giovedì, Novembre 7, 2024
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Come accertare un intento genocidario: l’ultimo rapporto della Relatrice ONU per i Territori Palestinesi Occupati

Il primo ottobre 2024 è stato reso pubblico e trasmesso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite il nuovo rapporto di Francesca Albanese, Relatrice speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967. Intitolato significativamente “Il genocidio come cancellazione coloniale”, il rapporto si articola in quattro sezioni. La prima presenta il quadro giuridico applicabile (comprese le recenti e importanti pronunce della Corte Internazionale di Giustizia, sulla plausibilità di un genocidio in atto e sull’illegalità dell’occupazione israeliana) e gli sviluppi più recenti nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. La seconda evidenzia gli elementi di fatto che concorrono a definire quello in corso come un genocidio ai danni del popolo palestinese, finalizzato alla pulizia etnica di parti dei Territori occupati. La terza ricostruisce la complessità giuridica della nozione di “intento genocidario” e le vie per dimostrarne l’esistenza. La quarta invita a collocare gli eventi e l’interpretazione delle norme nel quadro del progetto coloniale del “grande Israele”, accompagnato dall’ampliamento delle pratiche di pulizia etnica da Gaza alla Cisgiordania, e dal tentativo di “razionalizzare” il genocidio come un atto di legittima difesa. In sintesi, la tesi del rapporto è che la questione del genocidio in corso vada contestualizzata all’interno di un processo pluridecennale di espansione territoriale e pulizia etnica portato avanti da Israele, volto a liquidare la presenza palestinese in Palestina. In conclusione, la Relatrice speciale avanza agli stati membri delle Nazioni Unite una serie di raccomandazioni, tra cui quella di: sanzionare e porre in essere un embargo totale sulle armi verso Israele, al fine di ottenere il cessate il fuoco e il ritiro completo dai Territori palestinesi occupati; riconoscere formalmente Israele come Stato di apartheid e persistente violatore del diritto internazionale, avvertendo il governo israeliano di una possibile sospensione del paese dalle Nazioni Unite; sostenere il dispiegamento di una presenza internazionale di protezione in tutto il territorio palestinese occupato; sviluppare un quadro di protezione per i palestinesi sfollati al di fuori di Gaza, garantendo il loro diritto al ritorno; indagare e perseguire le aziende coinvolte in crimini nel territorio palestinese occupato. Abbiamo deciso di tradurre la terza sezione del rapporto, dedicata alla questione giuridico-politica di come accertare l’esistenza di un intento genocidiario: mentre i governi e i media occidentali considerano un tabù la parola “genocidio” per definire gli eventi in corso, le argomentazioni di Francesca Albanese su come sia possibile accertare l’esistenza di un intento genocidario e in quali circostanze sia lecito attribuirlo a uno Stato (e non solo a singoli esponenti politici e militari), offrono un materiale ricco e necessario alla riflessione critica.

 

di Francesca Albanese

In seguito alla straziante esperienza dei recenti genocidi in Ruanda, nell’ex Jugoslavia e, plausibilmente, in Myanmar, il concetto giuridico di genocidio – la distruzione di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in tutto o in parte, in quanto tale – è stato meglio definito. Tuttavia, la prevenzione e la punizione effettiva del genocidio, e specialmente la definizione dell’intento genocidario, sono ancora in fase di sviluppo (Behrens, 2015).

Lo stigma e le conseguenze connesse al crimine di genocidio spesso dissuadono gli autori dal registrare (ad esempio per iscritto) politiche, piani e altre indicazioni dell’intenzione di portarlo a termine (ICTR, 2006). Quando una prova diretta dell’intenzione genocidaria non è disponibile, dedurla richiede una valutazione complessa di fatti, dichiarazioni e circostanze.

A questo riguardo, tre elementi devono essere tenuti a mente.  

A) Se, da un lato, riconoscere la possibile natura composita del genocidio è fondamentale per la sua identificazione e prevenzione, dall’altro lato l’articolazione della condotta in atti diversi, senza riferimento a un contesto più ampio, può oscurare l’intento genocidario che si sta cercando di appurare.

B) Oltre ai cinque atti che possono costituire una condotta genocidaria [uccisione di membri del gruppo; lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro, ndr], altri atti possono essere indicativi dell’intenzione di commetere genocidio (ICJ, 2015; ICJ, 2007; ICJ 2001; ICJ 2016).

C) La giurisprudenza esistente è nata principalmente dall’azione penale nei confronti di singoli individui (Schabas, 2009): ciò può limitare il riconoscimento precoce di una più ampia responsabilità di uno Stato per il genocidio, aspetto fondamentale per la sua prevenzione.

Capire come si manifesta l’intento di distruzione – il suo rapporto con gli atti genocidari prescritti [dalla Convenzione delle Nazioni Unite per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, ndr], la natura e la portata delle atrocità – è fondamentale per identificare i comportamenti che potrebbero costituire una prova dell’intento genocidario, quale unica ragionevole deduzione possibile.

Nelle sezioni che seguono, il Relatore speciale illustra brevemente come la giurisprudenza in materia, analizzata in astratto, sia pienamente in grado di cogliere l’intento genocidario nella condotta degli Stati, quando si adotti un approccio interpretativo globale.

 

Considerare la pluralità di fatti, circostanze e comportamenti 

L’ampiezza e la complessità del crimine di genocidio richiedono un’attenta analisi della condotta genocidaria nel suo complesso (ICTR, 2007), correttamente collocata nel suo contesto più ampio (ICJ, 2015), che include: la distruzione causata dalla natura e dalla portata delle atrocità commesse (ITFY, 2015; ICJ, 2015; JDI, 2023); la cosiddetta “nebbia di guerra” (ITFY, 2001); le rivendicazioni di una punizione o di motivi alternativi per la condotta seguita (ICTR, 2007a; ICTR, 2004); l’opportunità di commettere un genocidio (ITFY, 2001a; ITCR, 2007a). 

Nella prassi internazionale, gli stessi fatti possono costituire la base di molteplici accuse (e costituire un crimine di guerra, un crimine contro l’umanità e/o un atto di genocidio) (Wald, 2007). Nel determinare l’intento di commettere genocidio, è fondamentale valutare “se tutte le prove, considerate nel loro insieme, dimostrino uno stato mentale genocidario” (JDI, 2023; ITFY, 2006).

Come osservato dal giudice Trindade nella causa Croazia contro Serbia, un “assalto di civili” non è semplicemente una “pluralità di crimini comuni”, ma piuttosto una “pluralità di atrocità che, di per sé, con la sua estrema violenza e devastazione, può rivelare l’intento di distruggere” (ICJ, 2015, p. 3). L’attenzione dovrebbe essere focalizzata sul fatto che tutti gli atti – ad esempio fame, tortura, uccisioni, trasferimenti forzati, sterminio – considerati nel loro insieme formano un modello di condotta indicativo di un intento genocidario. (ITFY, 2012; ITFY, 2006; ICTR, 2011).

 

Singolarità dell’intenzione: distruggere un gruppo “in quanto tale”

Nel dimostrare l’intento di distruggere un gruppo in quanto tale, tutti i fattori rilevanti devono essere esaminati in modo olistico. La giurisprudenza sull’intento genocidario si concentra tipicamente sulla “distruzione fisica o biologica” del gruppo (ICFY, 2001; ICJ, 2007). Il fatto che la Convenzione sul genocidio sia stata redatta quando il colonialismo giocava ancora un ruolo significativo nelle relazioni internazionali e l’orrore dello sterminio su scala industriale dell’Olocausto era ancora vivido, può spiegare l’attenzione per la distruzione fisica e biologica rispetto ai fattori sociali e culturali (Starblanket, 2018). Tuttavia, il genocidio non è un crimine che consiste solo nell’uccisione di massa, come specificato nella Convenzione stessa (ITFY, 2005): l’atto genocida di “trasferire con la forza i bambini del gruppo ad un altro gruppo”, ad esempio, non comporta alcuna uccisione.

Il genocidio è strutturalmente più complesso e insidioso, e quindi più difficile da accertare, rispetto a crimini come l’omicidio di massa o lo sterminio. Un obiettivo più ampio è necessario per identificare l’intento di distruggere un gruppo in tutto o in parte, in quanto tale. La giurisprudenza internazionale prevede che atti diversi dai cinque elencati nella Convenzione possano essere una prova rilevante dell’intento genocidario (ICJ, 2015; ICJ, 2007; ITFY 2001; ITFY 2016).  Di conseguenza, il contesto storico e sociopolitico in cui si verifica il genocidio è fondamentale per identificare come l’intento si formi e poi si concretizzi anche attraverso questi altri atti.

La giurisprudenza si è ampiamente concentrata sulla determinazione dell’intento attraverso atti che mirano alle “fondamenta stesse del gruppo” (ICTR, 2008; ICTR 2008a e b; DCJ 1968), tra cui l’imposizione di condizioni di vita che portano a una “morte lenta” (ITFY, 2012) e la “distruzione dello spirito, della volontà di vivere e della vita stessa” (ICTR,1998). In altre parole, l’intento di distruggere viene valutato in modo olistico e complessivo.

La giurisprudenza ha anche riconosciuto che un gruppo è “composto dai suoi individui, ma anche dalla sua storia, dalle sue tradizioni, dalle relazioni tra i suoi membri, dalle relazioni con altri gruppi, dalle relazioni con la terra” (ITFY, 2005). La distruzione violenta di una qualsiasi di queste componenti ha un impatto profondo sul gruppo e sulla sua capacità di sopravvivenza (ICC, 2021; ). Traumi, povertà, scarsità di cibo, sfollamento forzato, perdita di case, terra e patrimonio culturale – e il colonialismo come “struttura duratura” (Wispelwey, 2003) – sono fattori determinanti ampiamente riconosciuti per la salute individuale e collettiva (Matheson et al., 2022).

Nei contesti coloniali, la terra e le sue risorse sono particolarmente rilevanti. La terra è intrinseca sia al diritto all’autodeterminazione di un popolo, sia al progetto coloniale. Esiste un conflitto intrinseco tra i colonizzatori, che cercano di acquisire e controllare la terra, e la popolazione indigena, per la quale la terra è parte integrante della propria identità: “dove sono è chi sono” (Wolfe, 2006). La disconnessione dalla terra e dalle radici culturali contribuisce all’erosione dell’identità e della resilienza della comunità, con esiti fisicamente distruttivi: una salute peggiore, una minore aspettativa di vita ed elevati tassi di tassi di suicidio. (Yellow Horse Brave Heart et al., 2011; Matheson et al., 2022). La questione della terra è quindi indicativa del modo in cui il progetto coloniale distrugge – per sostituirla – la popolazione indigena (ICC, 2021; IACHR, 2005).

Di conseguenza, le componenti della condotta, come i ripetuti spostamenti forzati, che comportano il distacco dalla terra, così come la distruzione delle strutture culturali, educative ed economiche che legano un popolo alla terra, devono essere considerate “significative in quanto indicative della presenza di un intento specifico […] che ispira [altri atti di genocidio]” (ICJ, 2007). Lo spostamento forzato in sé, insieme a fattori aggravanti – ad esempio lo spostamento in condizioni pericolose, squallide o tossiche – può costituire un atto di genocidio sottostante (ITFY, 2012). Deve essere considerata anche la particolare vulnerabilità del gruppo (Ibid.).

In breve, l’intento di distruggere è individuabile nel fatto di colpire l’esistenza di un gruppo in modo tale che “il gruppo stesso non possa più ricostituirsi” (ITFY, 2005). 

 

L’intento genocidario nel contesto della responsabilità dello Stato

L’identificazione precoce del genocidio è cruciale per poterlo prevenire, assicurando che un principio centrale del sistema giuridico internazionale del secondo dopoguerra non rimanga lettera morta.

Nel valutare la responsabilità dello Stato per genocidio – cioè l’intento genocidario attribuibile allo Stato – la Corte Internazionale di Giustizia ha attinto a piene mani dalla giurisprudenza dei tribunali penali internazionali (ICJ, 2007 e 2015). Pur riconoscendo che la responsabilità dello Stato può essere stabilita “senza che un individuo sia condannato per il crimine” (ICJ, 2007), nella causa Bosnia contro Serbia del 2007 la Corte ha riscontrato l’intento genocidario dello Stato solo quando i singoli autori erano stati ritenuti penalmente responsabili. La Corte ha stabilito che, in assenza di prove dirette dell’intento statale, il modello di condotta deve essere tale che “potrebbe indicare di per sé l’esistenza di tale intento” (Ibid.). Questo approccio è stato mitigato nel 2015, nel caso Croazia contro Serbia, dove la Corte ha stabilito che la “ragionevolezza” deve essere presa in considerazione quando si deduce l’intento genocidario da modelli di condotta (ICJ, 2015).

Tuttavia, è necessaria una maggiore chiarezza riguardo all’intento genocidario nel contesto della responsabilità dello Stato. L’intento statale può essere derivato dall’insieme degli intenti genocidari dei singoli autori, ma gli Stati non dovrebbero essere esonerati da responsabilità semplicemente perché non ci sono condanne penali individuali che, se si verificano, possono arrivare troppo tardi per prevenire o fermare il genocidio. Sebbene la Corte Internazionale di Giustizia abbia riconosciuto che gli obblighi degli Stati in materia di genocidio “non sono di natura penale” (Ibid.), lo standard di prova richiesto per fondare la responsabilità di uno Stato è uno standard quasi penale. Tra l’altro, ciò ritarderebbe o vanificherebbe la giustizia per le vittime.

Intervenendo nel caso Gambia/Myanmar, attualmente all’esame della Corte Internazionale di Giustizia, sei Stati occidentali hanno sostenuto che il “criterio di ragionevolezza” richiede un “approccio equilibrato” per non rendere “impossibile” determinare l’intento genocidario “per deduzione” (JDI, 2023).  In altre parole, si invita la Corte a non perdere di vista la foresta per concentrarsi sui singoli alberi. Altrimenti, si rischia di proteggere lo Stato rispetto alle vittime che la Convenzione intende tutelare (ICJ, 2015, opinione dissenziente Trindade).

Tre fattori aiutano, in conclusione, a raggiungere l’equilibrio ricercato.

L’applicazione del test dell’“unica inferenza ragionevole” implica, prima di tutto, il filtraggio di altri possibili intenti che potrebbero essere dedotti ma che non sono ragionevolmente supportati dalle prove (JDI, 2023). Una considerazione equilibrata dell’interazione tra motivi e intenti dovrebbe determinare se i motivi “precludono un intento specifico” di distruggere un popolo (ICTR, 2007c), o se sono coerenti con, o addirittura confermano, l’intento genocida come unica inferenza ragionevole.

Il diritto internazionale considera lo Stato come un’unità, non come organi separati. Ciò significa che la condotta e l’intenzione dello Stato devono essere considerate in modo olistico. Uno Stato di diritto deve essere considerato nel suo complesso, compresi il governo, il parlamento e il sistema giudiziario e le loro funzioni di regolamentazione.

Data l’alta soglia fissata per stabilire l’intento genocidario, la mancata chiarificazione della totalità della condotta rischia di invisibilizzare il crimine stesso dietro le strategie, le politiche e le azioni messe in campo dallo Stato colpevole al fine di oscurarlo (Betasamosake Simpson, 2017). Il mancato riconoscimento del genocidio nella sua totalità può contribuire a creare il camuffamento che uno Stato potrebbe utilizzare per commetterlo.

[traduzione e introduzione a cura di Chiara Crivellari, Elisa Veltre, Federico Oliveri].

 

Bibliografia 

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