L’amministrazione Trump all’assalto delle risorse minerarie sottomarine
di Elisa Bontempo
Con un Ordine esecutivo, promulgato lo scorso 24 aprile, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha inaugurato una nuova fase nella politica mineraria sottomarina statunitense, proiettando il paese al centro di un articolato dibattito internazionale che investe simultaneamente questioni ambientali, geopolitiche, economiche e giuridiche. La disposizione presidenziale conferisce alla National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) il mandato di “semplificare” le procedure autorizzative per lo svolgimento di attività estrattive in acque profonde, sia entro i confini giurisdizionali degli Stati Uniti sia, in misura ancor più controversa, nelle acque internazionali.
Proprio quest’ultima estensione costituisce uno degli elementi più problematici del provvedimento. L’amministrazione giustifica tale accelerazione con la necessità di salvaguardare un “interesse fondamentale di sicurezza nazionale ed economica”, facendo esplicito riferimento alla dipendenza statunitense dalle catene di approvvigionamento controllate dalla Repubblica Popolare Cinese, in particolare per quanto concerne risorse minerarie strategiche quali nichel, cobalto, rame e manganese. Questi materiali risultano indispensabili per la produzione di tecnologie d’avanguardia, tra cui batterie, dispositivi elettronici e applicazioni militari, e si prevede che acquisiranno un ruolo ancor più rilevante nel contesto della transizione energetica e digitale su scala globale.
L’interesse estrattivo si concentra principalmente sui cosiddetti “noduli polimetallici”: aggregati minerari che si formano in ambienti abissali nel corso di lunghi tempi geologici e che contengono concentrazioni significative di metalli rari. Sebbene il valore economico potenziale di tali risorse sia innegabile, le perplessità sollevate dalla comunità scientifica e dalle organizzazioni ambientaliste sono estremamente rilevanti.
Diversi studi denunciano una marcata insufficienza di conoscenze scientifiche affidabili circa gli effetti ambientali di operazioni estrattive su scala industriale nei fondali oceanici profondi. L’assenza di dati sistematici e rigorosi rende arduo valutare le conseguenze derivanti dalla rimozione dei noduli, che costituiscono habitat insostituibili per una vasta gamma di specie biologiche, molte delle quali non ancora identificate.
Oltre novecento scienziati, insieme a più di trenta Stati, associazioni del settore ittico e aziende attive nei comparti automobilistico e tecnologico, hanno richiesto una moratoria temporanea sul deep-sea mining, evidenziando il rischio di danni irreversibili non solo al fondale oceanico, ma all’intero ecosistema marino e alla capacità degli oceani di assorbire carbonio atmosferico. Organizzazioni quali l’Ocean Conservancy e Oceana hanno manifestato forte dissenso nei confronti dell’iniziativa del Preisdente Trump, accusando l’amministrazione statunitense di subordinare la tutela ambientale e il principio di precauzione agli interessi economici delle imprese estrattive. In tale contesto, la scienziata Katie Matthews ha qualificato l’Ordine esecutivo come un esempio emblematico di “avidità industriale che prevale sul buon senso”.
Sul piano giuridico, l’attività mineraria nelle acque internazionali è disciplinata dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), ratificata da 168 Stati: tale convenzione stabilisce che i fondali oceanici al di là della giurisdizione nazionale costituiscano patrimonio comune dell’umanità. In virtù di tale principio, nessuno Stato può legittimamente avviare operazioni estrattive in acque internazionali in assenza di un apposito codice minerario elaborato dall’International Seabed Authority (ISA), organo delle Nazioni Unite incaricato della regolamentazione e della supervisione di attività minerarie in alto mare.
Sebbene i negoziati per la definizione del codice siano in corso da oltre un decennio, essi non hanno ancora condotto all’adozione di un regime normativo vincolante. Gli Stati Uniti, pur riconoscendo la valenza consuetudinaria di numerose disposizioni dell’UNCLOS, non hanno mai ratificato formalmente la Convenzione, preferendo mantenere una posizione di distante autonomia dai processi multilaterali al fine di evitare vincoli percepiti come lesivi della propria sovranità economica.
L’Ordine esecutivo emanato dal Presidente Trump si configura, tuttavia, come una cesura rispetto all’approccio tradizionalmente cauto seguito dagli Stati Uniti, poiché introduce una strategia alternativa basata sull’attivazione del Deep Seabed Hard Mineral Resources Act del 1980. Tale norma interna consente di autorizzare attività minerarie anche al di là della zona economica esclusiva statunitense, in assenza di un quadro normativo internazionale condiviso.
La decisione ha prodotto una netta reazione critica da parte dell’ISA, che ha riaffermato il principio della gestione collettiva delle risorse abissali e ha ammonito circa i rischi insiti in un approccio unilaterale, suscettibile di innescare una corsa indiscriminata all’appropriazione delle risorse oceaniche. Secondo Duncan Currie, consulente giuridico della Deep Sea Conservation Coalition, il mancato rispetto dei meccanismi multilaterali di regolamentazione potrebbe incentivare altri Stati a intraprendere iniziative analoghe, eludendo l’adozione di adeguate misure di salvaguardia ambientale e compromettendo altresì altri ambiti della cooperazione internazionale marittima, quali la pesca sostenibile, la ricerca scientifica e la sicurezza della navigazione.
Il dibattito relativo al deep-sea mining solleva, in ultima analisi, interrogativi di ordine giuridico, etico e strategico circa la sostenibilità delle attuali traiettorie di sviluppo economico in un’epoca segnata dall’intensificarsi della crisi climatica. Se, da un lato, appare innegabile il ruolo cruciale delle materie prime critiche per la realizzazione di economie a basse emissioni, dall’altro è imprescindibile valutare la compatibilità di pratiche industriali invasive con gli obiettivi globali di tutela della biodiversità e degli ecosistemi marini. Come osservato dall’esperto di sostenibilità Assheton Stewart Carter, sentito da The Guardian, la comunità internazionale si trova dinanzi a scelte complesse e a compromessi potenzialmente tragici: è legittimo chiedersi se sia possibile conciliare l’urgenza dell’azione climatica con la necessità di preservare le ultime aree incontaminate del pianeta.
In tale prospettiva, l’iniziativa dell’amministrazione Trump di procedere in maniera unilaterale, al di fuori di qualsiasi cornice multilaterale e in assenza di un consenso scientifico consolidato, non rappresenta soltanto un rischio per l’ambiente marino, ma costituisce anche una sfida alla credibilità e all’efficacia della governance internazionale. La questione del deep-sea mining diventa così emblematica di una tensione strutturale tra logiche estrattive e responsabilità ambientale globale, sottolineando l’urgenza di rafforzare le istituzioni multilaterali e di dotarsi di strumenti giuridici comuni in grado di affrontare le sfide ambientali, tecnologiche e geopolitiche del XXI secolo in modo equo, trasparente e sostenibile.
Elisa Bontempo è laureata in Scienze per la Pace all’Università di Pisa. Attualmente collabora col Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace”, in particolare con “Scienza&Pace Magazine”.