giovedì, Aprile 25, 2024
Diritti

Giurisprudenza della Corte di Giustizia UE sui diritti sociali: le conseguenze della crisi

di Michele Zezza

 

Introduzione

Nell’attuale scenario globale, caratterizzato da una crisi economico-finanziaria iniziata nel 2008 e poi notevolmente acuitasi con il diffondersi della pandemia di SARS-CoV-2 del 2019-2020, l’edificio giuridico europeo, in origine largamente ispirato ai princìpi del costituzionalismo democratico-sociale del secondo dopoguerra, risulta in una fase di trasformazione strutturale. Ci troviamo di fronte a un autentico processo di decostituzionalizzazione, determinato da fattori in ultima analisi estranei al circuito democratico-rappresentativo, che interessa lo stesso diritto primario dell’Unione e quello degli Stati membri (le politiche sociali redistributive e del lavoro, in particolare), sovvertendo in qualche modo la funzione tradizionale del costituzionalismo in quanto meccanismo di limitazione del potere a tutela dei diritti fondamentali. Lo Stato sociale, in questo processo, finisce per essere subordinato alla logica economica del mercato e del contratto, che si configurano sempre di più come categorie paradigmatiche di un nuovo costituzionalismo “regressivo”.

 

Il principio di condizionalità

Un indizio significativo di questa involuzione (giuridico-politica, ma in senso lato anche culturale) si può ravvisare innanzitutto nell’influsso esercitato da alcuni strumenti e istituzioni, in particolare di carattere finanziario, utilizzati al fine di evitare i rischi di default economico-finanziario degli Stati membri. Le politiche di bilancio (di austerity e, più in generale, di revisione della spesa pubblica) attuate dalle istituzioni governative europee hanno limitato in modo significativo la spesa delle amministrazioni, soprattutto nella parte più debole del continente (in paesi come Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda, Cipro e Grecia), determinando conseguenze negative sulla configurazione dello Stato sociale e sul processo di integrazione europea.

Ora, un aspetto essenziale della crisi attuale è costituito appunto dall’influsso esercitato, nella concessione di prestiti e aiuti, dall’accettazione previa di riforme della politica finanziaria e della struttura istituzionale e giuridica degli Stati debitori (principio di condizionalità). I risultati di questa trasformazione possono essere sintetizzati nelle seguenti direttrici d’intervento: un credito conforme alle norme di competenza e alla sua regolamentazione al fine di evitare la formazione di monopoli e di tutelare pertanto i consumatori; una politica tributaria, monetaria e fiscale rigorosa che superi l’obiettivo della stabilità dei prezzi, amministrata da una Banca Centrale Europea intesa come un’agenzia pienamente indipendente rispetto alla politica degli Stati membri e ai suoi organi rappresentativi (Consiglio d’Europa, Consiglio dell’Unione Europea, Parlamento europeo); una relazione tra gli Stati creditori e gli Stati debitori retta dal criterio della condizionalità; e un organismo incaricato di monitorare l’effettiva attuazione delle riforme (in particolare, quelle concernenti i sistemi di welfare e del mercato del lavoro), la cosiddetta “Troika”. A questo scenario occorre aggiungere il complesso delle decisioni legate all’obiettivo della lotta contro la crisi, e in particolare il Fiscal Compact o Trattato sulla stabilità, che per molti versi hanno contribuito a debilitare i princìpi fondanti del costituzionalismo sociale del secondo dopoguerra. 

Come conseguenza dei vincoli creati dai trattati e dagli accordi tra gli Stati, hanno acquisito una rilevanza centrale, nell’ordinamento europeo e di conseguenza nelle riforme strutturali dei sistemi tradizionali di welfarenazionale, princìpi come la stabilità macroeconomica, finanziaria e monetaria, la fiducia nei mercati, la salute delle finanze pubbliche statali (cfr. artt. 119 e 126 TFUE), la competitività, e la sostenibilità delle politiche nazionali, in particolare di carattere sociale (cfr. art. 151 TFUE). Gli effetti più visibili di queste politiche europee e nazionali – adottate in gran misura al di fuori del quadro normativo posto dall’Unione o addirittura in parziale violazione delle norme stabilite col Trattato di Maastricht, poi ribadite e riformulate nel Trattato di Lisbona – possono essere individuati, da un lato, nella subordinazione dei livelli salariali all’indice di produttività industriale; dall’altro, nel sostegno al reddito dei lavoratori in cambio di precisi comportamenti attivi (riqualificazione professionale, accettazione di un’ampia flessibilità, deregolamentazione delle relazioni lavorative, ecc.).

In linea generale, si può affermare che, all’interno dell’ordinamento eurounitario (e ancor prima in quello comunitario), i diritti sociali rivestono un ruolo il più delle volte subordinato rispetto agli obiettivi economici comuni del mercato interno. Essi si configurano per lo più come degli strumenti utili a correggere eventuali pratiche distorsive e ad evitare che un determinato regime concorrenziale possa indebolire la tutela sociale prevista dai singoli Stati membri. La stessa giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea in materia sociale costituisce essenzialmente il risultato dell’esigenza di conciliare il rispetto del diritto a circolare liberamente all’interno del proprio territorio con i sistemi di protezione sociale previsti per i lavoratori, e più in generale per quanti esercitino la libertà di stabilimento garantita dai trattati europei. A questo proposito, al netto di alcune oscillazioni, lo scenario più frequente che riassume il ragionamento della Corte di giustizia è il seguente: gli Stati possono applicare i loro diritti fondamentali (e in particolare sociali) finché essi non interferiscano con l’applicazione del diritto europeo e con la uniforme prevalenza dei diritti e delle libertà da esso riconosciute e disciplinate. 

La strumentalità dei diritti sociali rispetto alle esigenze del mercato unico emerge con evidenza quando si considera il seguente dato: la normativa europea in materia sociale (in particolare, le disposizioni contenute nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) si limita alla disciplina di disposizioni in gran parte di tipo programmatico o teleologico, la cui attuazione richiede pertanto la successiva fissazione di criteri orientati a controllare il comportamento dei loro destinatari. Particolarmente rilevante, al riguardo, è l’art. 52 della Carta, orientato a fissare la portata dei diritti e dei princìpi contenuti e a definire norme per la loro interpretazione: tale norma preclude alle disposizioni che saranno qualificate dall’interprete come princìpi la possibilità che esse siano concepite come diritti soggettivi autenticamente giustiziabili. In particolare, il paragrafo 1 stabilisce che eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà «possono essere apportate […] solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui».

Prima ancora che i limiti testuali della Carta, ad ogni modo, è l’impossibilità stessa di attuare (e finanziare) politiche pubbliche di carattere redistributivo a costituire l’ostacolo principale all’elaborazione di misure di protezione sociale da parte dell’Unione. Inoltre, la scarsa efficacia delle norme di contenuto sociale della Carta europea dipende essenzialmente dal modo in cui il giudice dell’Unione ha concepito il proprio ruolo in rapporto agli altri poteri.

 

La giurisprudenza in materia di diritti del lavoro e della sicurezza sociale

Sul terreno dei diritti sociali, i provvedimenti più rilevanti hanno riguardato l’ambito giuslavoristico, le riforme pensionistiche e quelle del sistema della sicurezza sociale, i settori del sistema sanitario nazionale e quello dell’istruzione. Sono numerose, al riguardo, le decisioni della Corte di giustizia da cui si evince, in linea generale, che i diritti sociali possono ottenere un riconoscimento (essere elevati allo status di diritto fondamentale) solo qualora contribuiscano ad attribuire rilevanza alle tradizionali libertà economiche di circolazione dei capitali, delle persone, delle merci e dei servizi (le quattro libertà del mercato comune europeo): tra le più rappresentative, si possono considerare le decisioni in materia di diritto di sciopero (sent. Viking: C-438/05, 2007), di lotta sindacale (sent. Laval: C-341/05, 2007) e di salari minimi (sent. Rüffert: C-346/06, 2008); le sent. ADBHU (C-240/83, 1985) e Commissione delle Comunità europee contro Granducato del Lussemburgo (C-319/06, 2008). Occorre però osservare che, in alcune sentenze relativamente recenti (26 giugno 1997, causa C-368/95, Familiapress; 12 giugno 2003, causa C-112/00, Schmidberger; 14 ottobre 2004, causa C-36/02, Omega), la Corte sembra disposta a limitare le “libertà fondamentali” al fine di tutelare “diritti fondamentali” come riconosciuti dalle tradizioni costituzionali nazionali e dalla CEDU, orientandosi pertanto verso una collocazione dei diritti e delle libertà su un terreno di parità assiologica. In questo quadro, non è esagerato affermare che, in molti casi, i diritti sociali siano “funzionalizzati” alle esigenze di competitività del mercato comune europeo, della libera concorrenza e più in generale dello sviluppo economico. Si viene spesso a determinare, nel ragionamento della Corte, una sorta di gerarchia assiologica implicita, il cui risultato è quello di relativizzare (sacrificare, devitalizzare) unicamente i diritti sociali.

 

Il fondamento del ragionamento della Corte in materia di diritti sociali

L’ordinamento eurounitario, in questo contesto di metamorfosi generale, si configura sempre di più come un sistema con la finalità di immunizzare il capitalismo transnazionale dalle possibili interferenze del potere democratico, adombrando in questo senso una visione del diritto come portato sovrastrutturale dei processi economici. Da questo punto di vista, emerge un’asimmetria di fondo tra grandezze disomogenee quali il riconoscimento formale dei diritti sociali e il principio dell’equilibrio dei conti pubblici; uno squilibrio tra le norme costituzionali e la prassi effettiva, che trova espressione essenzialmente nella prevalenza assegnata alla garanzia del corretto funzionamento dei mercati e dei vari aspetti della governance economico-finanziaria di fronte alle funzioni dello Stato sociale democratico. I diritti sociali, in questo quadro, finiscono per risolversi in mere “opportunità condizionali” (J.M. Barbalet) inevitabilmente vincolate alle scelte discrezionali dell’amministrazione, la cui soddisfazione è legata alle possibilità effettive all’interno dei bilanci pubblici ed alle scelte politiche contingenti. Di contro, i valori economico-finanziari acquisiscono lo status di principio materiale che in qualche modo orienta la produzione e l’interpretazione giuridica, condizionando la sfera stessa delle decisioni sovrane degli Stati. La comprensione di questa metamorfosi costituzionale, che probabilmente non si è ancora realizzata in tutte le sue potenzialità, rappresenta una tappa necessaria per la costruzione di nuovi approcci che riconoscano la medesima dignità teorica dei diritti, non soltanto sul piano formale delle gerarchie delle fonti, rifiutando al contempo quella logica economicista che subordina la tutela dei diritti sociali alle esigenze dei mercati, delle istituzioni monetarie e bancarie e più in generale alla realizzazione delle tradizionali libertà economiche di circolazione dei capitali, delle persone, delle merci e dei servizi.

 

Michele Zezza è ricercatore di postdottorato nel Dipartimento di Teoria do Estado dell’Universidade de São Paulo e Visiting researcher al Global Studies Institute dell’Université de Genève. Email: michele.zezza@for.unipi.it