sabato, Aprile 20, 2024
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Pandemia da Covid-19 e disarmo nucleare: una insolita alleanza

di Enza Pellecchia

 

La carenza di posti letto in terapia intensiva come indicatore della ingestibilità degli effetti di un’esplosione nucleare

Sul Bullettin of the atomic scientist della fine di aprile è stato pubblicato un interessante articolo di Tom SauerRamesh Thakur dal titolo How many intensive care beds will a nuclear weapon explosion require? L’articolo è interessante perché individua in una delle maggiori criticità emerse con la pandemia – lo stress cui sono stati sottoposti i sistemi sanitari dei vari paesi, con i reparti di terapia intensiva sistematicamente sottodimensionati in termini di posti letto – un elemento che può aiutare l’opinione pubblica a comprendere uno dei principali argomenti su cui si basa oggi, a livello globale, l’impegno per il disarmo nucleare, che da qualche anno ha il suo fulcro nella c.d. Iniziativa Umanitaria, che permea anche il Trattato per la messa al bando delle armi nucleari approvato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 7 luglio 2017. 

A partire dalla Conferenza di Revisione del Trattato di non proliferazione del 2010 il tema delle conseguenze umanitarie dell’uso delle armi atomiche ha progressivamente acquistato rilevanza. La Conferenza espresse infatti la sua “profonda preoccupazione per le conseguenze umanitarie catastrofiche di qualsiasi utilizzo delle armi nucleari” e ribadì la necessità per “tutti gli Stati in ogni momento di rispettare il diritto internazionale applicabile, ivi compreso il diritto internazionale umanitario”.

A dare concretezza a queste preoccupazioni ha contribuito nel 2011 la Risoluzione della Croce Rossa internazionale e della Mezza Luna Rossa Internazionale, le quali in maniera decisa hanno affermato che nessun sistema sanitario al mondo sarebbe in grado di affrontare l’emergenza sanitaria generata dall’esplosione, anche accidentale, di armi atomiche.

L’attuale emergenza Covid-19 conferisce concretezza a questa affermazione, offrendosi come dato di realtà ormai acquisito nell’esperienza dei cittadini e delle cittadine del mondo: l’emergenza da Covid-19 si presenta oggi come metro di paragone per comprendere il genere di emergenza in cui un sistema sanitario si può trovare (e con quali ricadute sulla vita delle persone) e al tempo stesso come unità di misura per calcolare quello che sarebbe l’effetto esponenziale di una esplosione nucleare.

Ad avviso di Sauer e Takur “la pandemia dice la verità sulla potenza della bomba. Il numero di posti letto in terapia intensiva è sufficiente per rispondere a un disastro causato dall’esplosione di un’arma nucleare o, in una guerra, da molti ordigni nucleari?”. La risposta è netta: “No, non sono sufficienti. Neanche lontanamente”.

 

L’Iniziativa Umanitaria e la messa al bando delle armi nucleari

L’espressione Iniziativa Umanitaria, riguardo al disarmo nucleare, rimanda a una serie di conferenze che hanno avuto luogo tra il 2013 e il 2015 – rispettivamente ad Oslo, a Nayarit e a Vienna – sull’impatto umanitario di una possibile detonazione atomica.

Ad Oslo furono messi in evidenza tre punti essenziali: nessuno Stato o Organizzazione internazionale ha la capacità di fornire la protezione necessaria e l’assistenza umanitaria a breve e lungo termine in caso di esplosione di un’arma nucleare (e non sarebbe ragionevolmente possibile neppure tentare di realizzare tali capacità); le armi nucleari attuali hanno un potenziale distruttivo immenso; gli effetti di una esplosione nucleare non sono contenuti dai confini nazionali, ma colpiscono le popolazioni in maniera indiscriminata su scala globale.

A Nayarit questi argomenti furono ulteriormente approfonditi, portando ad ulteriori acquisizioni: al di là della morte immediata e della distruzione indiscriminata causata da una detonazione, lo sviluppo socio-economico successivo nelle zone colpite è compromesso, l’ambiente è seriamente danneggiato e le fasce della popolazione a rischio di emarginazione sono le più gravemente colpite; la ricostruzione delle infrastrutture e la rinascita delle attività economiche e commerciali, il ripristino delle comunicazioni, delle strutture sanitarie e delle scuole richiederebbero diversi decenni; il rischio di impiego di armi atomiche cresce a livello mondiale a causa della proliferazione nucleare, della vulnerabilità ai cyber-attacchi delle reti di comando e controllo degli arsenali nucleari, di errori umani e, infine, del potenziale accesso alle armi nucleari da parte di attori non statali (es. terrorismo transnazionale); il know-how e le tecnologie per la produzione di armi nucleari sono in possesso di un numero crescente di Stati.

A Vienna, l’Austria – in qualità di paese ospitante la Conferenza – presentò un documento sottoscritto da 117 paesi, l’Austrian Pledge, per rinnovare il comune impegno per l’eliminazione delle armi nucleari.

Da quelle conferenze in poi, la questione della inaccettabilità delle conseguenze sulle persone è diventata questione centrale nella crescente mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale. Guidata da ICAN (International Campaign to Abolish Nuclear Weapons), una coalizione di organizzazioni non governative di oltre cento Paesi del mondo, la mobilitazione è culminata nell’approvazione nel 2017 del Trattato di messa al bando delle armi nucleari (e nel premio Nobel per la pace ad ICAN nello stesso anno), che ha dichiarato le armi nucleari non solo immorali ma, finalmente, illegali. Prima dell’adozione del Trattato, infatti, le armi nucleari erano le uniche armi di distruzione di massa non soggette ad un bando categorico nonostante le loro catastrofiche, persistenti, diffuse conseguenze umanitarie. Il Trattato proibisce agli Stati di sviluppare, testare, produrre, realizzare, trasferire, possedere, immagazzinare, usare o minacciare di usare gli armamenti nucleari, o anche permettere alle testate di stazionare sul proprio territorio. Impedisce di assistere, incoraggiare o indurre altri Paesi ad essere coinvolti in tali attività proibite. I Paesi che possiedono armi nucleari devono, a seguito dell’adesione al Trattato, impegnarsi a distruggere i propri arsenali in accordo con un piano definito nel tempo e legalmente vincolante. Paesi che ospitano armi nucleari alleate sul proprio territorio dovranno rimuoverle entro una data limite stabilita.

E tuttavia il Trattato – salutato come uno straordinario successo degli Stati non nucleari e della società civile che vuole il disarmo – entrerà in vigore solo quando sarà ratificato da 50 stati (al momento le adesioni sono 37). L’Italia (che ospita nelle basi Nato di Aviano e di Ghedi tra 45 e 55 bombe B-61 nell’ambito del programma di Nuclear Sharing) non ha sottoscritto il Trattato, non intende farlo, né tantomeno ratificarlo, nonostante il forte impegno della campagna “Italia Ripensaci” portata avanti dalla Rete Italiana Disarmo e da Senzatomica. Il nostro paese si allinea così agli Stati Uniti e alla maggior parte degli Stati Europei, i quali dichiarano di condividere l’obiettivo del disarmo nucleare ma in un quadro di gradualità e individuano nel Trattato di non proliferazione del 1970, piuttosto che nel Trattato di messa al bando del 2017, lo strumento internazionale più idoneo a conseguire l’obiettivo.

 

Un’alleata imprevista

La pandemia di coronavirus è – per chi si occupa di disarmo nucleare – un’imprevista alleata dell’Iniziativa umanitaria, perché aiuta a capire cosa significa “impossibilità di gestire l’emergenza sanitaria”.

Gli autori dell’articolo citato all’inizio offrono, all’attenzione dei lettori e delle lettrici, alcuni calcoli elaborati con l’aiuto della Nukemap di Alex Wellerstein, prendendo il numero di letti per terapia intensiva disponibili come nuova misura e applicandola a potenziali catastrofi nucleari. I risultati non hanno bisogno di molti commenti. Qualche esempio. La più grande bomba testata dal Pakistan – che ha una resa pari a 45 chilotoni di TNT – ucciderebbe 358.350 persone e ne ferirebbe 1,28 milioni, se usata in un’esplosione aerea su Delhi. Ma ci sarebbero quasi certamente molti più feriti; quasi quattro milioni di persone vivono nel raggio di 7 chilometri in cui la detonazione romperebbe le finestre di vetro e creerebbe altri effetti “leggeri” dell’esplosione – che in realtà non sono leggeri e causerebbero gravi lesioni. Se la Russia lanciasse uno dei suoi missili nucleari Topol da 800 chilotoni contro il quartier generale della NATO a Bruxelles, in Belgio, 536.180 persone morirebbero e 572.830 sarebbero ferite. Se un missile cinese Deng Fong-5 da 5.000 chilotoni raggiungesse Bruxelles, 839.550 persone morirebbero e altre 876.260 persone sarebbero gravemente ferite. I 1.900 letti di terapia intensiva del Belgio (meno quelli di Bruxelles e dintorni, che ovviamente sarebbero immediatamente distrutti o resi inutilizzabili) non potrebbero neppure iniziare a far fronte a un disastro umanitario di questa portata.

E se esplodesse più di una testata nucleare? E cosa accadrebbe in una guerra nucleare che produce decine o centinaia di esplosioni nucleari? E cosa succederebbe, ad esempio, in una città come Pisa, che ha meno di 100.000 abitanti? Il sito Nukemap consente simulazioni incrociando una molteplicità di dati: provando a capire gli effetti dell’esplosione di una B-61 da 340 chilotoni in dotazione all’arsenale nucleare USA, risulterebbero a Pisa 54.100 morti immediati, 69.970 feriti, senza contare le morti nel medio-lungo periodo e gli effetti del fallout radioattivo.

Altra questione interessante trattata nell’articolo riguarda la valutazione di una “minaccia grave”. In generale – affermano gli Autori – una valutazione della minaccia grave consiste nello stimare l’entità di una minaccia e la sua probabilità. Per la minaccia nucleare, la stima delle dimensioni è piuttosto semplice, cioè enorme; la probabilità è più difficile. Un cataclisma nucleare ha una probabilità bassa a breve termine, quasi certa a lungo termine, e un impatto elevato ogni volta che si verifica.

Un argomento che viene usato frequentemente per contestare la necessità del disarmo nucleare totale riguarda il “successo” della politica della deterrenza: l’equilibrio del terrore fondato sulla Mutual Assured Destruction – si dice – ha finora funzionato e non c’è ragione per abbandonare il paradigma della deterrenza. Questo argomento è alla base della ambigua (e deleteria) narrazione delle armi atomiche come armi necessarie al mantenimento della pace. La replica di Sauer e Takur è sintetica ed efficace: “Perché la pace nucleare possa durare, la deterrenza e i meccanismi di sicurezza devono funzionare ogni volta. Affinché una catastrofe nucleare si verifichi, i meccanismi di deterrenza o di fail-safe devono rompersi una sola volta. Questa non è un’equazione confortante. Inoltre, la stabilità della deterrenza dipende dal fatto che i decisori razionali siano sempre in carica in ogni singolo paese dotato di armi nucleari. I leader dei nove Paesi con la bomba oggi – Cina, Francia, India, Israele, Corea del Nord, Pakistan, Russia, Regno Unito e Stati Uniti – non sono universalmente rassicuranti su questo punto”. Per la numerosità dei singoli arsenali nucleari si rinvia ai dati raccolti e divulgati da ICAN.

Nessuna società è preparata a un simile disastro causato dall’uomo. Ancora più chiaramente: nessuna società potrà mai essere preparata a un simile scenario. Una politica basata sulla speranza che non accada nulla e sulla “buona fortuna” (come il segretario alla Difesa statunitense Robert McNamara ha descritto la crisi dei missili di Cuba del 1962) non può essere la base di una seria politica di difesa: quanto meno non di una seria politica che abbia come obiettivo la sicurezza umana (e non la sola sicurezza degli Stati).

 

Un unico demos

Non possiamo prevedere quando e con quale intensità si svilupperà la prossima pandemia, ma è certo che la pandemia da Covid-19 non sarà l’ultima ad affliggere l’umanità: non dobbiamo farci cogliere impreparati.

Ma qual è la probabilità di una guerra nucleare o semplicemente dell’esplosione di una singola arma nucleare? Certamente è superiore a zero. E la probabilità sembra aumentare piuttosto che diminuire. Non possiamo prevedere quando e dove le armi nucleari saranno usate di nuovo, e da chi. Ma da tempo gli scienziati affermano con certezza che una testata nucleare verrà fatta esplodere un giorno, da qualche parte, per scelta o inavvertitamente, per un lancio accidentale o un guasto del sistema (eventi non contemplati nel paradigma della deterrenza).

Per ora, non ci sono trattamenti o misure preventive che funzionino contro il nuovo coronavirus che gira il mondo. Ma esiste già un “vaccino” contro l’uso delle armi nucleari: il Trattato sulla messa al bando delle armi nucleari. Purtroppo, nonostante i loro obblighi legali ai sensi dell’articolo 6 del Trattato di non proliferazione nucleare (secondo il quale “ciascuna Parte si impegna a concludere in buona fede trattative su misure efficaci per una prossima cessazione della corsa agli armamenti nucleari e per il disarmo nucleare, come pure per un trattato sul disarmo generale e completo sotto stretto ed efficace controllo internazionale”), i cinque Stati dotati di armi nucleari e i loro alleati, e anche i quattro Stati nucleari al di fuori del TNP, si rifiutano di rinunciare ai loro privilegi nucleari. Gli Stati Uniti, da soli, quest’anno spenderanno 50 miliardi di dollari per la manutenzione e la modernizzazione delle armi nucleari.

Il mondo ha già vissuto epidemie e pandemie in passato. Ha sofferto ma ha resistito. Anche la pandemia da coronavirus passerà, e la vita continuerà, anche se diversamente. I paesi ricostruiranno la capacità produttiva nazionale per le forniture e le attrezzature mediche critiche e creeranno strutture istituzionali per gestire un’impennata della capacità di terapia intensiva per le future crisi epidemiche.

Ma queste misure non funzioneranno in una guerra nucleare: nessuna risposta a posteriori all’esplosione di una bomba nucleare può funzionare. Quindi la prevenzione realizzata con la rapida entrata in vigore del Trattato di interdizione delle armi nucleari è l’unica terapia possibile e razionale.

La pandemia da coronavirus ci ha fatto sperimentare – ed è ormai esperienza acquisita di tutti i cittadini e le cittadine del mondo – cosa significhi essere “un unico popolo”, esposto alla vulnerabilità da contagio (pur con variabili legate alle diseguaglianze): pan e demos, unico popolo, appunto.

All’unico popolo inteso come umanità intera si rivolgeva nel 1956 Günther Anders, nelle pagine finali de L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, a proposito della bomba atomica: “La minaccia non cessa mai. È sempre soltanto rimandata. (…) Nessuno se ne libererà più. Per quanto le generazioni venture possano protrarsi avanti nel futuro, ovunque tentino di fuggirla, essa le accompagnerà. Anzi le precederà per mostrar loro la strada: nera nube al seguito della quale si muovono (…). A meno che non troviamo la forza di prendere una decisione (…). Perché una cosa ha ottenuto la bomba: si tratta ora di una lotta della umanità intera. Perché ciò che non sono riuscite a compiere religioni e filosofie, imperi e rivoluzioni, la bomba è riuscita a compierlo: renderci realmente un’unica umanità. Ciò che può colpire tutti ci riguarda tutti. Il tetto che sta per crollare diventa il nostro tetto (…). È poco onorevole che per ottenere questo risultato ci sia voluta la bomba. Ma dimentichiamolo. Ora lo siamo. Dimostriamo che lo possiamo essere anche da vivi”.

Non sprechiamo questa crisi.

 

Enza Pellecchia è direttrice del Centro Interdisciplinare Scienze per la Pace dell’Università di Pisa, membro del comitato scientifico della Campagna Senzatomica promossa dall’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai e membro dell’Unione Scienziati per il Disarmo (USPID). Email: enza.pellecchia@unipi.it