giovedì, Novembre 21, 2024
ConflittiEconomia

Conflitti e oligarchie in America Latina: una ricostruzione storica

 

di Andrea Vento

Il significato originale del termine latino conflictus, vale a dire “urto, scontro, esprime una delle sue accezioni più esaustive se riferito al contesto storico latinoamericano degli ultimi due secoli, a partire dal conseguimento dell’indipendenza della maggior parte degli Stati attuali. Conflitto, nella nostra lingua, assume molteplici declinazioni in vari specifici campi, dalla sociologia alla psicologia arrivando sino al diritto. Tuttavia, l’uso quotidiano del concetto come sinonimo di combattimento, contesa rimessa alla sorte della armi, scontro armato o guerra, se può risultare calzante per alcune macroregioni terrestri, assume caratteri restrittivi per quanto riguarda l’America Latina.

Nel subcontinente in questione, infatti, a fianco delle più tradizionali guerre fra entità statuali, si è verificata una gamma alquanto ampia di scontri, lotte e contrapposizioni. Dall’inizio del XIX secolo alle guerre d’indipendenza contro le potenze coloniali europee, si sono aggiunti i conflitti armati fra Stati latinoamericani, quelli fra questi ultimi e le potenze esterne all’area, gli interventi militari (e non solo) di tipo imperialistico, le guerre civili, le guerriglie organizzate, le rivoluzioni e, infine, un variegato ventaglio di conflitti interni agli Stati, non necessariamente armati.

 

Oligarchie legate alla dimensione internazionale

Nella quasi totalità dei paesi latinoamericani, duecento anni di indipendenza non sono stati sufficienti per affrancarsi del tutto dal retaggio di tre secoli di dominazione coloniale iberica che, oltre a segnare irreversibilmente la storia dei popoli amerindi, hanno costituito il crogiuolo nel quale hanno preso forma la struttura economica e la stratificazione sociale multietnica del subcontinente, lasciate in eredità agli stati formatisi con la decolonizzazione.

Le colonie latinoamericane, dal punto di vista produttivo, erano state integrate nel sistema economico transatlantico in funzione delle esigenze e delle strategie delle società europee, determinando un modello di “esogeneità economica”, mantenuto anche successivamente all’indipendenza, soprattutto a seguito del ruolo fondamentale assunto dai ceti dominanti in tale modello produttivo. 

Neanche gli apporti demografici, soprattutto europei, intervenuti successivamente sono riusciti a modificarne in profondità né l’organizzazione sociale né, tanto meno, i rapporti interni di dominazione politica ed economica che resteranno caratterizzati dall’egemonia delle oligarchie nazionali. Un termine, quest’ultimo, che presenta la specificità di definire un gruppo sociale la cui rilevanza, nei paesi latinoamericani, non si limita alla sua funzione economica ma assume significato assai più ampio e profondo. Si tratta, infatti, di un ceto sociale, principalmente composto dai facoltosi discendenti dei primi colonizzatori ispanici, sin dalla sua formazione connesso all’economia globale in qualità di fornitore di beni primari, ma che non sarebbe corretto definire tout court come borghesia agro-esportatrice.

Secondo alcuni storici, infatti, si tratta di “una classe di governo consapevole e unita intorno ad un progetto nazionale”, mentre secondo altri viene semplicemente definita come “un gruppo di notabili” (Botana, 1977), mettendo in evidenza, per esaustività di comprensione, anche la dimensione politica del ceto oligarchico.

Come ha rilevato lo storico Francois Bourricaud a proposito del Perù “l’esistenza di una asimmetria sociale” o di un “effetto di dominazione a favore di una minoranza” non è sufficiente a definire un’oligarchia, quanto invece “le disuguaglianze cumulative”: è l’identificazione dei notabili sociali e di quelli economici, quindi la convergenza di vari tipi di potere, a generare un’oligarchia (Bourricaud, 1964). A questa dinamica è necessario aggiungere la sedimentazione temporale, vale a dire la durata plurisecolare del fenomeno dettata dal carattere ereditario, “patrizio”, che attraversa le successive generazioni delle famiglie dominanti.

Tenendo conto della specificità storica, sociale ed economica del subcontinente latinoamericano, lo storico Alain Rouquié arriva all’esaustiva definizione di oligarchia come “un gruppo di famiglie identificabili che concentrano nelle loro mani le leve decisive del potere economico, controllano direttamente o indirettamente il potere politico e si collocano al vertice della gerarchia del potere sociale, in materia di autorità e prestigio” (Rouquiè, 2000).

L’origine delle oligarchie latinoamericane affonda le proprie radici storiche nella proprietà fondiaria, senza che ciò tuttavia spinga a indurre che si tratti di “gruppi arcaici rappresentativi di settori precapitalistici rurali” (Rouquiè, 2000), in quanto i reali connotati di tali oligarchie risultano quelli di una élite modernizzante, che ha tratto la propria legittimità storica dal processo di inserimento dell’economia nazionale nel mercato mondiale. Inoltre, la formazione dell’oligarchia come ceto dominante e l’accettazione del suo ruolo sono risultate legate a doppio filo alla prosperità economica che il modello di sviluppo esogeno ha potuto, o meno, garantire nel corso dei secoli.

I componenti di questo ceto risultano essere soggetti economici dinamici, attenti alle innovazioni e alle trasformazioni di volta in volta in atto, nonché propensi all’utilizzo dei poteri pubblici per il conseguimento dei propri interessi. Si tratta, dunque, di gruppi di famiglie facoltose, abitualmente dedite a un modello di consumo tipico delle classi dominanti europee, che è stato (e viene tutt’ora) ostentato come elemento identificativo del loro status sociale egemone. Quest’ultimo, sostenuto da un ruolo chiave nella vita culturale dei vari paesi, ha finito per rappresentare l’emblema di tali ceti che, in quanto classi colte, hanno ottenuto una legittimità contrassegnata proprio dal carattere universale del “progresso” di cui si presentavano come rappresentanti.

Le oligarchie latinoamericane, orientate per vocazione storica all’esterno e legittimate in funzione dell’inclusione delle economie nazionali nel contesto della divisione internazionale del lavoro, non corrispondono pertanto né a semplici borghesie interne, né a borghesie compradore dedite in primis alla compra-vendita.

Si tratta, invece, di elite nazionali che assumono un ruolo polifunzionale nelle varie tipologie di relazioni intessute con l’estero e che, nonostante la vocazione cosmopolita e la connessione con gli affari internazionali, non è appropriato ritenere semplici rappresentanti di tali interessi. La dipendenza, volutamente ricercata, dai poteri sovranazionali ne costituisce un tratto saliente e distintivo, in quanto è attraverso la consapevole assunzione di ruolo di mediatore presso i potentati internazionali: ruolo che le oligarchie sfruttano per massimizzare la propria potenza economica e politica, e per consolidare il proprio ruolo dominante interno. 

 

L’origine storica delle oligarchie

Il processo di colonizzazione vera e propria del subcontinente latinoamericano, seguito alla fase di esplorazione geografica e di conquista militare, e accompagnato da una significativa tratta di schiavi dall’Africa, ha determinato la formazione di società multietniche, con diversa combinazione di tre componenti: ispanica, amerindia e nera africana. In questo contesto, la posizione apicale è stata assunta dai bianchi e in particolare dai giovani esponenti della nobilità o dell’alta borghesia che si erano trasferiti nel “Nuovo Mondo” per arricchirsi e “valere di più” (valer màs). Il modello organizzativo economico-politico-sociale introdotto si ispirava a quello iberico del XVI secolo, ancora fortemente feudale.

Oltre a quelle attribuite per “ricompensa” ai soldati che avevano preso parte alla conquista, la parte preponderante delle terre venne assegnata dalla corona spagnola in concessione temporanea a vari, intraprendenti “signorotti” tramite l’istituto giuridico delle encomiendas. Si trattava di vasti appezzamenti fondiari, comprensivi degli indios ivi risiedenti, che dovevano essere amministrati dagli encomenderos assolvendo ad alcuni obblighi: la difesa militare degli stessi, lo sviluppo dell’agricoltura da esportazione tramite le piantagioni, la riscossione dei tributi per conto della corona e la diffusione del cattolicesimo.

In Brasile, sotto la colonizzazione portoghese, il territorio venne diviso in grandi concessioni di terre, le “capitanias hereditárias”, affidate a esponenti della nobiltà che avevano preso parte alla conquista, ma non solo. Questi capitani avevano inziialmente ampi poteri, indirizzati all’obiettivo di colonizzare e sfruttare le risorse umane e naturali della regione. Tuttavia, questo sistema si rivelò poco efficace a causa della vastità del territorio e delle resistenze incontrate da alcuni capitani. A seguito di tali difficoltà, il Portogallo istituì il Governo Generale, centralizzando l’amministrazione della colonia e nominando un governatore generale con poteri più ampi, lasciando tuttavia la proprietà terriera ai discendenti dei primi capitani.

Nelle colonie spagnole, le relazioni di vassallaggio alla base delle encomiendas hanno finito gradualmente per allentarsi, determinando la trasformazione delle concessioni temporanee in proprietà definitive, dando luogo a estesi latifondi che, con l’indipendenza di inizio ‘800, sono stati mantenuti o addirittura ampliati. L’emancipazione delle colonie latinoamericane è stata, dunque, ristretta alla sola sfera politica e alle relazioni con la madre patria, senza intaccare la dimensione economico-sociale e culturale.

L’aristocrazia terriera, protagonista dell’indipendenza insieme alla borghesia “illuminata”, una volta scardinato il potere coloniale iberico, si impadronì così del potere politico, respingendo in generale le richieste di giustizia sociale delle masse diseredate, indigene e meticce. Le condizioni di queste ultime subirono, in alcuni casi, addirittura un peggioramento in quanto con l’indipendenza le terre comunitarie indigene, che le corone iberiche avevano in qualche modo tutelato, finirono per subire il frazionamento e l’espropriazione da parte dei latifondisti.

 

Le guerre d’indipendenza

Dopo tre secoli di dominazione coloniale europea, all’inizio del XIX sec. le aspirazioni indipendentiste sorte nelle varie colonie del subcontinente, e incarnate dalla figura di Simon Bolivar “El libertador”, hanno incontrato la prevedibile opposizione delle relative madrepatrie (Spagna e Portogallo, in primis). Nell’ex impero spagnolo, in particolare, tali aspirazioni hanno alimentato una serie di guerre per l’indipendenza, combattute con successo fra il 1808 e il 1833, sotto la guida militare delle stesso Bolivar e di Josè di San Martin in Sud America, e di Miguel Hidalgo in Messico.

Tuttavia, la carta politica del subcontinente non ha assunto immediatamente l’assetto attuale. Alcuni soggetti statuali indipendenti hanno successivamente subito alcune variazioni territoriali, talvolta anche molto significative, come il ridimensionamento del Messico a seguito della guerra con gli Stati Uniti del 1946-48, che portò alla perdita di tutti i territori messicani a nord del Rio Bravo.

Gli attuali stati latinoamericani sono sorti in seguito al fallimento del progetto federalista auspicato e portato avanti da Simon Bolivar. Penso, in particolare, alla “Grande Colombia” (Carta 1) nata nel 1919 dal progetto politico della “Patria grande” di Bolivar, vale a dire di una “America Latina libera e unita” che comprendeva gli attuali Venezuela, Ecuador, Colombia e Panama (quest’ultima, all’epoca, provincia istmica della Colombia dalla quale si separò su regia statunitense nel 1903 e dove, di lì a poco, venne realizzato l’omonimo canale inaugurato nel 1914). La “Grande Colombia” avrà, tuttavia, una durata effimera: l’emergere di egoismi localistici, da parte delle varie oligarchie, portò nel 1830 alla sua disgregazione in tre stati e al ritiro dalla vita politica del suo ideatore e primo presidente, Bolivar.

Carta 1 – Movimenti e guerre d’indipendenza in America Latina

Anche la Repubblica Federale del Centro America, comunemente nota come Federazione Centroamericana, formatasi al momento dell’indipendenza nel 1823 nell’area istmica, sul territorio degli attuali Guatemala, El Salvador, Honduras, Nicaragua e Costa Rica, ha avuto vita relativamente breve: a seguito di una guerra civile finì per dissolversi, di fatto, tra il 1838 e il 1940 a causa della graduale secessione dei cinque stati, per essere poi sciolta ufficialmente nel 1841.

Al termine delle guerre d’indipendenza, cui vanno aggiunte quella di Haiti contro la Francia (1791-1804) e la assai meno cruenta del Brasile contro il Portogallo, rimasero sotto il dominio spagnolo solamente le colonie caraibiche di Cuba e Porto Rico, fino alla guerra Ispano-americana del 1898 che portò, tuttavia, a una indipendenza solo formale.

 

Una struttura sociale multietnica e disarticolata

Il conseguimento dell’emancipazione dal dominio coloniale, tramite una serie di conflitti armati combattuti contro Spagna e Portogallo fra il 1808 e il 1833, non comportò sostanziali mutamenti nella struttura sociale dei nuovi stati latinoamericani, salvo l’abolizione della schiavitù che, ad eccezione di Haiti (dove era stata ottenuta già nel 1792, grazie alle lotte dei neri ispirate anche dalla Rivoluzione giacobina, salso essere reintrodotta da Napoleone), fu raggiunta in quasi tutte le repubbliche indipendenti dell’America continentale nel corso della prima metà del XIX secolo.

In Brasile le resistenze dell’oligarchia, la cui prosperità era in larga misura basata sul lavoro coatto degli schiavi nelle piantagioni di caffè, canna da zucchero e cacao, portarono alla sua abolizione definitiva solamente nel 1888 (Carta 2), mentre la Spagna la concesse a Porto Rico nel 1873 e Cuba la ottenne nel 1886 come effetto della prima sanguinosa guerra di indipendenza contro la Spagna: la Guerra dei dieci anni (1868-1978).

Carta 2 – Composizione e dinamiche della manodopera agricola nel Brasile del XIX secolo (Fonte: Limes)

Nella Isla grande diversi proprietari terrieri “illuminati”, avanguardia del movimento indipendentista, avevano già proceduto autonomamente alla liberazione degli schiavi, una parte dei quali finirono per impegnarsi nelle guerre di indipendenza contro la Spagna. Fra questi il ricco proprietario terriero Carlos Manuel de Céspedes che, dopo aver restituito la libertà ai suoi schiavi e alle sue schiave, il 10 ottobre 1868, procedette alla fondazione un esercito di liberazione nazionale dando avvio, guidandola militarmente, alla Guerra dei dieci anni (che terminò, tuttavia, con la vittoria spagnola). Gli indipendentisti cubani dovettero affrontare altre due guerre, la Piccola guerra (1879-80) e la Guerra d’indipendenza cubana (1895-98).

L’esito di quest’ultima, quasi vinta, fu vanificato dall’intervento militare statunitense del 1898 (motivato, strumentalmente, dall’espolsione del vascello statunitense Maine nella baia de L’Havana): la Guerra ispano-americana si concluse in pochi mesi con la vittoria degli Stati Uniti, i quali tramite il Trattato di Parigi ottennero oltre che il controllo di Cuba, l’annessione di Guam, di Porto Rico e delle Filippine. Quella raggiunta nel 1902 fu, dunque, per Cuba un’indipendenza solamente formale: l’isola era diventata, di fatto, un protettorato di Washington e tale resterà fino all’effettiva indipendenza, raggiunta col trionfo della rivoluzione castrista del 1 gennaio 1959.

Gli ex schiavi di origine africana, presenti soprattutto nei Caraibi e nelle regioni atlantiche a clima tropicale (Carta 3), una volta liberati, furono quasi inevitabilmente confinati nella parte più bassa della scala sociale, al pari delle popolazioni amerindie negli stati in cui erano ancora presenti, soprattutto nell’area istmica e andina. Nelle fascia di mezzo della società restarono principalmente i bianchi di origine europea di estrazione popolare, mentre al vertice si posizionò la ristretta oligarchia creola, vale a dire i discendenti dei primi colonizzatori iberici di origine nobile e alto-borghese.

Carta 3 – Stima della popolazione discendente da schiavi neri nei paesi dell’America Latina al 2020 (Fonte: CEPAL)

In base alle interpretazioni di alcuni storici, l’eterogeneità delle società latinoamericane dal punto di vista delle forti disparità socio-economiche, viene ricondotta alla coesistenza di due poli: uno “moderno” e l’altro “tradizionale”.

Secondo lo storico Alain Rouquié, la situazione risulta alquanto più complessa. Se è possibile concordare sulla presenza di due distinte società all’interno degli stati latinoamericani, non è però corretto limitarsi a evidenziare la condizione di arretratezza di quella tradizionale rispetto a quella moderna. Occorre, innanzitutto, rimarcare che il “dualismo sociale” costituisce storicamente un elemento strutturale e stabile di tali paesi. Se il polo definito tradizionale ha, da un lato, indubbiamente assunto posizione subalterna rispetto a quello moderno, dall’altro è risultato esserne strutturalmente complementare.

Il polo “moderno”, peraltro, non ha mai teso a trasformare in senso modernizzante il polo “tradizionale”, la cui persistenza si è rivelata fondamentale per mantenere il proprio status dominante. La presenza storica di settori “non sviluppati” che forniscono un “esercito” di manodopera a buon mercato, così come la permanenza di sacche urbane di lavoro sommerso e informale, costituiscono fenomeni storicamente consolidati, spiegabili proprio tramite il dominio del polo moderno su quello tradizionale.

Secondo Rouquié, il rapporto dialettico delle strutture di dominazione è assai più efficace per interpretare storicamente la disarticolazione delle società latinoamericane, rispetto a una presunta contrapposizione fra il polo moderno e quello tradizionale. In sostanza, i gruppi dirigenti de los de arriba, letteralmente “quelli di sopra”, sulla scorta della continuità storica e della staticità delle strutture sociali, nel corso dei secoli hanno assunto al tempo stesso sia aspetti moderni, sia atteggiamenti arcaici: se da un lato si sono posti all’avanguardia nel progresso tecnico ed economico, dall’altro sono risultati senza dubbio socialmente e politicamente arretrati, essendo stati disposti a mantenere il potere e i rapporti di dominio ricorrendo anche alla forza più brutale.

La convergenza di valori e comportamenti dualizzati deriva, in questa prospettiva, dal ruolo assunto dai ceti sociali dominanti nel contesto del “sistema globale”: in qualità di garanti della dominazione esterna, sia politica da parte dell’imperialismo, che economica da parte delle multinazionali, tali ceti hanno conquistato una legittimazione esterna per garantirsi la dominazione interna.

Le oligarchie modernizzanti latinoamericane sono risultate, al contempo, tanto moderne sul piano delle idee e dei gusti, quanto legate a tradizionali rapporti di dominio sul piano economico-sociale. Rouquié arriva, quindi, alla conclusione che “le risorse della modernità e quelle della tradizione sono utilizzate insieme per il mantenimento dell’ordine e dei privilegi che nascono dalla ‘disarticolazione’ dei rapporti sociali”.

Questo complesso quadro storico-evolutivo può spiegare perché, dall’indipendenza sino a oggi, le società latinoamericane siano state caratterizzate da profondi squilibri al loro interno, con strutture politiche alquanto fragili, modelli economici sostanzialmente postcoloniali basati sull’estrattivismo e sulla penetrazione straniera, esposte ai condizionamenti geopolitici e, pertanto, quasi perennemente attraversate da forti tensioni politiche e sociali che, in determinate circostanze, hanno dato vita una serie di conflitti interni ad ampio spettro. 

 

Andrea Vento è tra i fondatori del Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati (GIGA) e insegna geografia nell’Istituto “A. Pacinotti” di Pisa. E-mail: andreavento2013@gmail.com

 

Bibliografia

N. Botana, El Ordem cinservador. La politica argentina entre 1880 y 1916, Sudamericana, Buenos Aires 1977.

F. Bourricaud, Remarques sur l’oligarchue peruvienne, in “Revue francaise de sciense politique”, XVI, 1964, p. 675.

A. Rouquié, L’America Latina, Bruno Mondandori, Milano, 2000, pp. 97-98.