Diritti delle persone LGBT+: cosa dice il rapporto ECRI sull’Italia
di Saverio Solimani
Il rapporto sull’Italia, pubblicato lo scorso 22 ottobre della Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (ECRI) del Consiglio d’Europa, affronta tra gli altri temi anche la condizione delle persone LGBT+, dal punto di vista dei diritti riconosciuti ed effettivamente esercitabili, delle discriminazioni subite e delle politiche di uguaglianza adottate o meno. Sulla base delle criticità riscontrate, a partire da dati statistici, inchieste e interviste, la Commissione ha avanzato varie e puntuali raccomandazioni al governo italiano per garantire alle persone LGBT+ la piena parità loro dovuta, in linea con la Costituzione e con i principi di uno stato democratico di diritto.
Effettiva parità nell’accesso ai diritti
L’ECRI richiama, innanzitutto, i dati contenuti nell’indice Rainbow Europe, che valuta la legislazione e le politiche dei paesi europei in materia di diritti delle persone LGBT+. Nell’ultima versione dell’indice, l’Italia si è collocata al 34° posto sui 49 paesi valutati. Le norme in vigore non vietano ancora esplicitamente la discriminazione basata sull’orientamento sessuale, l’identità di genere e le caratteristiche sessuali in numerosi ambiti della vita. Una nota positiva ma parziale è rappresentata, per gli autori del rapporto, dai “progressi compiuti nel 2016 con il riconoscimento legale delle unioni tra persone dello stesso sesso”.
Il rapporto dà poi conto delle discriminazioni e dei pregiudizi quotidiani vissuti dalle persone LGBT+ in Italia. Secondo i dati raccolti dall’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) negli anni 2019-2022, “una parte compresa tra il 26% ed il 41,4% delle persone intervistate dichiara che il proprio orientamento sessuale li ha svantaggiati nel lavoro o nell’avanzamento di carriera, e un’altra tra il 40,3% ed il 61% evita di parlare della propria vita privata sul posto di lavoro per non rivelare il proprio orientamento sessuale. Circa l’80% dichiara di avere subito micro-aggressioni sul posto di lavoro, mentre un terzo ha descritto esperienze di ostilità e di vessazione nell’ambiente di lavoro”. Il rapporto ricorda anche che, secondo un’indagine condotta nel 2019 in 28 paesi dell’Unione Europea, solo l’8% delle persone LGBT+ in Italia riteneva che il proprio governo affrontasse efficacemente i pregiudizi e l’intolleranza nei loro confronti.
Allo stesso tempo, l’ECRI valuta positivamente la Strategia nazionale LGBT+ 2022-2025, tesa ad “aumentare la protezione dei diritti umani per le persone LGBT+ e a contrastare la discriminazione in sei aree principali della politica pubblica”, e apprezza il fatto che la strategia sia il risultato di “consultazioni con esponenti della società civile”.
D’altro canto, il rapporto evidenzia che la strategia in questione “manca di disposizioni chiare sugli organi statali responsabili dell’attuazione di obiettivi specifici, sulle fonti di finanziamento di particolari misure e su forti meccanismi di coordinamento”. L’ECRI invita, quindi, le autorità a intervenire “stanziando risorse sufficienti, sviluppando meccanismi di coordinamento più forti ed effettuando regolarmente una valutazione della sua attuazione, al fine di rafforzarne l’impatto”.
Tra le attività intraprese dalle autorità italiane per prevenire e combattere la discriminazione verso persone LGBT+, l’ECRI cita “l’attribuzione di un sostegno finanziario a 46 centri contro la discriminazione basata sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere, gestiti da organizzazioni della società civile o da enti locali”. In particolare, la delegazione della Commissione è “rimasta favorevolmente colpita dall’impegno del personale e dal sostegno fornito ai giovani affidati alle loro cure”.
Tuttavia, il rapporto nota che “il sostegno governativo è stato concesso ai centri a partire dal 1° gennaio 2022 per un periodo di un anno e che nell’ottobre 2023 era ancora in corso un iter di rinnovo del finanziamento”, incoraggiando il governo a sostenere questo programma con un finanziamento continuativo, adeguato alle attività effettivamente svolte.
L’ECRI è intervenuta anche sulla situazione delle persone transgender, notando che “sono stati compiuti progressi nella fornitura di informazioni di qualità sull’assistenza sanitaria ai pazienti transgender e alle loro famiglie”. Tuttavia, nella pratica, “le persone transgender sottolineano l’insufficiente consapevolezza degli operatori sanitari e la limitata disponibilità di istituti sanitari specializzati nel soddisfare le loro esigenze”. L’invito alle autorità è quello di “organizzare più formazione per gli operatori sanitari e di intraprendere azioni volte ad aumentare la disponibilità di assistenza sanitaria specializzata per i/le pazienti transgender”.
Il rapporto valuta criticamente la procedura per il riconoscimento giuridico del genere, da svolgersi in tribunale, “considerata, dai rappresentanti della comunità transgender incontrati durante la visita, inutilmente complicata, lunga ed eccessivamente medicalizzata”. Sebbene l’intervento chirurgico per la riassegnazione del genere non sia più obbligatoria, la delegazione dell’ECRI ha riscontrato che “è ancora obbligatorio ottenere una diagnosi di disforia di genere da parte di uno psicologo e – di norma – sottoporsi a un trattamento endocrinologico”.
L’ECRI incoraggia, come buona pratica per affrontare queste criticità, l’introduzione da parte di scuole, università e aziende private delle cosiddette ‘carriere alias’. L’iniziativa “permette alle persone transgender che non hanno ancora completato la procedura di riconoscimento giuridico del genere e cambiato giuridicamente il proprio nome, di proseguire temporaneamente gli studi o il lavoro con la propria identità sociale e il nome di elezione”.
Accanto a ciò, viene chiesto di garantire che il procedimento giuridico per il riconoscimento del genere di elezione “sia rapido, trasparente e accessibile e che non sia subordinato a requisiti scorretti, come procedure mediche e/o diagnosi di salute mentale”.
La Commissione ha prestato attenzione anche alle condizioni di vita e ai diritti delle persone intersessuali. Su questo fronte, “la legge italiana non vieta i trattamenti di attribuzione del sesso non necessari dal punto di vista medico e/o gli interventi chirurgici sulle caratteristiche sessuali dei bambini (i cosiddetti interventi di ‘normalizzazione’ del sesso)”. Non si conoscono i dati sul numero di procedure finora eseguite; tuttavia, “attori della società civile affermano che tali pratiche sono diffuse all’interno della comunità medica”.
Altra criticità evocata è l’assenza di “protocolli uniformi per l’assistenza sanitaria alle persone intersessuali” e di uno standard uniforme da adottare per le eventuali cure necessarie. Infine, “nei rari casi in cui gli ospedali offrono consulenza psicologica alle persone intersessuali e/o alle loro famiglie, tale consulenza non è coperta dal Servizio Sanitario Nazionale e quindi i costi devono essere interamente sostenuti dal paziente”.
L’ECRI, in ogni caso, sostiene gli sforzi dell’Istituto Superiore di Sanità, che “ha creato il primo sito web istituzionale contenente informazioni sull’assistenza sanitaria intersessuale”. Segnala, d’altra parte, che “è necessario un impegno più sistemativo per sensibilizzare la comunità sanitaria e vietare gli interventi non necessari dal punto di vista medico sui bambini intersessuali”.
Qui l’invito alle autorità è quello di adottare “una legislazione specifica che vieti gli interventi chirurgici di ‘normalizzazione’ sessuale non necessari dal punto di vista medico e altri trattamenti non terapeutici fino a quando un bambino intersessuale non sia in grado di partecipare alla decisione, sulla base del principio del consenso libero e informato”. Inoltre, si raccomanda di garantire alle persone intersessuali, in caso di interventi medici non consensuali, l’accesso alle cartelle cliniche e un sostegno adeguato e continuativo nel tempo. A questo scopo, è necessario “fornire una formazione adeguata a tutti gli operatori sanitari, che sottolinei che le persone intersessuali hanno il diritto all’integrità e alla diversità corporea”.
Discorso d’odio e violenza motivata dall’odio
Il rapporto dà voce alle preoccupazioni delle organizzazioni italiane per i diritti umani, che denunciano “un aumento degli atti di violenza, come aggressioni, violenze sessuali e persino omicidi con motivazioni anti-LGBT+”. Le stesse organizzazioni sottolineano quanto i giovani LGBT+ siano particolarmente a rischio di diventare vittime di violenza domestica.
In questo quadro preoccupante, l’ECRI riconosce gli sforzi governativi in materia di uguaglianza, integrazione ed inclusione delle persone LGBTI, ma nota anche che “non esiste un documento completo che contenga misure volte a prevenire e contrastare il discorso d’odio e la violenza motivata dall’odio nei confronti di tutti i gruppi di interesse”.
Desta particolare preoccupazione, per la Commissione, la deriva discriminatoria del discorso pubblico italiano negli ultimi anni: “i discorsi politici hanno assunto toni fortemente divisivi e antagonistici” anche nei confronti delle persone LGBT+. Politici e funzionari pubblici d’alto livello sarebbero responsabili, specialmente nei periodi di campagna elettorale, sia online che offline, di “un certo numero di dichiarazioni e commenti considerati offensivi e carichi di odio”. Ne deriva una “banalizzazione” dei discorsi d’odio in contesto pubblico ed “un senso di emarginazione ed esclusione in vari segmenti della popolazione” che di questi discorsi sono il bersaglio.
Si chiede, a riguardo, l’adeguamento del diritto interno alla Raccomandazione di Politica Generale n. 15 relativa alla lotta contro il discorso d’odio, alla Raccomandazione CM/Rec(2022)16 del Comitato dei Ministri agli Stati membri relativa alla lotta contro i discorsi d’odio e alla Carta dei partiti politici europei per una società non razzista ed inclusiva, approvata dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa nella sua Risoluzione 2443 del 2022.
Altra problematica evidenziata dal rapporto è “la mancanza [nell’ordinamento italiano] di un riferimento esplicito ai motivi fobici nei confronti delle persone LGBTI”. L’attuale articolo 604ter del Codice Penale, ad esempio, non prevede aggravanti specifiche per i casi in cui un reato sia accompagnato da intenti discriminatori o d’odio riconducibili all’identità di genere o all’orientamento sessuale delle vittime. Un ulteriore ostacolo all’effettiva tutela delle persone proviene dalle modalità con cui vengono raccolti di dati sui crimini d’odio contro le persone LGBTI, che “non compaiono nelle statistiche della polizia come categoria separata”.
Raccomandazioni finali
Il rapporto dell’ECRI non si limita a denunciare le carenze del sistema giuridico-politico italiano nel garantire la piena parità delle persone LGBT+, ma accompagna le osservazioni critiche con puntuali raccomandazioni.
Innanzitutto, si raccomanda alle autorità di sviluppare “un sistema di raccolta di dati disaggregati relativi all’uguaglianza”. Ciò servirebbe a “rispettare i principi del consenso informato, dell’autoidentificazione e della riservatezza e garantire che i dati raccolti siano utilizzati solo per la promozione dell’uguaglianza e della diversità e per valutare l’efficacia delle misure antidiscriminatorie”.
L’ECRI invita le autorità a “istituire un gruppo di lavoro che coinvolga l’UNAR, i funzionari pubblici dei servizi e delle istituzioni competenti, i pubblici ministeri ed i rappresentanti della società civile al fine di esaminare i modi e i mezzi per sviluppare meccanismi di responsabilità effettivi nei casi di abusi di polizia a sfondo razzista e LGBTI-fobici, anche attraverso l’istituzione di un organismo indipendente di supervisione della polizia”.
Nella lista di raccomandazioni che chiude il rapporto, l’ECRI suggerisce di “garantire che i programmi scolastici obbligatori a tutti i livelli di istruzione includano le questioni relative all’uguaglianza LGBTI in modo sensibile, adeguato all’età e di facile comprensione e che le discussioni sull’uguaglianza LGBTI siano basate su dati concreti e pongano in particolare l’accento su uguaglianza, diversità e inclusione”. Raccomanda anche di “introdurre in Parlamento una legislazione sull’incitamento all’odio e sui crimini d’odio che includa tutti gli elementi chiave della legislazione nazionale contro il razzismo e l’intolleranza, come indicato nella Raccomandazione di Politica Generale n. 7 dell’ECRI sulla legislazione nazionale contro il razzismo e la discriminazione razziale e nella Raccomandazione di Politica Generale n. 17 sulla prevenzione e la lotta all’intolleranza e alla discriminazione nei confronti delle persone LGBT+”.
Saverio Solimani studia “Informatica umanistica” all’Università di Pisa ed è collaboratore part-time di “Scienza&Pace Magazine”. Interessato al mondo dell’informazione e della comunicazione sui media, è speaker della radio dell’università, “Radio Eco”, e fa parte di “Attivamente”, un movimento nazionale di contro-informazione e attivismo antimafia e per i diritti umani.