cartello “Youth Strike for Climate”. Così l’attivista 24enne Shaama Sandooyea, insieme a Greenpeace, ha portato la protesta contro il cambiamento climatico e per la transizione a largo delle coste di Mauritius. Risuona anche qui il messaggio del Global strike, indetto da Fridays for future il 19 marzo. La scelta non è casuale: le isole Mauritius, uno dei paradisi marini della biodiversità a livello mondiale, sono state colpite dallo sversamento di mille tonnellate di petrolio il 25 luglio scorso.
Fonte: gretathunberg.
In Birmania proseguono le manifestazioni di piazza contro il colpo di stato guidato dall’esercito, nonostante i militari abbiano vietato i raduni con più di 5 persone nelle città di Yangon e Mandalay e abbiano imposto il coprifuoco. Si protesta dal 2 febbraio, il giorno dopo l’arresto di Aung San Suu Kyi, la leader della Lega nazionale per la democrazia risultata vincitrice delle ultime elezioni con l’83% dei voti. La repressione cresce di giorno in giorno: proiettili, granate assordanti e gas lacrimogeni sono stati sparati da polizia ed esercito contro manifestanti in diverse città. Il bilancio di 18 morti e 30 feriti della giornata del 1. marzo è già stato superato il 3 marzo, quando sono state uccise 38 persone. [Dall’inizio della repressione dei movimenti di protesta, i morti hanno superato le 700 persone. Aggiornamento 12 aprile 2021].
Fonti: ISPI.
Le condizioni dei migranti in Bosnia-Erzegovina sono sempre più critiche. Il campo di Lipa è stato incendiato il 23 dicembre scorso, lasciando senza un tetto quasi mille persone, bloccate dalle temperature sotto lo zero e dai respingimenti al confine tra Bosnia e Croazia e tra Italia e Slovenia. La Commissione Europea prevede ulteriori 3,5 milioni di euro per aiutare la Bosnia, in aggiunta agli oltre 88 milioni stanziati dal 2018: le condizioni di accoglienza pessime dimostrano, però, quanto siano inefficaci oltre che ingiuste le politiche di “esternalizzazione delle frontiere”.
Fonti: Annalisa Camilli; Avvenire.
Le immagini di Giovanni Izzo accompagnano l’e-book Benvenuti. Scaricabile gratuitamente, il volume racconta da diverse prospettive una realtà complessa e in continuo cambiamento: quella dei rifugiati coinvolti in Italia in progetti di “accoglienza diffusa”. Benvenuti è uno strumento di comprensione e innovazione sociale: per questo raccoglie dati, analisi e descrizioni di importanti esperienze locali, da Santorso a Gioiosa Jonica, passando per la provincia di Bolzano.
Fonte: Comune.info
Proseguono in Polonia le manifestazioni contro le nuove restrizioni in materia di interruzione volontaria di gravidanza. Quasi ogni giorno, dal 22 ottobre 2020, migliaia di manifestanti scendono in strada in decine di città per sostenere lo “sciopero delle donne”, contro la sentenza della Corte costituzionale che ha vietato l’aborto in caso di malformazione del feto. Sostenuta dal governo conservatore, la Corte ha limitato la possibilità di aborto ai soli casi di pericolo di vita per la madre e di stupro (casi che corrispondono al 2% degli aborti legali nel paese). Anche grazie alle mobilitazioni di massa per la libertà di scelta, l’applicazione della sentenza risulta a oggi sospesa.
Fonte: Strajk Kobiet; The Guardian; Wired.
Il 17 settembre 2020 è stata inaugurata, all’ingresso di Foggia, un’installazione dello street-artist Alessandro Tricarico intitolata “Solo braccia”: due mani tengono due piante di pomodoro, in bianco e nero, su un silos alto 32 metri. L’opera ricorda i 16 braccianti stranieri morti nell’agosto 2016 in due incidenti stradali. I lavoratori erano stipati in furgoncini gestiti dai “caporali”: l’ultimo anello di una lunga catena di sfruttamento che, approfittando della vulnerabilità delle persone, va dai campi alle nostre tavole, passando per la grande distribuzione.
Fonte: Foggia Today.
L’avvocata Ebru Timtik è morta il 27 agosto nel carcere di Istanbul, dove si trovava da 18 mesi con l’accusa di legami con il Fronte Rivoluzionario della liberazione popolare (Dhkp). Da tempo conduceva uno sciopero della fame per protestare contro le condizioni di detenzione e le violazioni dei diritti umani nel paese. Sulla sua bara una bandiera rossa, un abito da avvocato e dei garofani. L’avvocata aveva difeso anche la famiglia di Berkin Elvan, un adolescente morto nel 2014 per le ferite riportate durante le proteste di Gezi Park. Ebru Timtik non è la prima vittima del sistema carcerario turco e, in assenza di un cambio di governo e di politiche nel paese, non sarà l’ultima.
Fonte: la Repubblica.
Mario Paciolla, 33enne, operatore delle Nazioni Unite in procinto di rientrare in Italia, è stato trovato morto lo scorso 15 luglio nella sua casa di San Vicente del Caguán, alle porte dell’Amazzonia colombiana. In molti chiedono verità e giustizia, perché diversi elementi portano a scartare l’ipotesi di suicidio avanzata dalla polizia colombiana. Dopo due anni come volontario per l’organizzazione non-governativa Peace Brigades International, dall’agosto 2018 Mario Paciolla collaborava con la Missione delle Nazioni Unite sulla verifica degli accordi di pace tra il governo e le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (Farc). Una missione delicata, in una regione segnata da oltre 50 anni di guerra civile e dove una vera pace continua a essere una speranza, una promessa non mantenuta.
Fonti: vita.it; valigiablu.it; open.online.
Il 6 luglio 2020 la nave Ocean Viking, gestita da SOS Mediterranée, ha finalmente ricevuto l’autorizzazione a sbarcare a Porto Empedocle 180 persone salvate in mare. Dal 26 giugno l’imbarcazione per sette volte aveva chiesto alle autorità marittime italiane e maltesi di poter attraccare, ricevendo altrettanti rifiuti. Venerdì pomeriggio, la nave aveva dichiarato lo stato di emergenza dopo sei minacce di suicidio in 24 ore da parte delle persone a bordo. Domenica tutti i migranti erano stati sottoposti al tampone, risultando negativi al Covid-19.
Fonti: ilpost.it; SOS Mediterranée.
16 artisti hanno realizzato la scritta “Black Lives Matter” a lettere cubitali e colorate su una strada di Toronto. Un forte messaggio di solidarietà al movimento anti-razzista globale, sceso in piazza da settimane per reagire all’uccisione di George Floyd e che ha posto all’ordine del giorno la riforma radicale e il de-finanziamento della polizia. La settimana scorsa il Consiglio comunale della città aveva dibattuto la questione, approvando un piano di contrasto al razzismo istituzionale nella polizia.
Fonte: blogto.com
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato che il 1. luglio 2020 verranno annesse a Israele le colonie in Cisgiordania, corrispondenti a circa il 30% del territorio. Gerico diventerebbe una exclave. Il timore del Coronavirus e le restrizioni legate alla crisi sanitaria non hanno impedito a migliaia di palestinesi di manifestare il loro dissenso a Ramallah, Gerico e vari centri della West Bank.
Fonte: globalist.it
Sarah Hegazi, attivista queer egiziana, si è suicidata a 30 anni il 14 giugno 2020. Nel 2017 era stata arrestata per aver sventolato una bandiera arcobaleno a un concerto. Stuprata e torturata in carcere, era stata liberata un anno fa grazie a una campagna internazionale. Da allora aveva trovato asilo in Canada. Alle compagne del collettivo di cui faceva parte diceva spesso: «Non mi sono mai sentita così viva come durante la rivoluzione».
Lo street-artist Banksy ha commemorato George Floyd, ucciso dalla polizia di Minneapolis, accompagnando la sua opera con queste parole: “Le persone nere sono tradite dal sistema. Il sistema dei bianchi. È come un tubo rotto che allaga l’appartamento di sotto. Questo sistema difettoso rende la loro vita miserabile, ma non è loro responsabilità ripararlo. È un problema dei bianchi. Se i bianchi non lo riparano, qualcuno dovrà salire al piano di sopra e sfondare la porta”.
Fonte: instagram.com/banksy/
Gli Stati Uniti in piena pandemia sono attraversati da manifestazioni di protesta per l’uccisione di George Floyd da parte della polizia di Minneapolis, il 25 maggio 2020. Per la prima volta a manifestare non sono soltanto le persone nere e i movimenti anti-razzisti, come Black Lives Matter, ma anche alcuni settori delle forze dell’ordine. Come a Coral Gables, Florida, dove gli agenti si sono inginocchiati in segno di solidarietà verso la vittima e la comunità afro-americana. #WeCantBreathe
Fonti: eu.app.com; nbcnews.com
La crisi sanitaria da Covid-19 offre al governo USA l’alibi per attaccare la Repubblica Popolare Cinese. In tempi di nuova Guerre fredda, è apparso sui resti del Muro di Berlino un nuovo murale, che riprende il famoso bacio tra Honecker e Brezhnev sostituendoli con Donald Trump e Xi Jinping.
Fonte: Getty
Banksy, lo street-artist di fama mondiale, ha realizzato una nuova opera intitolata Game changer, in cui un’infermiera prende il posto dei supereroi. L’opera è stata lasciata in un corridoio dell’University Hospital di Southampton.
Fonte: instagram.com/banksy
In Amazzonia si scavano centinaia di fosse comuni per seppellire i morti Covid-19. Con i pochi posti di terapia intensiva ormai al completo. Il sindaco di Manaus ha denunciato l’emergenza, attaccando l’indifferenza del presidente brasiliano Jair Bolsonaro.
Fonte: Ansa
Più di 2000 cittadini si sono riuniti in Rabin Square, a Tel Aviv, il 15 aprile 2020 rispettando le norme sul distanziamento sociale per protestare contro Netanyahu e il suo tentativo di formare un governo di unità nazionale con il suo ex contendente, Benny Gantz.
Fonte: EPA/ABIR SULTAN.
Nelle giornate di Pasqua gli unici ad affollare le metropolitane delle grandi città italiane (Milano, nella foto a sinistra) sono stati i riders, ossia i lavoratori delle consegne di cibo a domicilio per conto delle piattaforme digitali. In tanti hanno lamentato l’assenza di idonei dispositivi individuali di protezione (foto a destra). Il 1° aprile 2020 il Tribunale di Firenze ha accolto il ricorso di un rider estendendo al committente, ossia alla piattaforma digitale, l’obbligo di mettere a disposizione dei lavoratori attrezzature idonee a tutelare la loro salute e sicurezza.
Fonte: blitzquotidiano.it
La pandemia da COVID-19 è diventata subito oggetto di rappresentazione da parte degli/delle street artists di tutto il mondo, secondo una molteplicità di stili e modalità. Fin dalla sua apparizione, l’arte di strada costituisce un potente mezzo di comunicazione e sensibilizzazione sociale, e potrà certamente contribuire a farci comprendere il senso della pandemia da punti di vista inediti. Qui una donna in gravidanza passa davanti un murale a Hong Kong, il 23 marzo 2020.
Fonte: Anthony Wallace/AFP via Getty Images