Dopo il Coronavirus. L’insegnamento delle pandemie nella storia
di Mauro Stampacchia
L’emergenza sanitaria legata alla diffusione del Covid-19 sembra quasi un evento accidentale, esterno al sistema economico e alla organizzazione sociale. Un infortunio, come talvolta accade. In realtà questa pandemia rispecchia sia il sistema economico che il modo con cui la società è organizzata, e quasi si alimenta in questa stessa società, malgrado le modalità con le quali al contagio da virus si cerca di rispondere, siano esse il lockdown, o altre. E questo effetto di rispecchiamento, tra pandemie e società, attraversa tutta la storia umana.
In questi primi tre mesi dell’anno, in molti paesi del mondo, il virus la sta facendo da padrone, con un pesante fardello di morti, con l’impatto sul sistema sanitario, le recessioni previste in economia, gli impatti sulle società. Si tornerà, e quando, alla “normalità”? O si può già dire che la “normalità” non potrà né dovrà essere quella di prima?
Ci sono eventi nella storia che le generazioni percepiscono come dei veri spartiacque, come un “dopo” che è del tutto diverso dal “prima”. Nel Novecento i due grandi spartiacque sono i conflitti mondiali. Dopo la Prima guerra mondiale Stefan Zweig, uno scrittore austriaco, poté intitolare una sua opera al “mondo di ieri”, ormai scomparso e non più ricreabile. Ancora di più la Seconda guerra mondiale, anche essa generatrice di una mobilitazione di massa, e quindi anche di una entrata inesorabile e tragica nella vita quotidiana di milioni e milioni di persone, trasformata come era in una “guerra ai civili”, massa di manovra ma anche e soprattutto bersaglio. Avverrà lo stesso per il coronavirus? Lo avvertiremo come un evento spartiacque?
A eventi in corso, la risposta rimane sospesa, tanto più quanto si cerca di adoperare strumenti di carattere storico, a cui appartiene la potenza ma anche il limite del comprendere appieno un fenomeno solo quando esso si sia compiuto, e pienamente, “sul far della sera”. Ma la ricerca storica rifugge dalla mera erudizione o dalla conoscenza fine a se stessa. Gli aspetti comparativi, il confronto di un evento con il suo paesaggio e contorno storico, la costruzione di un insieme di dati e di informazioni nel periodo lungo, sono strumenti che possono servire qui ed ora, per iniziare a capire, quando non anche provare ad influire su un fenomeno in corso, e prendere il pericolosissimo “toro per le corna”. E per dare una sponda critica a chi avverta la necessità di imparare la lezione di questa tragica pandemia, in omaggio al futuro che l’umanità comunque si merita, malgrado tutte gli errori e le malefatte fin qui commesse, e perché no, anche in omaggio alle molte vittime della malattia.
Le pandemie come specchio delle diverse epoche e società
Questa non è certo la prima pandemia che si presenta nella storia dell’umanità1. Essa presenta, tuttavia, una sua assoluta specificità. In epoca antica, abbiamo talvolta notizie poco certe quanto agli agenti patogeni, ma sappiamo intanto che sono le guerre e gli spostamenti degli eserciti che ne fanno da veicolo. E sappiamo pure che la efficienza della rete stradale e di comunicazione in epoca romana ne costituisce elemento di diffusione, come è il caso della “peste antonina” del 160-180 d.C., che uccide in Italia tra il 10 e il 30 per cento della popolazione. In qualche caso le pandemie, come la peste di Cipriano del 249-70, con un conto delle vittime quasi analogo alla precedente ma relativo a tutto l’Impero, sarebbe uno dei fattori del declino dell’Impero medesimo, almeno della sua parte d’Occidente, mentre quella nota come peste di Giustiniano (541-42) fece tra i 25 e 50 milioni di vittime, quasi la metà della popolazione delle aree colpite, causando danni economici gravissimi e di lunga durata, fermando il progetto di riunificazione imperiale di Giustiniano. Diverso l’effetto della Peste Nera del 1347 (quella del Decameron) che nel giro di pochi anni uccide tra il 35 e il 60% della popolazione dell’Europa e del Mediterraneo, ma, tragica e devastante nel breve e medio periodo, porta in alcune zone il beneficio di un riequilibrio tra risorse e popolazione, contraendo disuguaglianze e ricchezze, mentre in altre, periferiche e scarsamente popolate, come Spagna e Irlanda, lascia un danno durevole, in Egitto il degrado del millenario sistema idraulico.
Nel Seicento le epidemie (tra cui la peste del 1629-30 di cui parla Manzoni) furono un fattore decisivo, insieme alle nuove rotte atlantiche, per segnare, nel declino dell’economia dell’Italia, il divario economico tra le varie parti d’Europa. Di quell’epoca sono le prime sistematiche e generali misure anti-contagio, dai blocchi alle frontiere degli stati ai cordoni sanitari alla ricostruzione dei lazzaretti, in uso per i lebbrosi già dal medioevo, per l’isolamento e la (auspicabile) cura dei contagiati. Insieme si affermava la necessaria competenza delle autorità pubbliche nel frenare il contagio e si riaffacciavano vecchie credenze e superstizioni, prima di tutte quella del capro espiatorio per eccellenza e anticipazione dei successivi complottismi, e cioè la figura dell’untore, del nemico della società sana che da dentro la società cospira per allargare il contagio. Il contagio come castigo divino seguiva a ruota, in ogni caso levando di responsabilità le autorità pubbliche per le loro (vere o presunte) mancanze. Tutto questo nuovo apparato sia amministrativo che mentale veniva però messo da parte dal primato intoccabile della guerra, che non si quarantena di certo anche quando trasporta con sé la pestilenza (così fu nel caso della peste narrata dal Manzoni). Ma del resto, come dimenticare che intorno alle malattie, e alle pestilenze quindi, si giocano battaglie di senso niente affatto secondarie. Come quando il “mal francioso”, cioè la sifilide, era tale in Italia, ma in Francia era invece un male napolitain. Tutto questo, naturalmente, all’insaputa dei batteri Treponema pallidum causa della malattia, che prosperavano del tutto incuranti dell’origine e nazionalità dei loro ospiti.
Tra le catastrofi naturali, la pestilenza batte dunque il terremoto (quest’ultimo imprevedibile e non arrestabile in alcun modo), anche per il gran carico di valenze simboliche che malattia, peste, contagio, pandemia si trascinano dietro, per la grande mutabilità di questi ultimi e ma anche per la possibilità di mettere in campo politiche pubbliche di contrasto, mitigazione, arginamento.
L’epidemia ottocentesca per eccellenza è il colera, a trasmissione oro-fecale, che trova il suo habitat naturale nelle affrettate urbanizzazioni della società industriale, con la mancanza di adeguati impianti sanitari, il sovraffollamento, la miseria e la denutrizione. Nella sola Italia il colera farà in quel secolo sei cicli di epidemia per un totale tra le 500 e 700 mila vittime. Il manifestarsi di epidemie e pandemie è quindi specchio del modo di essere di ogni epoca e di ogni società. L’epidemia poi entra in una dialettica sfida-risposta, nella quale risposta, significativamente, entrano non solo i provvedimenti di tipo medico, ma più ampie provvidenze: potenziamento dei sistemi fognari, miglioramento della qualità delle acque potabili, bonifica dei quartieri più degradati.
Nella storia italiana (ma anche in quella di altri paesi) pesano, oltre che le pandemie, anche le endemie, cioè la presenza stabile, in alcune zone, di malattie, che producono effetti come epidemie, se non ancora di più, per il fatto che queste malattie limitano pesantemente lo sviluppo di quei territori. È il caso della malaria, presente e indebellata fino alla Seconda Guerra mondiale, in Maremma, Agro Romano e Pontino, e in ampie zone della Pianura Padana e del Mezzogiorno. Inizialmente imputata al paludismo, la malaria è in realtà causata dal plasmodio, parassita di una specie di zanzara, la anofele, che nella palude trova un luogo adatto alla riproduzione. Così parti consistenti del territorio erano inadatti allo sviluppo agricolo, talvolta anche ad un minimale insediamento umano. Anche le endemie generano una dialettica sfida-risposta. Nel caso italiano il sapere medico applicato alla malaria matura gradualmente la consapevolezza di dover andare oltre le provvidenze mediche, da sole inefficaci. Si genera così una spinta a mettere in campo provvedimenti che vanno oltre quelli di carattere medico, da soli inefficaci, estendendo l’intervento alla eliminazione del paludismo, alla educazione sanitaria della popolazione, alla instaurazione di forme di agricoltura di carattere intensivo, nel quadro di una bonifica umana caratterizzata dalla “integralità”. Questo processo, “una modernizzazione italiana”, inizia sin da prima delle bonifiche in età fascista, è ricostruito dall’inglese Frank Snowden, storico delle epidemie, del loro impatto e delle risposte che esse suscitano nella sfera delle politiche pubbliche e nelle modalità della convivenza sociale e politica2.
Dunque la questione della pandemia non è solo questione medica con i suoi saperi, presidi e tecniche. Certo adesso la rapida messa a punto di un vaccino, la sperimentazione delle terapie, la ricostruzione di un sistema sanitario dimezzato da tagli e umiliato da logiche aziendalistiche, sarebbero benvenute e sarebbero state o saranno capaci di salvare quelle vite che un virus sconosciuto ed insidioso, e l’impreparazione sistemica, non ci hanno consentito di mettere in sicurezza, malgrado la generosa e coraggiosa reazione del personale sanitario. Le maggiori conoscenze mediche attuali hanno scongiurato un onere di vittime paragonabile a quella dell’epidemia influenzale cosiddetta “spagnola” del 1918-20, a cavallo tra la fine della guerra e il primo dopoguerra, che arrivò ad una cifra, a livello mondiale, tra i 50 e i 100 milioni, in Italia tra 300 e 400 mila. La “spagnola”, che in realtà ebbe origine probabilmente negli Stati Uniti, e che prese quel nome perché solo i giornali della Spagna, paese non in guerra, ne poterono parlare liberamente, mentre altrove le informazioni erano strategicamente sensibili a fini bellici. E la guerra con le sue stringenti necessità rese più facile il contagio, più difficili le cure, così pure un primissimo dopoguerra ricco di sconvolgimenti e dislocazioni sociali. La “spagnola” è comparabile al Covid-19 per la contagiosità, ma al contagio seguiva la morte solo nel 3-4% dei casi, almeno nelle statistiche italiane.
Il Coronavirus come specchio della nostra civiltà
Ogni epidemia, soprattutto quando è di questa portata e investe rapidamente un intero pianeta, va analizzata per come si interfaccia con il contesto sociale ed economico dal quale promana e nel quale si muove. Da una recente intervista di Frank Snowden traiamo indicazioni preziose sulla natura di questa ed altre potenziali pandemie. Era una pandemia da più parti prevista, magari non in queste forme e dimensioni. Anthony Fauci, consulente delle presidenze Usa, già nel 2005 si esprimeva in questi termini, più recentemente ricercatori avevano previsto degli spillover, passaggi e mutazioni, dal mondo animale all’uomo, di virus, la cui pericolosità stava nel loro essere del tutto “nuovi”, dunque sconosciuti. Questo spillover non può non essere interpretato se non alla luce di un disequilibrio ormai cronico tra un pianeta sempre più antropizzato e un restante mondo animale sotto scacco. Qualcosa di noto, ed annunciato, eppure non preso nella dovuta considerazione, dominando ancora l’idea della possibilità di una crescita economica e di uno sviluppo infinito dentro un quadro di risorse planetarie ormai limitate (lo stesso quadro del resto che genera il rischio connesso al cambiamento climatico, e agli irreversibili processi che quest’ultimo genererà se non si inverte il modo di sviluppo). La drammaticità ed ingestibilità di quello che potrebbe succedere del resto è stato in qualche modo anticipato proprio in questi mesi nei quali il Coronavirus ha fatto da padrone.
Quest’ultimo si è dunque fatto spazio dentro vulnerabilità che sono state costruite dagli esseri umani. E viaggia lungo questi canali di vulnerabilità, tanto da presentarsi, sono parole di Snowden, come “specchio di ciò che siamo come civiltà”. La propagazione del contagio ha viaggiato e continuerà a viaggiare nel reticolo di rapide intercomunicazioni, di uomini o merci, che attraversano adesso gran parte del pianeta. Il virus non conosce confini o frontiere, valica muri: le tradizionali chiusure di frontiere e cordoni sanitari (ora “zone rosse”) possono servire forse a ritardare il contagio ma non ad azzerarlo. Una pandemia non si batte dentro confini nazionali, ma è un fenomeno globale, probabilmente non l’ultima di questo genere, che ha rapidamente posto un problema planetario, e sarà sconfitta, se sarà sconfitta, da una risposta planetaria, da una scienza per fortuna largamente internazionale, ma, nelle sue conseguenze, soprattutto da nuove politiche sociali ed ambientali. Da questi drammatici mesi dovrebbe essere tratta una lezione, una consapevolezza e una presa di coscienza che ci si aspetta si traduca in politiche pubbliche consone alla nuova situazione, capaci di farsene carico nella sua integralità.
Questo virus trae alimento dalle disuguaglianze e le evidenzia: colpisce di più laddove le protezioni sociali sono più deboli, o indebolite dalle politiche messe in atto negli ultimi decenni. Laddove i sistemi sanitari sono più deboli o meno generalmente accessibili. Il diritto all’accesso a cure mediche gratuite e di qualità è da tempo una questione al centro delle agende politiche, di fronte alla tendenza dominante che è stata quella di ridurre la sanità pubblica a favore della privata. Dopo la pandemia il diritto universale alla salute diventa un obbligo politico, etico, e di sostenibilità sociale.
Proprio in questi frangenti, quando la pandemia non è ancora in declino ed è anzi insediata nel cuore dell’Occidente, il grande timore riguarda le zone del pianeta più povere e meno attrezzate, prima di tutto l’Africa. Un virus così aggressivo non troverebbe un efficace contrasto né in pratiche igieniche diffuse, né in carenti o inesistenti strutture di cura. E qui si innesta una logica in una certa misura paradossale. Naturalmente chi scrive, e spero anche chi legge, spera vivamente che un così pesante fardello di vittime si possa evitare. Ma dovrebbe sperare nello stesso modo anche chi fosse pronto a considerare questa speranza un atteggiamento “buonista”, secondo il vecchio e ultranoto cinismo del privilegiato. Una bomba virale insediata nelle zone più povere renderebbe esplosiva tutta la situazione del pianeta, con popolazioni che se oggi fuggono da conflitti, carestie, desertificazioni, ed effetti del cambiamento climatico potrebbero domani tentare di salvarsi dal contagio e dalle sue conseguenze economico-sociali attraverso un balzo in avanti della migrazione difficile da governare.
L’arrivo di gruppi di medici e sanitari da molte parti del mondo per dare un aiuto all’Italia epicentro del contagio è stato un segnale di grande significato. Il contingente dei medici cubani, arrivato da un’isola impoverita dall’embargo ma che non ha mai impoverito il suo sistema sanitario, in nome dell’internazionalismo socialista, è un segnale importante. In realtà, anche chi non condividesse questo internazionalismo, dovrebbe far propria l’indicazione che le pandemie si vincono solo a livello dell’intero pianeta, e questo deve diventare senso comune e pratica condivisa.
L’emergenza sanitaria affrontata con l’inevitabile (ma molto grossolano) mezzo del lockdown, cioè con la riduzione al massimo delle interazioni sociali con l’indicazione/obbligo di non uscire di casa se non in casi particolari ed essenziali ha portato con sé una massiccia contrazione dell’economia, nazionale ed internazionale. Naturalmente siamo a livello di stime, ma l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (19 marzo 2020) parla di un aumento della disoccupazione che investirà a livello mondiale da 5 milioni 300 mila lavoratori nella ipotesi a minor impatto, a 24 milioni 700mila se impatto sarà medio alto (questa disoccupazione andrebbe ad aggiungersi ai preesistenti 118 milioni). E a cascata, perdita dei redditi da lavoro, e relativo calo dei consumi, con la avvertenza che ad essere colpito (con “effetto devastante”) in maniera più forte sarà quel comparto del lavoro più prossimo alla soglia della povertà, “persone che svolgono lavori meno protetti e meno retribuiti”, giovani, anziani, e immigrati. In una parola, la crisi da Coronavirus farà precipitare drammaticamente dinamiche già largamente presenti.
Per queste ragioni, è molto probabile che il Coronavirus rimarrà nella memoria collettiva, facendo da spartiacque tra un “prima” e un “dopo”. Quanto a questo “dopo”, al futuro dopo la pandemia, non ci sono automatismi, né soluzioni precostituite.
La crisi lancia un allarme di prima grandezza ma, come le precedenti emergenze sanitarie della storia, può essere fronteggiata e sconfitta, possono essere superati i danni che ha apportato ed apporterà nel medio e lungo termine. Ma quello che avviene nella storia è frutto di scontri e contrasti e non si può non vedere come questi già sono stati in atto nel diverso approccio al contrasto alla pandemia. Il ruolo delle autorità pubbliche, inevitabili e decisive nei provvedimenti di sanità pubblica, o è stato sottovalutato o è pregiudizialmente negato (lockdown=communism, recitava un cartello di protesta della destra Usa, con notevole spregio del ridicolo), o sottoposto a forti pressioni a favore degli interessi più consolidati. Il lockdown, nella sua drammatica necessità, ferma produzione e profitti, ma colpisce anche le economie di sussistenza, prosciuga ulteriormente le acque basse nelle quali si sopravvive in tanti angoli della società affluente. Questi ultimi li si può provare ad aiutare, ma con gli interessi forti il braccio di ferro è inevitabile, in una epoca nella quale il bene comune e il sistema economico, le persone e il profitto, sono in perenne e sostanziale conflitto.
Un fenomeno ancora in corso consente poche previsioni ma genera una quantità di dilemmi. Quale sarà la tenuta dei sistemi democratici, di fronte ai crescenti autoritarismi che anche attraverso l’emergenza sanitaria riescono ad ottenere pieni poteri (Orban in Ungheria il caso più visibile, ma non unico)? E un destino ineluttabile anche di fronte alla emergenza economica? Non si può invece vigorosamente sostenere il primato del consenso e della democrazia, quando è necessaria una mobilitazione anche civica e sociale, o quando occorra un nuovo modo di pensare e costruire la società e i rapporti economici? Con la crisi del Coronavirus l’attuale globalizzazione ha mostrato tutta la sua vulnerabilità, e se anche il virus che ha fermato il mondo non è fattore interno all’economia – come era stata invece di origine interna la crisi del 1929 e quella del 2008 – sicuramente ne ha mostrato l’intrinseca vulnerabilità, la sempre crescente incapacità di dare risposte adeguate ai bisogni di chi la globalizzazione ha messo in gioco e coinvolto.
Don Ferrante, nel romanzo di Manzoni, in omaggio alla dominante filosofia scolastica, sosteneva con forza che la peste, non essendo né sostanza né accidente, non esisteva e non mutò questa convinzione nemmeno di fronte all’aggravarsi dei sintomi e all’avvicinarsi della morte. Il Coronavirus, non abbiamo dubbi, non è cosa accidentale, anche se sembra essere apparso per caso e all’improvviso. Esso è sostanza, sostanza piena di questo mondo, e di questo mondo farà parte anche quando restasse solo come minaccia, di sé o di altri potenziali pandemie. Se considereremo un mero accidente questa peste del 2020 e non agiremo contro la sua sostanza, e il mondo che l’ha generata e accolta, potrebbe toccarci la stessa sorte, ma collettiva, del colto e nobile personaggio manzoniano.
Mauro Stampacchia è Senior Fellow presso Centro Interdisciplinare “Scienze della Pace” dell’Università di Pisa. Ha insegnato storia contemporanea, storia delle dottrine politiche e storia del movimento operaio e sindacale. Emai: mauro.stampacchia@gmail.com
Note
1 Frank Snowden, Epidemics and Society. From the Black Death to the Present, Yale University Press, 2019.
2 Frank Snowden, La conquista della malaria. Una modernizzazione italiana, Einaudi, Torino, 2006. Guido Alfani, Pandemie d’Italia. Dalla peste nera all’influenza suina. L’impatto sulla società, Egea, 2020. Guido Alfani, La storia dei contagi dall’antichità al Covid-19, in “La Lettura”, 5 aprile 2020.