venerdì, Aprile 19, 2024
ConflittiCultura

Stavolta chiediamoci: cosa può fare l’America per noi?

di Giorgio Ridolfi

 

America has spoken, come dicono di solito, all’inizio del loro discorso della vittoria, i presidenti degli Stati Uniti appena eletti. E l’America, in questo caso, pur dimostrandosi ancora un paese profondamente diviso, ha parlato più chiaramente di quanto potesse apparire in un primo momento. Joe Biden ha vinto, mentre a Donald Trump è rimasto solo il “miraggio rosso”: l’illusione del successo, da alcuni in realtà prevista, dovuta al fatto che le schede dei coraggiosi repubblicani, andati di persona al seggio senza mascherina, a manifestare ancora una volta la loro avversione al deep state bugiardo o untore, sono state in gran parte contate prima di quelle dei pavidi democratici, che hanno preferito il voto postale o l’early vote anti-assembramenti. Trump aveva già messo le mani avanti rispetto alla regolarità del voto, e probabilmente non avrebbe comunque ammesso neanche una sconfitta tanto a poco; ma le armi dei suoi ricorsi appaiono ora a tutti, forse persino a lui stesso, a dir poco spuntate, e sembrano piuttosto un elegante e distensivo modo per preparare una continuazione della campagna elettorale con altri mezzi, in attesa del 2024. D’altra parte, nonostante lo sfolgorante senso delle istituzioni dimostrato nell’ultimo decennio dal glorioso GOP, è piuttosto improbabile che un numero significativo dei suoi membri più influenti si intestino un conflitto costituzionale fondato su basi debolissime, nel caso specifico poi in favore non di un Eisenhower o finanche di un Reagan, ma di un parvenu autoreferenziale ed egomaniaco cui si sono prostrati per pura trasformistica convenienza.

La risoluzione relativamente rapida della pratica elezioni ci ha poi liberato dall’argomento, che torniamo a sentire ogni quattro anni, per cui il sistema di voto statunitense sarebbe arcaico e irrispettoso della volontà del popolo; come se sulla questione noi italiani potessimo permetterci di dare lezioni a chicchessia. Possiamo, dunque, dedicarci ad alcune brevi riflessioni sul risultato, partendo da un dato incontestabile, e cioè che, qualunque cosa si pensi di Biden, risulta piuttosto confortante, per basilari motivi di amore per la democrazia che non mette neanche conto citare, che a vincere sia stato lui e non l’altro.

Credo che la principale domanda da porsi sia ora, ovviamente, cosa possiamo aspettarci dal nuovo presidente, domanda in cui tuttavia l’accento deve essere posto sulla seconda persona del verbo utilizzata. Cioè, cosa possiamo e dobbiamo aspettarci noi difensori della democrazia e dello Stato diritto, ma soprattutto noi europei da un simile risultato?

Ebbene, è vero che i tempi cambiano rapidamente, e i nostri tempi subiscono moti di sviluppo più accentuati che mai, ma non bisogna dimenticare che il moderatissimo Biden è stato il vice di un ossimoro vivente chiamato Barack Obama. Ossimoro vivente perché, se è innegabile che la sua elezione per ovvi motivi sia stata ipso facto uno degli eventi più dirompenti cui forse ci capiterà di assistere, tanto da meritare un premio Nobel per la pace sulla fiducia, la sua azione di governo, al di là di alcuni commendevoli risultati, è stata anch’essa ispirata da un certo estremismo centrista e, soprattutto, ha finito per assecondare il ritorno di uno dei più basilari istinti americani, l’isolazionismo. Detto a chiare lettere, e parlando in termini di pura Realpolitik, se ci si può rallegrare del fatto che Obama non abbia tentato di argomentare l’utilità di alcune guerre con prove fantasiose (eufemismo), è difficile vedere nel suo non interventismo un segnale positivo per un’Europa che, nonostante la “generosità” di Emmanuel Macron (l’unico tra di noi che può schiacciare il bottone rosso), non riuscirà mai probabilmente a darsi un esercito e soprattutto una politica militare comune.

Primo banco di prova sarà dunque per Biden, e come potrebbe non esserlo, quello del rapporto con la Cina e col suo ormai scatenato imperialismo (senza ovviamente dimenticare gli altri due imperialismi, russo e turco, che incalzano più da vicino i nostri confini). Per quanto si possa avere in uggia Donald Trump, credo che sia oggettivamente difficile contestare il suo atteggiamento generale nei confronti del gigante asiatico, riconosciuto per quello che è (un nemico della Western way of life) e per quello che vuole diventare (un amico alle sue condizioni, al massimo), con l’unica importante postilla che per il presidente uscente lo schema del conflitto era solo quello dell’uno contro uno e, se necessario, pereat Europa. Certo, anche qui, noi italiani dovremmo solo tacere, da quando, per essere i più furbi di tutti (e per consentire a un ministro di piantare una bandierina elettorale), abbiamo entusiasticamente firmato la nostra partecipazione al programma noto come Nuova via della seta. Ma cerchiamo di lasciare da parte le miserie politiche nostrane e stabiliamo alcuni punti fondamentali: la Cina è una dittatura, che fa strame di ogni diritto umano di alcuni settori della sua popolazione, tentando di cancellarne cultura e identità, e allo stesso tempo un regime che ha il nostro stesso sistema economico e, dunque, gli stessi mezzi di seduzione e di coercizione. Combinazione esplosiva, come si vede, di hard e soft power da cui è forse già troppo tardi per cominciare a difendersi, soprattutto in epoca di nostalgia dell’uomo forte e di disistima (altro eufemismo) per i processi democratici; ma questione sulla quale Biden sa che si giocherà probabilmente la sua principale eredità politica.

Il secondo banco di prova riguarderà quello che vorrei definire il nemico interno, e cioè le corporations basate sul controllo di internet, divenute ormai veri e propri stati nello Stato, cui fanno a tutti gli effetti concorrenza istituzionale (addirittura Facebook ha accarezzato l’idea di “battere” una propria moneta digitale). Come è noto, i giganti della Rete sono stati accusati di accettare supinamente il fatto che, tramite le loro piattaforme, si potesse diffondere nell’etere qualsiasi tipo di messaggio, senza curarsi degli effetti concreti che esso poteva provocare: violenza, inquinamento dei processi elettorali, diffusione del complottismo e amenità simili. Nulla cambia, nella sostanza, il fatto che negli ultimi tempi, avendo fiutato un’aria non troppo favorevole, essi sembrano voler fare macchina indietro, censurando alcuni tipi di messaggi e lasciando spazio solo a discorsi “neutri” e “veri”, o al massimo “positivi”. Ora, non voglio certo entrare nella questione su che cosa sia la verità, che è stata già posta tanto tempo fa e soprattutto a un destinatario decisamente più eminente del sottoscritto; ma certo non possono non destare scandalo le pretese di aziende che, richiamandosi a un complesso principio di libertà (la sacra libertà della Rete!), pensano di poter far dipendere solo dalla loro buona volontà scelte che entrano profondamente, benché inavvertitamente, nella vita di tutti i cittadini. E anche di questo Trump sembrava essersi accorto, sebbene solo nel momento in cui la cosa non andava più a suo vantaggio.

Possiamo, in definitiva, auspicare che Biden non rompa in maniera troppo netta con il suo predecessore rispetto alle questioni in cui quest’ultimo si era mosso in maniera più avveduta; ma siamo sicuri che, da uomo riflessivo e realistico quale è, le cose non potranno andare diversamente. Poi ovviamente c’è tutto il “resto”, che riguarda meno la nostra Europa, ma che ci riguarda come membri del genere umano e su cui la discontinuità dovrebbe essere assoluta: l’insufficienza delle coperture sanitarie, l’attacco di una Corte Suprema iper-conservatrice ad alcune libertà civili e, certo last but not least, le tensioni razziali e la tutela delle minoranze. Rispetto a tali questioni, così come a quelle citate più sopra relative a un rinnovato ordine delle relazioni internazionali e a un più equilibrato futuro digitale, ci auguriamo di ottenere presto da Biden risposte, e soprattutto azioni concrete.

 

Giorgio Ridolfi è Ricercatore a tempo determinato in Filosofia del Diritto presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa.