Covid-19 e crisi dei contratti. Dall’emergenza sanitaria all’emergenza giuridica
di Roberto Natoli
Covid-19 e il diritto dei contratti. Tra regole e princìpi
Covid-19 ha messo in crisi intere filiere produttive: dal momento che le filiere produttive sono regolate da contratti, l’impossibilità di adempiere prestazioni contrattuali ha generato un pernicioso effetto domino. Ma i contratti, oltre che spia della crisi economica conseguente all’emergenza sanitaria, sono anche strumento per risollevare le sorti dell’economia. Non solo perché il trasferimento di liquidità emergenziale, se non avviene con misure di trasferimento diretto (helicopter money), passa dal circuito bancario e dunque dai contratti di credito; ma anche perché salvare i contratti in essere è un modo per tenere in vita un apparato produttivo che, domani, dovrà garantire la ripartenza dopo il blocco forzato delle attività.
In questo scenario, un ruolo determinante avranno certamente i comportamenti delle banche: le quali, a maggior ragione in presenza di garanzie forti come quella statale, diretta e/o indiretta, dovrebbero superare gli stringenti e spesso bizantini criteri tradizionalmente utilizzati per verificare il merito di credito dei richiedenti. Ma purtroppo è già notizia di stampa che le procedure standardizzate con cui operano le banche non sono state modificate, poiché l’iter nel quale si imbatte un’impresa che abbia diritto al credito agevolato è tutt’altro che semplificato. Dario Di Vico, nel suo articolo Coronavirus e decreto liquidità: cosa si chiede a un’azienda per avere il prestito, apparso sul Corriere Economia del 20 aprile 2020, ha contato 19 adempimenti per ottenere un prestito.
Ma un ruolo non meno determinante avrà la capacità dei giuristi di immaginare regole che sappiano proteggere i contratti – e dunque le famiglie e le imprese che in forza di quei contratti sono talvolta debitrici, talvolta creditrici – dall’esito infausto cui molti oggi paiono destinati: poiché per ogni contratto che si spegne, c’è una ricchezza che si distrugge. A prescindere dal ruolo che il credito (e chi lo eroga) riuscirà ad assolvere per consentire al paese di sopravvivere economicamente e socialmente alla crisi, nell’emergenza occorre offrire risposte anche ad altri problemi contingenti, che richiedono però risposte giuridiche coraggiose. È questo un periodo in cui possono pure riaffiorare temi che parevano consegnati alla storia del pensiero giuridico, come il dibattito sulla sorte delle locazioni commerciali relative ad attività produttive sospese per scelta dell’autorità: nella discussione in atto ricompare persino il vecchio tema del conflitto tra proprietà e impresa.
Si tratta di un dibattito su cui già molti giuristi hanno scritto, la gran parte dei quali giustamente evocando il principio costituzionale di solidarietà; ma è un dibattito che, a mio avviso, andrebbe impostato evocando, ancor prima dell’art. 2, l’art. 1 della Costituzione: il principio lavorista, fondativo della nostra comunità repubblicana. La crisi dei contratti è una crisi di sistema, perché è conseguente alla drammatica contrazione del prodotto interno lordo nazionale. Di fronte a una simile emergenza, non ci si può appellare a questa o quella norma puntuale, ammaliati dalle sirene del sillogismo giuridico: è necessario operare una scelta di fondo per decidere chi, e in che misura, debba sopportare una distruzione di ricchezza di cui, almeno al momento, è facile addossare la responsabilità alla “natura matrigna”.
In una situazione come l’attuale, di crisi anche delle categorie giuridiche, l’interprete può trovare una bussola solo nelle opzioni di vertice dell’ordinamento giuridico. Deve compiere una scelta di fondo che riguarda princìpi (e i valori che incorporano) e non regole: il richiamo a norme e istituti pensati per la normalità economica, in questa temperie sociale, è non solo inappagante, ma probabilmente errato, e controproducente. Ecco perché occorre ripartire dalla tutela del lavoro, in tutte le sue forme: e da qui argomentare che, se la possibilità del lavoro si comprime per fatti straordinari e imprevedibili, non si può chiedere al lavoratore di attingere ai propri risparmi per preservare la possibilità dell’attività futura.
Nel conflitto tra il proprietario dell’immobile che pretende il suo canone e il conduttore che oppone la chiusura dell’attività (di diritto o no: si pensi ai professionisti, la cui attività non è stata formalmente sospesa, ma è stata di fatto sterilizzata dal lockdown), ragionare con le tradizionali categorie giuridiche, secondo cui la corresponsione del canone non è mai impossibile, perché il denaro è genus numquam perit, significa privilegiare, contro i principi fondativi della comunità, la rendita sul lavoro. Passata la tempesta, la rendita riprenderà il suo corso, il lavoro potrebbe nel frattempo essere scomparso. Ed è probabilmente superfluo aggiungere che nel prossimo futuro, considerato il crescente indebitamento cui lo Stato dovrà ricorrere per affrontare l’attuale fase avversa del ciclo economico, occorrerà fare di tutto per preservare ogni attività capace di creare ricchezza e produrre gettito fiscale.
Ripensare vecchie categorie, costruirne di nuove
Categorie tradizionali del diritto civile, di fronte all’emergenza, meritano almeno un ripensamento. La forza di legge del contratto, insensibile agli avvenimenti, cede di fronte alla realtà di questi mesi e, probabilmente, dei prossimi anni. Il principio pacta sunt servanda ha dalla sua la forza della tradizione, non certo quella dell’innovazione. Non a caso, già in tempi di normalità, non pochi ne avevano discusso la perentorietà, occhieggiando a un generale dovere di rinegoziare le condizioni del contratto, quando fatti sopravvenuti e imprevisti le rendano non più giustificate: e avevano rintracciato, non casualmente, il fondamento di un tale obbligo nella buona fede e nel principio costituzionale di solidarietà economica e sociale. Si comprende, allora, che l’attuale emergenza ha ravvivato quel dibattito, portando tanti ad auspicare giustamente l’introduzione di un tale obbligo da parte del legislatore ordinario. La crisi, come tante volte accaduto in passato — lo stesso codice civile è in gran parte figlio della legislazione emergenziale del primo dopoguerra — potrebbe essere il volano per superare le ultime titubanze e chiarire che il contratto vincola sì le parti con forza di legge, ma fin quando le cose non cambiano: rebus sic stantibus. Quando i fatti cambiano, devono cambiare anche le idee, diceva John Maynard Keynes, dai cui libri oggi si soffia via la polvere: non si vede perché non debba cambiare anche il contenuto dei contratti, evitando che il loro funzionamento si inceppi; perché non debba evitarsene la risoluzione (magari pronunciata all’esito di lunghi e costosi contenziosi giudiziali) trovando strumenti generali di manutenzione che evitino distruzione di ricchezza e perdite di investimenti.
Ripensare il sistema giudiziario
Al di là di ciò, la crisi sanitaria induce a ripensare definitivamente il rapporto tra diritti e tecniche di attuazione, comprendendo che l’astratta proclamazione di diritti, in assenza di pronti rimedi per attuarli, è un vano esercizio retorico. Si è giustamente notato che la pandemia ha messo a nudo i limiti di una certa idea di sanità, concentrata su pochi grandi ospedali e ostile alla medicina di prossimità. La giustizia statale soffre purtroppo dello stesso limite, affidata com’è a una macchina necessariamente complessa e tendenzialmente centralizzata: è una risorsa scarsa e costosa, da trattare quindi come extrema ratio, soprattutto se strumenti più rapidi ed efficaci si offrono alle parti. Ma che esistano forme di giustizia alternativa è un’idea ostacolata dalle incrostazioni di una cultura ottocentesca e statolatrica ancora esistente, che fa guardare alla giustizia privata come a un nemico, quasi che il problema non sia dare giustizia, ma chi la dà. È accaduto però che l’incredibile sospensione delle attività giurisdizionali (sostanzialmente limitate, per il settore civile, ai soli procedimenti che investano diritti fondamentali della persona: art. 83, comma 3, lett. a, d.l. 18/2020) abbia sortito il risultato che da mesi, nell’emergenza e dunque quando ci sarebbe più bisogno di decisioni, gli operatori economici sono abbandonati a sé stessi; mettendo peraltro a nudo l’inadeguatezza, anzitutto in termini di cybersecurity, delle infrastrutture che governano il processo civile telematico, troppo prematuramente celebrato dai corifei dell’innovazione tecnologica.
Nell’assenza non tanto di regole (il legislatore dell’urgenza ne ha infatti dettate fin troppe), quanto di giudici statali cui rivolgersi, sta così accadendo che persone e imprese si facciano ragione da sé, affermando in autonomia ciò che è giusto e ciò che è sbagliato; o che spesso cedano a comportamenti opportunistici, sì che anche debitori non in crisi di liquidità si trincerano dietro un’indistinta emergenza sanitaria per sospendere i pagamenti dovuti, così ulteriormente prosciugando il già arido circuito economico.
La soluzione che in questi tempi avrebbe avuto più senso – un sistema di risoluzione delle controversie alternativo alla giustizia statale e affidato a terze parti (mediatori, arbitri) o ai legali dei contraenti (negoziazione assistita) – non è stata neppure presa in considerazione dal legislatore, che non ha invece tardato a serrare immediatamente le porte dei Tribunali persino per i procedimenti urgenti (i noti ricorsi ex art. 700 del codice di procedura civile) in materia economica. Non essendoci altre porte aperte, il risultato è sotto gli occhi di tutti: il diritto, chiamato alla prova dell’emergenza, ha smarrito il suo senso: che, fin dai tempi degli antichi romani, è di evitare che cives ad arma veniant; che i cittadini si facciano giustizia da sé.
Lo sguardo lungo necessario
Sebbene la crisi offra straordinarie opportunità, come l’immediato allentamento dei vincoli finanziari europei ha già dimostrato, sul fronte del diritto e della giustizia civile molto poco è stato fatto; e quel poco che è stato fatto non è stato guidato da quello sguardo lungo che, mai come in questi periodi, dovrebbe guidare le scelte della classe dirigente. Eppure, chi quella lunghezza di sguardo ha già mostrato di possedere (Mario Draghi, We Face a War Against Coronavirus and Must Mobilise Accordingly, sul Financial Times del 25 marzo 2020), ha sùbito osservato che “se l’esplosione del virus e i conseguenti lockdown dovessero protrarsi”, le imprese “potrebbero realisticamente rimanere sul mercato solo se i debiti fatti per mantenere nel tempo l’occupazione fossero alla fine cancellati”: evocando così un’epocale esdebitazione di sicuro non governabile con attrezzi giuridici, pur di ottima forgia e pregevole fattura, del passato. Occorre invece un’ispirazione, verrebbe da dire una fantasia nuova, che faccia strame di quelle idee da “rammolliti da una vita di ufficio e di astuzie” di cui erano intrisi gli ufficiali dell’alto comando francese, che consegnarono Parigi alle truppe d’occupazione tedesca, come raccontò Marc Bloch ne La strana disfatta. Se non ci riusciremo, un altro storico troverà facile materiale per scrivere della strana disfatta dell’economia italiana, scomparsa per l’incapacità dei più di immaginare, oggi, il mondo di domani.
Roberto Natoli è Ordinario di Diritto dell’economia all’Università degli Studi di Palermo.