lunedì, Dicembre 23, 2024
AmbienteConflitti

Cos’è il disarmo climatico e perché dovrebbe interessarci

«In Francia ci sono zone dove l’esercito è ancora impegnato a neutralizzare le mine della prima guerra mondiale. Pensate quanto ci vorrà per far scomparire gli effetti di quanto sta accadendo oggi sulla linea del fronte in Ucraina». Queste le parole di Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Italiana Pace e Disarmo, fanno riflettere sullo stretto legame che intercorre tra pace e ambiente. In questo articolo, pubblicato sulla rivista Valori si analizza, più in generale, il nesso tra guerra, complesso militare-industriale e crisi climatica: a titolo d’esempio, il solo Dipartimento della Difesa statunitense produce ogni anno la stessa quantità di gas serra prodotta da 140 nazioni. D’altra parte, il drammatico mutamento delle condizioni climatiche ha portato, sta portando e porterà sempre di più a nuovi conflitti anche armati, o all’esacerbazione di quelli già esistenti, come le guerre per l’acqua. Da qui l’idea che il disarmo vada promosso sia come strategia di prevenzione dei conflitti armati, sia come strumento di contrasto al riscaldamento terrestre: una base per la necessaria convergenza tra movimenti pacifisti e ambientalisti, per garantire il futuro del pianeta e della specie umana.

 

di Lorenzo Tecleme

Parlare al contempo di pace e di ambiente non è mai stato così difficile. L’invasione russa dell’Ucraina ha messo in secondo piano il dibattito sulla transizione ecologica, e aperto la strada a passi indietro sulle pur timide policy verdi del passato. La rinnovata situazione geopolitica ha portato nel nostro Paese alla riapertura delle centrali a carbone e al ritorno delle trivellazioni in Adriatico. Di energia si parla sempre meno in termini di decarbonizzazione, e sempre più nella sola prospettiva dell’affrancamento dal gas russo.

Eppure c’è chi propone una cornice discorsiva diversa. Il movimento pacifista italiano, tornato agli onori delle cronache dopo le 100mila persone portate in piazza il 5 novembre a Roma, fin dall’inizio dell’invasione lavora ad un’elaborazione alternativa. Il concetto nuovo emerso tra chi si occupa di contrasto ai conflitti ha un nome preciso: “disarmo climatico”.

 

Cos’è il disarmo climatico

«Arrivare a questa elaborazione per noi è stato un processo naturale». A parlare è Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne della Rete Italiana Pace e Disarmo. «Da almeno 25 anni si è passati da un’idea di disarmo solo strategico, di mutuo interesse tra nazioni, a un disarmo dal basso che sia prima di tutto umanitario. Chiediamo la riduzione degli arsenali, mirando ad eliminarli del tutto, per scongiurare le guerre. In questa cornice per noi è evidente che al clima, e quindi alla vita sulla terra, servano politiche di pace».

Il disarmo climatico, nella teorizzazione dei movimenti, parte dal riconoscimento dell’interconnessione tra guerra e disastri ambientali, e arriva alla richiesta di policy al contempo ecologiche e pacifiste.

 

La guerra inquina – e molto 

Al legame tra pace e ambiente la Rete Italiana Pace e Disarmo, assieme ad altre realtà, ha dedicato una tre giorni a Trento alla fine di ottobre. Il primo dei legami emersi, come raccontano gli atti del convengo, è l’impatto ecologico dei conflitti.

L’apparato militare – inteso tanto come industria bellica tanto come esercito – inquina in tempi di pace e ancor più durante le guerre. Qualche dato aiuta a fornire le dimensioni del fenomeno. Secondo uno studio pubblicato nel 2019 il dipartimento della Difesa statunitense emette ogni anno la quantità di gas serra prodotta da 140 nazioni. Stando alle stime, il 50% delle emissioni riconducibili al governo britannico è da attribuire alla difesa. Cifre da capogiro ma, forse, perfino sottostimate. Il settore militare ha infatti scarsi obblighi di rendicontazione in fatto di emissioni, e gli attivisti sono costretti ad accontentarsi di approssimazioni.

L’impatto ambientale delle guerre non è solo climatico. «Anche al di fuori degli scenari di guerra le attività militari possono avere effetti disastrosi. Penso al caso della Sardegna, dove da anni si parla dell’inquinamento delle basi NATO», prosegue Vignarca. Effetti che si moltiplicano quando la guerra scoppia per davvero: «In Francia ci sono zone dove l’esercito è ancora impegnato a neutralizzare le mine della prima guerra mondiale. Pensate quanto ci vorrà per far scomparire gli effetti di quanto sta accadendo oggi sulla linea del fronte in Ucraina».

 

Un legame indissolubile 

I danni ambientali costituiscono una parte non trascurabile del bilancio di ogni guerra. Un conto che ha le vite umane come unità di misura. Nel 2018 a Kabul, Afghanistan, più di tremila persone sono morte per patologie riconducibili alla cattiva qualità dell’aria. Più vittime di quelle fatte dalla guerra nello stesso anno. I conflitti, distruggendo infrastrutture e impossibilitando l’implementazione di politiche ambientali, portano anche a queste morti indirette.

Ma allora è possibile ripulire il settore della difesa, decarbonizzandolo ed evitandone gli effetti inquinanti? Per Vignarca la risposta è no: «Gli eserciti possono migliorare le loro performance ambientali in alcuni settori specifici. Talvolta già lo fanno – pensiamo ai piani per l’isolamento termico delle caserme. Ma il cuore delle loro attività è intrinsecamente inquinante. È una questione pratica. Le forze armate hanno nella loro mission obiettivi di efficienza, distruzione del nemico, controllo del territorio, che non vogliono e non possono sacrificare per azzerare il loro impatto ambientale».

 

In guerra per il clima

«La guerra inquina sempre. Ma il legame tra attività belliche e riscaldamento globale è ancora più profondo», spiega Vignarca. «Il mutamento delle condizioni climatiche sta portando e porterà sempre di più all’emergere di nuovi conflitti. O all’esacerbazione di quelli esistenti».

Il primo motore di conflitti legato al riscaldamento globale è l’accesso alle risorse, e in particolare all’acqua. Tra il 2010 e il 2018 le Nazioni Unite hanno censito 263 eventi bellici classificati come «guerre dell’acqua». Conflitti in cui al centro della contesa si trova la costruzione di una diga, lo sfruttamento di un fiume, l’accesso ai pozzi.

Anche la militarizzazione dei flussi migratori dovuti al global warming preoccupa le organizzazioni umanitarie. «Negli anni Settanta c’erano sette hard wall, muri di confine invalicabili, in tutto il mondo. Oggi viaggiamo sulla sessantina. Il riscaldamento globale rende ampie aree del mondo inabitabili. Chi ci abita migra verso climi più favorevoli, ma trova frontiere chiuse armi in pugno», continua Vignarca.

I pacifisti non sono gli unici a temere che siccità, alluvioni e incendi portino a un inasprimento dei conflitti in giro per il mondo. Meno di un anno fa il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha discusso una proposta senza precedenti. Irlanda e Niger chiedevano di riconoscere per la prima volta gli effetti del cambiamento climatico come minacce per la sicurezza globale. Una linea condivisa anche dalla più grande – ed inquinante – alleanza militare del pianeta: la NATO. «Il cambiamento climatico sta rendendo il nostro mondo più pericoloso»: parole non di un’attivista, ma del segretario generale dell’alleanza atlantica John Stoltenberg. Pronunciate nel corso della COP26, la ventiseiesima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite tenuta a Glasgow nel 2021, e confermate nelle linee guida dell’organizzazione.

 

Guerra e clima, anche in Ucraina

Anche il più discusso dei conflitti attualmente in corso, quello russo-ucraino, non è esente da questo genere di ragionamenti. Vignarca divide i punti di contatto tra questa guerra e la questione ambientale in tre categorie.

«In primis c’è la più diretta delle correlazioni: l’inquinamento al fronte. Le zone di combattimento si riempiono sempre di scorie e materiale pericoloso per la salute umana. Poi c’è una caratteristica peculiare di questo conflitto: l’uso dei disastri ambientali come arma. A lungo si è temuto un bombardamento della diga Kakhovka, sul Dnipro, che avrebbe avuto effetti catastrofici. E non serve ricordare il dibattito attorno alla centrale nucleare di Zaporizhzhia». L’ultimo dei tre legami è quello che più preoccupa: «Si torna a parlare di rischio atomico. Una minaccia che andrebbe ben oltre i confini ucraini».

 

Alla transizione serve la pace 

C’è una convergenza d’interessi tra il mondo pacifista e quello ecologista che va anche oltre la sola conta dei danni ambientali riconducibili ai conflitti. L’azione contro la crisi climatica è, per sua natura, globale. Per questo esiste la diplomazia climatica, il lavoro spesso sotterraneo dei governi per concordare piani di riduzione delle emissioni coerenti. Un lavoro che trova la sua massima espressione nelle COP, gli incontri negoziali delle Nazioni Unite. In questi contesti son stati firmati i più importanti trattati sul tema, dal Protocollo di Kyoto all’Accordo di Parigi. Proprio in questi giorni si sta svolgendo la ventisettesima edizione a Sharm El-Sheik, in Egitto.

I risultati ottenuti finora in queste sedi sono sempre frutto dell’accordo tra grandi potenze – Cina e Stati Uniti in primis. Un clima da rinnovata guerra fredda, l’assenza di dialogo tra il mondo occidentale e quello orientale, renderebbero anche la diplomazia climatica inservibile.

«Come per il conflitto ucraino serve una nuova Helsinki, la Conferenza che pose le basi per la nascita dell’OSCE, così per il riscaldamento globale serve una nuova Parigi. In entrambi i casi è necessario il dialogo, non guerra», sintetizza Vignarca.

 

La soluzione? Convergenza dei movimenti 

Le piazze per il clima e quelle pacifiste si sono toccate solo marginalmente finora. Nonostante il legame di lunga data tra movimento nonviolento e del disarmo e mondo ecologista, per ora le mobilitazioni seguono binari paralleli. Ma per Francesco Vignarca la soluzione sta proprio nell’unirle.

«Servono percorsi che unifichino questi mondi. Un grande movimento ecopacifista può rispondere a molte delle questioni del disarmo climatico. Anche e soprattutto se il rapporto si crea con la nuova generazione di ecologisti, quella dei movimenti per il clima post-’19. Fridays For Future, Extinction Rebellion pongono una questione di giustizia climatica che per sua natura va ben oltre la “sola” lotta all’inquinamento. La strada è questa».

 

Fonte: Valori, 14 novembre 2022.