lunedì, Aprile 29, 2024
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La (bidon)ville jardin

di Alessandro Baldassari

 

La faticosa uscita dall’emergenza Coronavirus che stiamo vivendo prospetta nuovi scenari, frutto di un’esperienza che ha segnato tutte o quasi le società del nostro pianeta.

Il modo in cui le diverse comunità hanno vissuto questa situazione ha condotto a mettere in discussione e modificare punti di vista e comportamenti. Sono spariti dall’orizzonte i problemi che, fino al giorno dell’esplosione della pandemia in Occidente, occupavano le prime pagine dei giornali e dei telegiornali come la questione ecologica, lo scioglimento dei ghiacciai, il riscaldamento globale. Nel frattempo l’Amazzonia ha continuato a bruciare nella disattenzione generale, le guerre non si sono arrestate e i problemi sociali si sono acuiti con la perdita di posti di lavoro.

Ciò che è prepotentemente tornato ad affacciarsi è l’atteggiamento inveterato del genere umano di porsi come antagonista della natura: quella contro il virus è essenzialmente “una guerra da vincere”.

Senza sminuire il sacrificio di coloro che si sono impegnati a contrastare la pandemia, c’è da rilevare che “la lotta impari dell’uomo contro gli elementi scatenati dalla natura” per dirla con Joseph Conrad, ha trovato nuovi sostenitori. In una visione ottocentesca e positivista pare che la risposta ai problemi sollevati dal virus stia unicamente nella produzione di un vaccino che lo cancelli e non anche in una revisione dei nostri stili di vita.

Sfondo a questo scenario è la potenza dell’impatto che le aggregazioni umane hanno sul nostro pianeta: ogni anno, nella sola metropolitana di Pechino si spostavano 3,78 miliardi di persone. Gli Stati Uniti nel 2015 hanno prodotto 228 milioni di tonnellate di rifiuti: una enorme pattumiera di 47 chilometri di lato.

In questa situazione le città costituiscono ancora un sistema sostenibile?

Uruk, la più antica città di cui abbiamo testimonianza è nata nel IV millennio a.C. Con una popolazione mondiale tra i 20 ed i 25 milioni di persone, più o meno quanti ne ha oggi Città del Messico, si comprende bene la voglia dell’abitante del pianeta di allora di riunirsi, di formare dei gruppi strutturati. Sono ormai passati 6000 anni dalla fondazione di Uruk e di quel periodo non sono sopravvissute nemmeno le religioni, ma le città non hanno abbandonato la tendenza a crescere fino a raggiungere dimensioni abnormi.

Dobbiamo riconoscere che la dottrina urbanistica, intesa come la disciplina che attraverso lo studio territorio antropizzato ha come scopo la pianificazione organica delle sue modificazioni, ha fallito il suo compito: l’urbanistica tradizionale è una lingua morta il cui lessico è stato sostituito da quello del profitto. Ciò che la storia dello sviluppo urbano ci dice è che nelle città si è seguito un solo metodo, declinato in forme differenti: la crescita esponenziale.

Si è arrivati così alle megalopoli mondiali: Chongqing, 36 milioni di abitanti; Città del Messico, 20 milioni; Lagos, in Nigeria, 19 milioni; Istanbul, la più popolosa d’Europa, 16 milioni.

Chongqing

Ovunque a centri più o meno strutturati seguono distese sterminate di slums: una tendenza connaturata al sistema-città, che tende a declinarsi in forme simili anche laddove le differenze di reddito sono enormi.

Se ad esempio confrontiamo la periferia di Città del Messico con quella di Los Angeles, osservandole da una certa distanza non si nota poi una grande differenza.

Città del Messico vs Los Angeles

Naturalmente se saliamo di scala le differenze si notano, eccome. Ma quando fossimo riusciti a trasformare tutte le catapecchie di Città del Messico in villette come quelle di Los Angeles, ne avremmo fatto una città? La bidonville jardin è un obiettivo da perseguire?

La città, per citare l’enciclopedia Treccani “è, anche, un elemento culturale, sia in quanto luogo elettivo della produzione di cultura sia in quanto sede di beni culturali accumulatisi nel tempo”.

È la molteplicità di funzioni a costituire l’importanza della città e deve costituire un elemento guida dell’organizzazione dello spazio. Partendo da Uruk si è invece fatta crescere la città replicando all’infinito il suo DNA e questa povera invenzione umana ha finito per crollare sotto il proprio peso.

Sotto la spinta delle problematiche ambientali si è cominciato ad accarezzare l’idea di una nuova città giardino, anche nel deserto; lo sviluppo di Dubai, per i prossimi anni è tutto un inno alle energie rinnovabili ed a costruzioni immerse nel verde.

Dubai 2050

Nella commistione tra natura e abitazioni sembra esserci la soluzione a tutti i problemi: era tanto semplice, come abbiamo fatto a non pensarci fino ad ora? Una delle realizzazioni più note di questo tipo, in Italia, è il “Bosco Verticale” di Milano: un grattacielo sommerso dal verde, la cui skyline si differenzia da tutte quelle intorno; un vero inno all’ecologia.

Il Bosco Verticale a Milano

C’è però un difetto: un appartamento nel “Bosco Verticale” costa 12-15.000 euro al mq., e 1.500 euro al mese richiede la cura del verde per singolo appartamento. È chiaro che non si tratta di una soluzione, ma di un giocattolo per ricchi; eppure di progetti di questo tipo c’è ormai un’inflazione, da Londra a Parigi a New Delhi.

Ovunque ci si esercita ad immaginare quartieri non più solo immersi ma connaturati col verde, i cui costi di acquisto e di gestione possiamo facilmente immaginare. Da questo eco-sogno potremmo però risvegliarci bruscamente; se proseguiamo al ritmo attuale, nel 2083 sulla terra vivranno 10 miliardi di persone. Chi e quanti saranno (ed a che prezzo) quelli che si potranno permettere di vivere nella città giardino? Vogliamo prospettarci un futuro in cui non solo la residenza, ma anche la natura sarà privilegio di pochi in “compounds” protetti?

Da questa prospettiva resteranno certamente escluse le popolazione che vivono nell’Africa sub-sahariana: lì la desertificazione conseguente alla crescita di due gradi della temperatura del pianeta costringerà all’esodo 60 milioni di persone che andranno ad intasare ulteriormente le periferie delle città.

Che ne sarà del distanziamento sociale, e che ne è già ora non solo nelle Favelas ma anche nella cintura di baracche che circonda ormai ogni città grande e piccola anche in Europa? Possiamo accettare il rischio della creazione di 1-100-1000 Città del Messico?

Prima dell’inizio della Pandemia, Pechino si avviava a diventare una città da 130.000.000 di persone: non è più possibile definire “CITTÀ” un tale agglomerato di persone e di edifici.

Pechino 2020-2050

Esistono delle alternative agli scenari che abbiamo delineato? Quali sono, se ce ne sono, le alternative e come contemperare, se possibile, le esigenze di un tetto per tutti, distanziamento ed integrazione sociale?

Nel Master Plan 2012-2032 per Dar Es Salaam, alla cui formazione ho molto marginalmente contribuito, si è cercato di introdurre dei correttivi, con la creazione di città satellite e nodi infrastrutturali, che limitassero la crescita della capitale della Tanzania.

Questo è possibile quando i numeri di partenza sono ancora relativamente bassi ed in presenza di politiche che vedano nella forte concentrazione un limite e non una opportunità.

Ma questo non basta: è necessario creare una nuova disciplina che sappia confrontarsi con questa nuova realtà, sviluppando un lessico adeguato alle sfide ineludibili che ci attendono. Si tratta di lavorare per il futuro, un futuro in cui il distanziamento sociale può diventare una costante, in cui la necessità di un tetto per tutti è prioritaria e in cui la città intesa come molteplicità di funzioni, trovi ancora una ragione di essere.

Una prima sfida riguarda un contenimento dei numeri: è innegabile che una politica di controllo delle nascite debba essere seriamente presa in considerazione anche se i paesi una volta detti in via di sviluppo non sembrano particolarmente propensi a vedersi imporre queste restrizioni.

Proseguendo, l’esperienza Covid-19 ha dimostrato che le condizioni ambientali sono fortemente migliorate con la riduzione degli spostamenti; in questa direzione l’implementazione dello smart working potrebbe avere un effetto di regolazione molto forte anche sotto il profilo della necessità di nuove costruzioni.

Certo, non è possibile fermarsi qui: c’è da chiedersi quante opportunità di smart working ci siano nelle periferie di Lagos o nelle Favelas di Rio de Janeiro.

Dobbiamo allora cominciare a pensare a città più includenti, nel senso di una maggiore riduzione delle differenze tra i centri e le periferie attraverso un ripensamento sulla molteplicità di funzioni che costituisce la caratteristica fondante della città che deve essere messa in grado di adeguarsi strutturalmente e non solo virtualmente all’inclusione.

Occorre lavorare su grandi numeri: la creazione di quartieri-modello, la bidonville- jardin, appunto, non è sufficiente; il distanziamento così come l’accesso alle tecnologie ha anche caratteristiche di classe: è possibile in centro, difficile in periferia, impossibile nelle sue zone estreme.

In questo scenario un concetto al quale occorre dare spazio è quello di Città Flessibili in alternativa all’estrema rigidezza, strutturale e fisica dei centri urbani. Pensiamo a città che si “accendono e si spengono” a settori, nelle quali per certi periodi si arresta, ad esempio, la circolazione dei veicoli, ad una flessibilità applicata anche al mondo del lavoro: il vecchio slogan “lavorare meno, lavorare tutti” mai come ora potrebbe mostrare tutta la sua validità.

La flessibilità dovrebbe poter coinvolgere aspetti strutturali della burocrazia, della scuola e delle professioni. Pensiamo a una diluizione della densità di alcune zone delle periferie ed a strutture mobili e flessibili che trasformino a turno le periferie in centro: rimuovere la rigidezza di strutture collocate una volta per sempre in un luogo, dal quale si diramano in un crescendo dequalificante le costruzioni dalle più ricche alle più povere.

Credo che l’immagine ”Havana radically reconstructed” del visionario architetto statunitense Lebbeus Woods rappresenti bene questo concetto.

Le città flessibili

Penso ad esperienze come “El sistema” l’insieme di scuole musicali diffuso nel Venezuela da Jose Antonio Abreu, ha saputo trasformare un’istituzione rigida come quella dei conservatori musicali avvicinandola e rendendola accessibile a centinaia di migliaia di ragazzi.

Dobbiamo cominciare a guardare le città, soprattutto le grandi città, con occhi nuovi e con strumenti diversi dalla pianificazione urbanistica tradizionale che non ha saputo adeguare i propri strumenti quando dalle centinaia di migliaia si è passati ai milioni ed ha pensato di poter continuare a dare le stesse risposte a domande che nel frattempo erano cambiate.

Dare a tutti una casa, secondo il modello cinese, non è costruire una città. È creare un riparo – che certo è già molto – senza rendersi conto che l’impossibilità di interazione provoca una solitudine che non è una risposta nemmeno per la conservazione della propria salute.

È la sfida, ancora tutta da costruire (è proprio il caso di dirlo) che ci troveremo ad affrontare a brevissimo. Dotarsi di strumenti creativi, rielaborare completamente i propri paradigmi, elaborare percorsi originali è l’unico modo che abbiamo per vincerla.

 

Alessandro Baldassari è architetto.